Qualche anno fa mi è capitato di ricevere la visita di un contadino di un lontano paesino del Subappennino meridionale posto al confine con l’Irpinia. Per telefono mi aveva chiesto se in Biblioteca ci fossero delle bibbie in ebraico. Si presentò con l’intera famiglia a seguito: la moglie, una donna dimessa dallo sguardo spento; la figlia, poco più che adolescente, dagli occhi tristi che guardavano il nulla. Feci trovare sul tavolo le Bibbie richieste, ma il signore non conosceva l’ebraico. Mi parlò invece della figlia, sfortunata, piena di grandi disgrazie perché oppressa da molti e gravi influssi malefici. Dalla bibbia ebraica cercava una risposta, una parola magica che le avrebbe tolto la negatività. Rimasi esterrefatto ma la reazione fu molto caritatevole in considerazione del degrado culturale e, forse anche spirituale, del mio interlocutore. Gli consigliai di pregare perché tutto è nelle mani di Dio. Gli dissi che era necessario abbandonare queste idee e riacquistare ottimismo: la giovane non mi pareva negativa, mi sembrava in buona salute. Non dissi tuttavia che la malattia della ragazza era suo padre.
Qualche anno dopo ebbi un’altra visita. Sempre con moglie figlia al guinzaglio. Questa volta aveva bisogno dell’Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, da cui deriva il nostro Barbanera, in un’astrusa edizione del sec. XVI. Non gli dissi che in biblioteca era presente un’edizione ottocentesca del Rutilio. In tutti i casi il signore aveva bisogno di quella specifica edizione che cercammo in altre biblioteche della zona, in Internet ecc. senza risultati. Se ne andò tutto mortificato perché la figlia, anche stavolta, si riportava a casa la sua negatività. La negatività della figlia della quale sempre si trattava, però, se n’era andata per conto suo già da qualche tempo. La ragazza mostrava appieno i suoi diciotto anni, bella, sorridente, curiosa, guardava con aria divertita il padre che scavava alla ricerca della pietra filosofale.
Altro episodio di diverso genere.
Bari, Pinacoteca provinciale, 1987. Alla mostra delle icone mariane di Puglia, organizzata in ricordo dell’anno centenario del Concilio Ecumenico Niceno II, il posto della Madonna dei sette veli di Foggia è vuoto. La guida, una bella ragazza attrezzata di adeguata parlantina, dice il perché e il percome dell’assenza: l’antica icona appariva priva della tradizionale copertura da cui prendeva il nome dei sette veli; in seguito a certe proteste, il vescovo i Foggia l’ha ritirata. Interrogata su cosa volessero significare i sette veli, la guida rispose è una superstizione.
Altra superstizione legata alle icone è riportata dal Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, ed. UTET, il quale alla voce superstizione riprende la testimonianza di uno scrittore dei secoli passati: Ridicola e strana è l’opinione, o superstizione dei Moscoviti in un particolare: Non direbbero: io vendo o compro l’Immagine di un tal Santo, reputasi a scrupolo un simil modo di parlare. Diranno: barattare volete in tanto argento la tal immagine?
Questi quattro episodi sintetizzano la difficoltà di definire la superstizione, e di impostare una qualsiasi ricerca su di essa. Alla difficoltà contribuisce l’incertezza semantica di una parola adusa a una quantità di interpretazioni diverse e spesso lontanissime fra loro.
Il primo gruppo di ricordi, quelli che hanno per protagonista il contadino irpino, esprime senza dubbio un concetto classico di superstizione: una parola, una cosa, un gesto, un avvenimento viene caricato di un potere salvifico o distruttivo del tutto alieno dalla povera materialità dell’oggetto.
Discorso diverso quello sulle icone per le quali è necessario fare alcune considerazioni. Oggi in Italia è abbastanza frequente incontrare raccolte e mostre di icone. Anche la nostra città di Foggia è attualmente ricca della bella collezione dell’Arcivescovo Mons. Tamburino. Sono frequenti anche gli studi sulla tecnica, l’estetica, la teologia delle icone. Inoltre dallo studio delle icone è possibile delineare alcuni rapporti artistici tra le varie regioni del Mediterraneo Orientale, ivi compresa la nostra Puglia. È difficile a noi, ammalati di razionalismo, immaginare per le raffigurazioni religiose una funzione diversa dall’informazione, dalla catechesi, dall’aspetto formativo dell’intelletto, prima che del cuore. Anche il grande Papa S. Gregorio Magno non andava oltre questo concetto quando difendeva la validità delle icone. In effetti, se vogliamo parlare delle icone, dovremmo spogliarci di diversi concetti ereditati ed entrare in un mondo diverso. Dovremmo tornare, sulla scorta del Dio è amore di S. Giovanni Evangelista, a considerarci come i punti terminali del lungo itinerario dell’amore che partendo da Dio Padre, per l’opera dello Spirito Santo crea il mondo e l’uomo. L’uomo, a sua volta, è tanto prezioso agli occhi di Dio, che, quando per sua colpa rischia di affogare nella sua materialità, il Padre non esita a donare il Figlio perché operi il riscatto. Il Figlio per opera dello Spirito Santo diventa uomo. Il Verbo del Padre, la sua Sapienza increata, diventa uomo, assume sembianze umane; i suoi lineamenti entrano nel ricordo grato e gioioso di ogni cristiano come presenza viva e creatrice. L’icona è la preziosa rappresentazione del Dio-Uomo, il Signore Gesù. La presenza del Signore nella storia umana non avviene più per la mediazione dei segni e dei profeti, ma direttamente. L’icona è l’attuale presenza del Signore. L’icona è oggetto di culto. Anche la stessa confezione dell’icona è un atto di culto. Prima di iniziare il lavoro l’iconografo deve pregare a lungo, deve digiunare, entrare in sintonia con lo Spirito Santo da cui riceverà l’ispirazione. L’arte raffinata, la tecnica rigorosa, i materiali preziosi sono le parole attraverso cui l’iconografo dà voce all’ispirazione. L’icona che ne deriva è una sorta di nuova incarnazione del Figlio di Dio il quale riverbera la sua luce sul volto della Madre e dei Santi.
Questo ci fa comprendere la ritrosia dei moscoviti a usare le parole vendere e comprare nell’acquisizione delle icone. Si può comprare un oggetto frutto di ingegno, fatto con materiali preziosi; ma non si può comprare la profonda configurazione religiosa di una icona, la cui preziosità nella vita del credente è grande quanto l’amore di Dio. Certo, per molti cristiani orientali, come per molti versi anche per molti occidentali, la ritrosia a usare le parole comprare e vendere sono giunte e recepite da una lunga tradizione di cui non si è abbastanza consapevoli. Non bisogna pensare, tuttavia, che il preziosismo linguistico dei moscoviti celi una qualche volontà truffaldina tesa a mutare il significato delle parole per ottenere il risultato voluto. Esiste una lunga e grande tradizione teologica in merito che prende le mosse dal celebre incontro di S. Pietro col mago Simone il quale, come ricordano gli Atti degli apostoli, voleva comprare il potere di far miracoli. Da quel momento la simonia, lungi dall’essere debellata, ha fatto grandi passi, inserendosi in alcuni periodi della storia, anche nelle pieghe della vita ecclesiale.
L’episodio relativo alla Madonna dei Sette Veli ci porta al tema della preziosità dell’icona, spesso ricoperta da lamina d’oro e di argento dorato, chiamata riza su cui talvolta sono incastonate perle e pietre preziose. Tra le icone ricoperte da lamina tempestata di pietre preziose, si ricorda la Vergine Nicopeia conservata a Venezia, frutto delle rapine della IV Crociata. Alcuni dicono che ragione di questa copertura potrebbe derivare dall’esigenza di proteggere i dipinti dai fumi delle candele, dall’eccesso di umidità dovuto all’accalcarsi di molte persone durante le assemblee liturgiche, o dalle esalazioni delle case contadine o delle stufe dei palazzi patrizi. Ma probabilmente la ragione va cercata nell’ambito strettamente religioso. È tradizione della Chiesa ricoprire stabilmente o in certe circostanze alcuni elementi del tempio con fastosi apparati di panni e lamine preziose, e questo indipendentemente dalla bellezza, dalla dovizia artistica già esistente. Così gli altari, già ricchi di sculture e intarsi, vengono ulteriormente coperti con tovaglie ricamate e preziosi antependium, ricchi di ricami, pietre preziose e non di rado, anche di immagini finemente delineate con tecniche varie. Spesso la parte anteriore dell’altare, già splendida di opere d’arte, viene coperta dal paliotto removibile eseguito a ricamo d’oro o costituito da pregevoli opere d’oreficeria, come il famoso paliotto di S. Nicola a Bari. Anche i monumentali tabernacoli per la reposizione delle specie eucaristiche sono ricoperti di preziosi conopei che, quando vengono aperti per estrarre dalla porticina le ostie consacrate, fanno intravedere le bellezze scultoree dei marmi e degli smalti. Il motivo di queste splendide vesti si legge nel libro dell’Apocalisse dove la Chiesa, sposa dell’Agnello appare radiosa di bellezza e di decoro:
Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino puro splendente (19, 8); Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna di gioielli per il suo sposo (21, 2).
Credo che le coperture con cui la Madonna dei Sette Veli è presentata sia il ricordo di questa lamina preziosa che una volta la ricopriva. La lamina è chiamata riza, parola sconosciuta nella lingua italiana, come in quella latina, presente in lingua greca, ma col significato di radice e, in tale veste, utilizzata nel linguaggio scientifico.
Queste poche considerazioni sono state fatte allo scopo di sottolineare come con la parola superstizione rischiamo di mettere insieme fatti di autentica superstizione, ma anche momenti di profonda religiosità che l’ignoranza o la pigrizia ci impediscono di capire.
La superstizione si presenta, quindi, come un fenomeno che estende la sua ombra su un enorme quantità di situazioni che vanno dalla vita privata, alle malattie e ai disagi in generale, alla vita pubblica, agli affari, alla vita sentimentale, alle relazioni umane e alla stessa religione.. Si estende anche agli avvenimenti casuali, per i quali non si può immaginare che abbiano un rapporto fisso e necessario con lo svolgersi della vita. Un gatto nero o una scala a forbice che ingombra una strada non sono dotati di particolari qualità al di fuori di quelle che da per sé esprimono.
Un censimento di tutte le forme di superstizione è praticamente impossibile.
La superstizione è un fenomeno che nella sua contraddittorietà incide fortemente nella nostra vita. Basti pensare ai tanti santoni paesani e cittadini, alle trasmissioni televisive, ai messaggi miracolistici ammanniti da personaggi adusi a contare monete più che ave marie. Le rilevazioni statistiche fanno sapere l’enorme quantità di denaro che ogni anno in Italia si spende per queste pratiche.
Gli antichi, che avevano la mania delle etimologie, facevano derivare la parola da super stare riferendosi a una presenza che, fissa e granitica, incombe dall’alto, osservando con ostilità la vita degli uomini, pronta a scatenarsi al realizzarsi di un avvenimento, alla pronuncia di una parola, all’accenno di un gesto. L’atto superstizioso deriva, quindi, dal terrore che questa divinità, o forza, si scateni per motivi che nessuno di noi conosce, nei confronti della quale non ci sono rimedi. L’unica cosa che si può fare è evitare gli atti e le situazioni che ne scatenano l’ira, come evitare di passare sotto la scala, evitare di incrociare un gatto nero o incontrare una persona notoriamente portatrice di sfortuna. Si può anche ricorrere a stratagemmi ed espedienti vari per neutralizzare quella che il contadino irpino chiamava “negatività”. Anche le entità cattive, infatti, hanno i loro nemici. Gli amuleti, i portafortuna, i corni, i numeri 13, le pietre miracolose hanno il privilegio di bloccare il maleficio scatenando forze contrapposte. Anche alcune pratiche religiose sono intese in senso superstizioso. Un rosario appeso allo specchietto retrovisore ha più potere salvifico dell’osservanza puntuale del codice della strada. Tra le icone ricoperte da lamina tempestata di pietre preziose, si ricorda la Vergine Nicopeia conservata a Venezia, frutto delle rapine della IV Crociata. da, un’immagine di S. Matteo, meglio se due, ti mette al sicuro da un colpo di fucile mentre stai compiendo una rapina. La protezione della Madonna e dei santi viene allegramente estesa anche all’esercizio della rapina e del malaffare.
Negli ultimi tempi abbiamo saputo dai giornali di una delle ultime forme di uso magico di elementi religiosi. In alcuni covi della sacra corona unita sono stati scoperti altarini con crocifissi e immagini di santi fra cui anche il nostro S. Matteo dinanzi a cui si faceva la professione criminale e su cui si giurava. Il Signore e i suoi santi, strappati dai loro altari sono costretti a garantire e sviluppare il potere criminale. Ricordo anche le vistose teste di Cristo Crocifisso in oro massiccio appesi a robuste catene d’oro pendenti da colli villosi di personaggi di facile classificazione sociale. D’altra parte non c’è mafioso che non si dichiari fervente credente, pieno di immaginette e formule magiche. La pratica superstiziosa della fede è un dato costante e trasversale che attraversa quasi tutto il popolo di Dio con la forza che gli deriva da una consapevolezza religiosa rimasta allo stadio infantile. Fa senso, per es., vedere manifesti funebri dominati non dalla croce, segno della nostra redenzione, ma dall’immagine di Padre Pio o della Madonna.
A San Marco si ricorda il devoto pellegrinaggio di un gruppo di briganti al Santuario della Madonna di Stignano per ringraziarla per un colpo particolarmente riuscito. I briganti furono generosi e fecero una pingue offerta. Molti anni fa regalai all’indimenticabile prof. Pasquale Soccio un’acquaforte comprata per poche lire su una bancarella romana. Raffigurava un brigante che alla fine di onorata carriera, dinanzi all’immagine della Madonna appendeva come ex voto di ringraziamento il suo trombone munito di fiaschetta per la polvere.
Il nostro Padre Michelangelo Manicone nella sua opera principale La fisica appula, parla dell’uso superstizioso della benedizione con l’olio della lampada che ardeva nel sacello della Reliquia di S. Matteo Apostolo, e spiega da par suo che le malattie ordinariamente vengono curate dai medici. Certamente il paziente può tranquillamente recarsi in pellegrinaggio al Santuario, ricevere la benedizione e chiedere la grazia della guarigione, ma deve ben essere cosciente che la benedizione non è un atto magico, bensì l’affidamento al Creatore della vita il quale opera i suoi miracoli anche tramite i suoi servi medici a cui ha affidato il compito di confortare e, qualche volta, anche di guarire.
Gli autori che fanno derivare la parola superstizione da super stare, dicono che il fenomeno si può classificare come un atto di religione prestato a un’entità inesistente a cui si attribuiscono poteri chiaramente fantasiosi, o prestato a Dio e ai suoi santi, ma in modo indebito, esagerato, indecente o offensivo.
Le forme più frequenti della superstizione sono la vana osservanza e la divinazione. La vana osservanza è costituita dall’osservanza scrupolosa di certe regole e comportamenti a cui si attribuisce particolare efficacia di fronte a certe situazioni. Il contadino irpino offre un esempio.
La divinazione è il tentativo di conoscere il futuro tramite una svariata gamma di pratiche che vanno dall’innocente adolescenziale sfogliare la margherita, all’evocazione dei defunti e dello stesso satana. Si ricorda fra le altre la chiromanzia ossia la lettura delle linee della mano, la cartomanzia; ci sono poi gli aruspici che leggono il futuro attraverso l’esame delle viscere degli animali, gli auspici, che deducono il futuro dal volo degli uccelli.
La superstizione è anteriore alla fede. Il cristianesimo si è innestato non su un terreno neutro e sterile, ma in ambienti culturalmente evoluti. Molte credenze precristiane sono state metabolizzate, pur con molta difficoltà. Altre sono state archiviate nei recessi dei bisogni, della pigrizia e, soprattutto dei linguaggi. A volte accade che un contenuto autenticamente religioso venga espresso con un linguaggio che sa di superstizione. Una fra tutte: le sortes Apostolorum vengono praticate in ambito cristiano negli Atti degli Apostoli. Bisognava scegliere un nuovo apostolo che prendesse il posto di Giuda. Furono proposti due nomi e si gettarono le sorti. La sorte cadde su Mattia. In seguito questo rito fu intensamente praticato con intenti divinatori, soprattutto per indagare se le proprie scelte di vita collimavano con la volontà del Signore. Per tre volte di apriva a caso il Vangelo. Se i brani erano coerenti fra loro, era evidente che rappresentavano la volontà di Dio. Nonostante la pratica fosse stata proibita già del sec. VIII con i Capitularia di Carlo Magno, continuò tranquillamente il suo corso per tutto il Medio Evo. Uno dei personaggi che vi fece ricorso fu S. Francesco d’Assisi.
La superstizione antica aveva una forte configurazione contadina. Di fronte ai capricci delle stagioni, al pericolo delle malattie, alle infestazioni di topi e cavallette, era facile per il contadino cedere alla tentazione di porre domande a fantasmi. Alcune pratiche divinatorie sono proprie del mondo contadino come le calende. Mi capitò un giorno, lavorando in biblioteca a S. Matteo, di leggere all’interno di una copertina di un libro settecentesco uno strano elenco. A cominciare dal giorno seguente l’Epifania, 7 gennaio, fino alla conversione di S. Paolo, 25 gennaio, per ogni giorno era annotato lo stato del tempo atmosferico: pioggia, vento, sole caldo, neve ecc. Mi sembrava strana la puntigliosa precisione della relazione. Poi mio padre, vecchio contadino, mi spiegò l’arcano dicendomi si trattava delle calende, metodo in uso presso i contadini per prevedere lo stato del tempo fino alla raccolta. Ridisse anche che se nel giorno della festa di S. Paolo pioveva, il raccolto di grano sarebbe stato abbondante. Nel mondo contadino, tuttavia, la superstizione non era mai fine a se stessa, aveva una funzione strumentale e non voleva mai mettersi in contrasto con la religione. D’altra parte il famoso Almanacco Perpetuo di Rutilio Benincasa, richiesto dal contadino irpino, da cui tutti gli indovini del mondo contadino traevano auspici, sostanzialmente era un libro innocente e molto utile: Era una sorta di compilazione enciclopedica che assicurava ai contadini una cultura di base semplice e solida. Si parlava anche di astri, di costellazioni e di influssi. Ma questi argomenti non eccedevano il normale svolgersi della vita nei campi.
Ma ora questa tradizione non esiste più.
Bisogna prendere atto che oggi la superstizione, abbandonate le vecchie forme contadine, si espande a macchia d’olio nelle città, proprio dove la dovizia dell’informazione, il prevalere della scienza, il benessere economico, la diffusione della cultura dovrebbero mettere uomini e donne al riparo da queste pratiche malsane. Oggi la superstizione capitalizza i disagi provocati dall’appiattimento della cultura di massa basata sul consumismo, dell’individualismo esasperato che porta alla solitudine e all’alienazione, dell’edonismo; parla il linguaggio dei soldi dicendo che tutto è commercio, tutto si può avere, perché, parafrasando Dostojevski, se Dio non esiste tutto è possibile. Crescono come funghi santoni e guaritori, indovini e distributori di filtri. L’ultima che ho sentito: un tizio guarisce dall’omosessualità, ma la cura è costosa, molto costosa. Oggi la superstizione ha superato i confini delle necessità dell’esistenza. È diventata qualcosa di più raffinato e profondo. Vuole rivedere lo stesso essere dell’uomo, il perché della sua presenza sulla terra, il fine verso cui s’incammina. La superstizione ha assunto una funzione formativa che prima non aveva e trova terreno fertile nella tabula rasa dell’indifferentismo e del relativismo pratico, anche dei credenti. Oggi la superstizione va alla grande e si sviluppa in proporzione del diminuire del senso religioso.
Ma il senso religioso diminuisce anche per la scarsità di una catechesi che non solo dia contenuti, ma che si esprima, come nella vecchia cultura contadina, col linguaggio dei fatti, della storia e dell’annuncio.Vorrei perciò terminare questi pochi appunti con un accenno ad alcune pratiche religiose di estrazione contadina dal vago sapore superstizioso, ma ben dentro un ambiente di fede.
Ho letto qualche tempo fa il bel libro di Michele De Filippo Oglio di cranio umano. Magia, medicina e religiosità nella tradizione popolare garganica. Il libro è pieno di preghiere da rivolgere a Dio e ai suoi santi nelle occasioni più disparate. Qua e là s’incontrano delle perle.
A pag. 101 del libro si trova un bellissimo esempio di contenuto biblico che, pur espresso in linguaggio popolare, non perde affatto il suo dirompente essere altro proprio del Vangelo. In mezzo al mare c’è una navicella che deceva la messe Ggese Criste ... assistono alla messa S. Giovanni Evangelista e la Vergine Maria. Abbiamo una serie di citazioni. La prima è costituita proprio dall’accostamento di Giovanni e di Maria, resi responsabili l’uno dell’altro da Cristo stesso morente sulla croce: Donna, ecco tuo figlio, Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. La seconda citazione è del Vecchio Testamento. La Madonna è afflitta e piange. Il Figlio divino interrompe la Messa: Mamma mamme pecché piange tanto?. Piango, dice la Mamma, perché 'la feste l’anne vulutete a lunedì'. Ormai la festa non è più il giorno del Signore e la gente pensa solo agli affari. Cogliamo qui la gravità del precetto così come è espresso nel Vecchio Testamento, libro dei Numeri (15, 35), dove Dio commina la pena di morte al violatore del sabato. La reazione di Gesù è in linea col citato passo del libro dei Numeri: Mo nghiene sopa lu cile celeste faccio lambe, tuone e ttembeste a chi n’adore la sanda feste. Ma Gesù non ha fatto i conti con l’affetto che sua Madre ha per i fratelli di suo Figlio. Anche se cattivi, son pur sempre suoi figli. E poi, anche lei ha qualcosa da dire riferendosi proprio a quel Vecchio Testamento da cui Gesù pare dedurre la legittimazione ai suoi propositi distruttivi. Ai piedi del Monte Sinai, quando il Signore Dio, irato perché il popolo adorava il vitello d’oro fatto da Aronne, aveva detto a Mosé 'Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione (Esodo, 32, 9-14), Mosè, sapendo che il Signore per le promesse fatte ad Abramo, Isacco e Giacobbe, mai avrebbe fatto un male irreparabile al suo popolo, lo supplicò a favore dei suoi fratelli. Alla fine Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
In un altro passo si legge la preghiera da fare in occasione di furiose tempeste, con una bella sequenza di citazioni bibliche Respigghiete, Sammichele e nne ndurmì ca veche tre nuvole de venì: una d’acque, una de vinde e una de cattive timbe. È evidente la dipendenza dall’episodio della tempesta sedata (Matteo, 8, 23-27; Marco, 4, 35-41). La costruzione del secondo verso si avvale del ricordo della nuvola, piccola come una mano d’uomo, che sale dal mare vista dal servo del profeta Elia dalla cima del monte Carmelo. D’un tratto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e ci fu una grande pioggia (1 Re, 18, 41-43).
A volte i personaggi biblici sono oggetto di dinamismi attualizzanti. Tale il caso di S. Paolo Apostolo. Michele De Filippo in più luoghi accenna ai Sanpaulere, a cui si attribuiscono poteri di guaritori a beneficio delle persone morse dalle vipere. A S. Marco in Lamis per dire di una persona che si spaventa e chiede aiuto anche quando il pericolo è del tutto assente si dice: Ancora non vide la serpa e già chiame a Sant Pavle. Ci si riferisce al noto episodio narrato da S. Luca negli Atti degli Apostoli (28, 1-6). S. Paolo era stato imprigionato ed era in attesa di giudizio. Poiché era cittadino romano, essendo nato a Tarso di Cilicia città insignita della cittadinanza romana, fu spedito a Roma per essere giudicato dai tribunali imperiali. Durante il viaggio una terribile tempesta scagliò la nave sulle rive di Malta. Durante la notte i prigionieri e l’equipaggio accesero un gran fuoco per riscaldarsi. Paolo aiutava raccogliendo sterpi. Da un cumulo di frascame sbucò una vipera che gli morse la mano e vi rimase attaccata. Gli astanti, terrorizzati, si dicevano l’un l’altro Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere. Ma Paolo, scossa la mano, lasciò cadere la vipera nel fuoco e gli astanti, visto che non succedeva nulla, cambiarono parere sul suo conto e 'dicevano che egli era un dio'. La storia del Sanpaulere è tuttavia più lunga, come il De Filippo fa intuire. Il nome e il ruolo di guaritore si attribuivano all’ultimo di sette fratelli maschi a cui, a S. Marco in Lamis, ma penso anche in altri paesi, al battesimo si imponeva il nome di Paolo. S. Paolo, infatti, dice di essere l’ultimo degli apostoli (1 Corinti, 15, 8) Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la chiesa di Dio.
Le citazioni attualizzanti del Vecchio e del Nuovo Testamento nelle tradizioni popolari sono innumerevoli. Lo stesso fenomeno si osserva leggendo la sconfinata letteratura popolare alla luce della liturgia, delle devozioni e della letteratura devozionale.
Tutto si riconduce al problema della comunicazione religiosa, alla capacità di restituire pubblicamente i contenuti del messaggio evangelico attraverso la liturgia, la preghiera privata, la vita quotidiana che accompagnano e potenziano le potenzialità ricettive del popolo di Dio.
Due piccoli esempi che la dicono lunga. Fra poco entreremo nel clima di Pasqua. I nostri bimbi si attendono l’uovo di cioccolata con la sua brava sorpresa. In origine l’uovo, o meglio il suo pulcino, erano un simbolo della Risurrezione di Cristo. Gesù, infatti, per propria potenza e senza l’intervento di nessuno, rompeva dall’interno il duro guscio del suo sepolcro e sorprendendo tutti emergeva a nuova vita. Oggi quel che è rimasto di questo simbolo, efficace espediente catechetico, è sotto gli occhi di tutti. Altro esempio è il crisantemo. Fu adottato dai cristiani con lo stesso significato che ancora oggi gli danno i giapponesi: il sole nascente da cui tutto vive. Per i cristiani è il Verbo Incarnato In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini' (Giovanni, 1, 4) da cui tutti vivono e da cui i morti avranno nuova esistenza. Il gioioso simbolo della vita e della risurrezione, ora è diventato il fiore dei morti, da evitare nelle feste nuziali come segno di malaugurio.
La parola di Dio arriva incarnandosi nella loro vita e assumendo anche le incertezze semantiche e la povertà del loro linguaggio. A volte è difficile capirsi con Dio perché la sua parola arriva a noi mescolata con molte umanità. È chiaro che la pratica religiosa ne risente.
Nei libri rituali antichi si avverte l’esistenza di una linea ascendente che partendo dalla vita quotidiana e dal complesso delle credenze dedotte da culture diverse, addirittura precristiane, arriva talvolta ad influenzare la liturgia. È questa una pista che forse meriterebbe una qualche attenzione da parte degli studiosi.
Vi cito, a questo proposito, un gustosissimo esempio: la benedizione dei Maleficiati, vale a dire le persone colpite da malefici, fatture, incantesimi ecc. Tale benedizione non esiste nei libri liturgici attuali, ma era facile trovarla in diversi stampati fino alla metà del sec. XIX. La fonte di cui mi son servito è la Collectio sive apparatus absolutionum, benedictionum, coniurationum, exorcismorum ecc. compilato dal Frate Minore Bernardo Sannig, Napoli, 1847, e stampato più volte dal sec. XVII in poi. Il rito è costituito la una lungo testo, scandito da ampi segni di croce in cui i vari malefici vengono nominati in generale te benedicat (Omnipotens Deus) et liberet te ab omnibus maleficiis, incantationibus, ligationibus, segnaturis, et facturis. Segue una benedizione più dettagliata relativa a una lunghissima serie di situazioni entro cui può avvenire il maleficio ut nocere tibi non possit, sive sit in aere, aut in plumbo, aut argento, aut in auro, aut in aliquo filato bombicino, vel serico, vel lineo, vel in ossibus hominum mortuorum… etsi est in Agro, vel vinea, vel horto…et si est in Oriente, vel Occidente… in rebus domis… nec in die, nec in nocte…. Segue l’imposizione al maleficio di allontanarsi dalla persona nel nome del Dio di Abramo, di Isacco. Termina con la benedizione al fedele offeso a cui, accompagnato dai cori degli Angeli beati, si augura ogni bene spirituale e materiale.
P. Mario Villani
Santuario di S. Matteo 14 marzo, 2012