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Appunti sui rituali di pellegrinaggio al Gargano nei sec. XVII-XIX
I pellegrini al Gargano
E' noto, parimenti, che questi tipi di pellegrini, proprio nell'assidua e diuturna frequentazione di questi luoghi hanno assorbito, a loro volta, contenuti religiosi nuovi con rilevanti influssi sugli atteggiamenti e le abitudini religiose.
In particolare la Via dei Pellegrini, da Stignano all'Incoronata di Foggia, collegando in successione incalzante in meno di cento chilometri un notevole numero di santuari, consente alle comitive di sviluppare un discorso spirituale unico e insieme articolato, fatto non solo di azioni più propriamente religiose individuali e collettive, come i sacramenti, la preghiera e la meditazione, ma anche di esperienze vitali come la convivenza e la condivisione tra persone diverse in condizioni difficili, la privazione di molti beni e comodità, l'accettazione delle insicurezze e dell'autorità. Si aggiunga che tutto ciò è vissuto in clima di forte rievocazione di ciò che lungo i secoli è accaduto lungo queste strade, e di come queste contrade si siano trasformate nel tempo divenendo i luoghi di Dio; come e perché siano legate l'una all'altra, e il significato perenne che questo legame storico esprime.
Benché oggi siano quasi soverchiati da flussi devoti recenti diretti soprattutto al santuario di P. Pio, questi pellegrini hanno conservato nel tempo le caratteristiche originarie, e si distinguono nettamente da questi ultimi per la complessità del rapporto che hanno col territorio garganico e i suoi santuari. Provengono in maggioranza dalle province di Foggia, Bari, Lecce, Taranto, Brindisi, Campobasso, Isernia, Chieti, L'Aquila, Avellino, Benevento, Napoli, Salerno, Potenza e Matera, Lazio meridionale. Molti di essi abitano in piccoli centri agricoli di poche migliala di abitanti o in agglomerati rurali.
Le comitive sono caratterizzate da esclusivo interesse religioso. Gli interessi economici sono del tutto assenti; l'eventuale utile che si ricava dal pellegrinaggio viene destinato alla festa patronale o alle necessità della chiesa (Nota 1).
I gruppi sono organizzati sempre dalle medesime persone, chiamati 'priori', a cui la comunità riconosce una precisa funzione di ordine religioso. Il priore è l'organizzatore, il direttore e animatore religioso, guida i canti e le pratiche devozionali avvalendosi di un gruppo di collaboratori costituito secondo una gerarchla di gradi e di funzioni la cui trasmissione da una generazione all'altra avviene talvolta per via ereditaria: il capo-segretario, il 'portacristo' (crocifero), i portatori di lampioncini, di campanello.
I capi-compagnia ordinariamente guidano ogni anno un solo pellegrinaggio, raramente due, ricostruendo quasi sempre lo stesso gruppo degli anni precedenti.
La coesione interna del gruppo è completa: ogni membro sa quel che deve fare secondo schemi antichi e accettati da tutti. L'affidamento e l'assunzione di responsabilità avvengono sulla base di rigide regole trasmesse dalla tradizione, chiaramente riconosciute da tutti. I capi sono gelosi della loro autonomia.
La quasi totalità dei gruppi si organizza al di fuori delle strutture ecclesiastiche territoriali, parrocchie e diocesi, ma senza alcuna concorrenzialità con esse. Ai sacerdoti è riservato il ruolo istituzionale di insegnare, benedire e santificare, ma sono del tutto esclusi da questioni organizzative o finanziarie.
Le componenti civili e religiose della comunità riconoscono ai pellegrini il ben preciso ruolo di rappresentare la totalità della popolazione presso il Santo verso il cui santuario si incammina (Nota 2). In molti paesi a questi pellegrinaggi viene di fatto riconosciuto un vero e proprio ruolo pubblico e sono organizzati anche col concorso delle amministrazioni comunali (Nota 3). D'altra parte, una delle caratteristiche più evidenti di questi pellegrinaggi è che non sono mai generici, bensì dotati di forte senso di appartenenza alla propria comunità che si esprime con gli iniziali riti di benedizione nella chiesa principale, con l'accompagnamento continuo dei santi patroni e dei defunti, come anche col ricordo dei parenti e amici lasciati in paese.
I Rituali di pellegrinaggio come espressione di unità del gruppo: le Confraternite
Secondo i Rituali letti, la compagnia dei pellegrini non è costituita da gente raccogliticcia, messa insieme dalla circostanza del pellegrinaggio né da un generico interesse religioso. Il pellegrinaggio stesso appare, invece, come il frutto di una frequentazione lungamente sperimentata in un ambito di forte intimità e condivisione spirituale.
Il Rituale delinea un cammino, che è insieme geografico e spirituale, già percorso e sperimentato dai padri da consegnare intatto alle generazioni future. I fedeli, infatti, vivono l'esperienza del pellegrinaggio non solo come risposta all'esigenza di rinsaldare nel tempo la propria dimensione spirituale comunitaria, ma anche di sopravvivere alle angherie dell'esistenza resistendo per mezzo della tensione religiosa ai tentativi di dissoluzione che i mutamenti della storia inevitabilmente comportano.
L'unità interna dei Rituali rimanda all'unità del gruppo e alla sua volontà di compiere nel tempo un vigoroso cammino formativo. Non sembri fuori luogo, allora, se si fa riferimento esplicito alle confraternite quando si vuole approfondire la struttura religiosa ed organizzativa delle comitive, anche se limitatamente alla sola circostanza del pellegrinaggio.
Sarebbe utile far riferimento alla funzione svolta nel passato dalle confraternite per l'assistenza dei pellegrini e nella conduzione degli ospedali e delle altre strutture per l'accoglienza dei pellegrini, come è attestato per Troia già dal sec. XV (Nota 4) e San Marco in Lamis dal XVII secolo (Nota 5).
In questa sede, mi preme far osservare come le confraternite spesso abbiano dato origine ai pellegrinaggi come esigenza di vita interna e che il pellegrinaggio stesso, guardato nelle sue finalità spirituali e nel suo svolgersi, rimandi ad organizzazioni fortemente strutturate e motivate come le confraternite.
Il pellegrinaggio alla Grotta dell'Arcangelo descritto del Rituale di Ripabottoni con il suo fortissimo richiamo alla conversione fino alla metà del sec. XX rappresentava un momento privilegiato di crescita della comunità. Il pellegrino per otto giorni e più passa attraverso la fatica e i disagi del cammino, la revisione di vita, la preghiera continua e senza alcuna distrazione, la meditazione, l'esercizio forte e diuturno della solidarietà e della condivisione, le pesanti privazioni, la sottomissione indiscussa a un capo, ecc.
Inoltre i pellegrini, esaurito il pellegrinaggio, ne approfondivano i contenuti spirituali nella quotidianità della vita di famiglia e di quella ecclesiale, del lavoro e dell'impegno sociale, a stretto contatto con i loro compagni di viaggio, sviluppando all'interno di un gruppo stabile un continuo confronto, fatto di costante revisione di vita, di correzione fraterna e di partecipazione a una intensa vita comune.
I Rituali di pellegrinaggio di cui ci occupiamo hanno la loro giustificazione solo se si colloca il pellegrinaggio nell'ambito di una visione globale della vita propria delle confraternite.
I Rituali di pellegrinaggio come genere letterario
Il modello di fondo di questi Rituali è costituito dalle azioni liturgiche complesse che esprimono un itinerario come, per es. la liturgia del Triduo Pasquale, le articolazioni e i reciproci rimandi dei sacramenti della iniziazione cristiana o, più ancora, la lunga successione di azioni della Penitenza Antica. A queste azioni complesse, in definitiva si ispira l'ordinamento confraternale quando vuole accompagnare e guidare i confratelli, sia come collegio, sia individualmente, nel loro cammino di conversione e di avvicinamento a Dio. D'altra parte è noto che molte confraternite hanno avuto origine e spiritualità, e qualche volta anche organizzazione, dall'Ordo Poenitentium e dai vari Ordines monastici la cui vita è fortemente legata e condizionata dallo svolgersi dell'anno liturgico.
Anche l'aspetto puramente formale tradisce la derivazione liturgica dei Rituali di pellegrinaggio.
Del libro liturgico conservano l'ufficialità solenne e paludata, la rigorosa identificazione dei protagonisti, l'accurata distribuzione delle parti, i dialoghi, i gesti rituali, la rigida scansione delle azioni religiose lungo l'arco della giornata e della settimana. Niente è casuale o improvvisato. Il progetto scorre serrato e conseguente, realizzando nell'arco di otto giorni un disegno a lungo pensato in una sorta di azione liturgica in cui i diversi momenti mai perdono il contatto con gli altri momenti perdendosi in una successione materiale slegata e priva di organicità.
Del libro liturgico essi mostrano l'immobilità dello schema chiuso derivante da idee articolate intorno ad alcuni momenti fondamentali, consolidate da tradizione secolare.
I rituali di Ripabottoni e di San Marco in Lamis fanno molto uso di materiale desunto dal Breviario e dal Messale Romano. Il Rituale di Ripabottoni in genere lo presenta in lingua italiana sforzandosi, in pari tempo, di non allontanarsi dalla forma asciutta e sintetica della liturgia romana. Dal Messale sono utilizzate molte orazioni sia del Commune che del Proprium Sanctorum (Nota 8). In alcuni casi sono utilizzate intere azioni liturgiche che vengono inserite con una specifica funzione nel corso del pellegrinaggio (Nota 9). Il compilatore dimostra di conoscere molto bene sia il Messale che il Breviario, infatti spesso utilizza parti di diverse preghiere che ricompone in nuova sintesi.
Il Rituale di San Marco in Lamis, quando fa ricorso ai testi liturgici, li riporta solo in lingua latina. Questo rituale esprime un mondo culturale del tutto differente da quello di Ripabottoni. Questo, infatti, esprimendo un rapporto totale con la vita cristiana, evidenzia parimenti un rapporto a tutto campo con la liturgia, sia nelle parti penitenziali, sia quando eleva il canto di lode e di gioia, sia quando si perde nella contemplazione. Il Rituale di San Marco in Lamis puntualizza, invece, una tensione esclusiva verso la Grotta di San Michele da raggiungere con la penitenza e la privazione. Nella preghiera, perciò, sono privilegiati quegli aspetti che esprimono lo sradicamento dalle sicurezze di ogni giorno, l'accettazione dell'ignoto, l'affidarsi alla signoria di Dio. Nei vari frammenti di manuali di preghiere a noi pervenuti sono presenti soprattutto i resti delle liturgie penitenziali e delle benedizioni degli strumenti del pellegrino, la cappa, il cingolo e le altre vesti, il bordone, la corona angelica, contenuti nelle edizioni del Rituale romano anteriori alla post-tridentina del 1614 (Nota 10).
Si riscontra, tuttavia, anche grande flessibilità, del resto oggi largamente accettata anche dalla liturgia in senso stretto, alle varie ore del giorno e della notte, e alle cangianti condizioni della vita per rendere la preghiera ricca di forme, di contenuti e di sentimenti. Si nota anche una sorprendente libertà di espressione che porta fin nei recessi più inviolabili dei rapporti con Dio tutta la varietà creativa dell'esistenza dell'uomo; la sua capacità di presentare i fatti della vita con linguaggio sempre nuovo, con cui la incalzante novità delle situazioni si fa parola sussurrata e a volte gridata. Il pensiero della morte che tutto ridimensiona, per esempio, viene avvertito con tale urgenza che spesso il pellegrino dimentica la solennità del momento e del luogo, come pure la sconfinata grandezza di Dio, e si sfoga in forme plebee, dalle parole forti e inequivocabili. È diffìcile non pensare a certi personaggi del Vecchio Testamento i quali, sotto l'urgere drammatico dell'esistenza parlano a tu per tu con Dio con lingua ardita e piena di fioriture, in una apparente scorrettezza di espressione, indice tuttavia di confidenza e domesticità di rapporti.
L'itinerario che i Rituali tracciano, pur nella molteplicità e varietà dei richiami spirituali, culturali e storia dei singoli santuari, costituisce un percorso unitario in cui i singoli elementi sono concatenati in progressione sulla base delle esigenze del cammino spirituale dei pellegrini e del richiamo storico e spirituale che ogni santuario ha nei confronti degli altri. Tutto ciò è vissuto comunitariamente con forte senso di Chiesa che si costruisce in progressione, instaurando all'interno della comitiva una forte comunione. Insieme i pellegrini seguono la croce, meditano, pregano; spesso sentono il bisogno di rinsaldare la loro unità rinnovando il perdono reciproco dinanzi al Crocifìsso.
La proverbiale riservatezza di questi pellegrini, unita alla non del tutto ingiustificata diffidenza verso le domande di estranei e verso i mezzi di comunicazione, ha reso sempre difficile la conoscenza dei loro rituali. Attualmente, insieme a molti riti singoli, conosciamo anche alcuni Rituali interi.
Faccio riferimento al rituale dei pellegrini di San Salvo, che conosciamo in una edizione a stampa del 1972 (Nota 11); a quello di Bitetto che ci è giunto in una edizione a stampa del 1908 (Nota 12); al Rituale di Ripabottoni, manoscritto di prossima pubblicazione (Nota 13); e, infine, a quello di San Marco in Lamis che conosciamo manoscritto in forma ancora fortemente frammentaria (Nota 14).
I Rituali di San Salvo, Bitetto, Ripabottoni, San Marco in Lamis
ingloba, tuttavia, l'intero itinerario religioso del Gargano. Da San Salvo al santuario di Santa Maria di Stignano si va in torpedone; da Stignano a Bari si prosegue a piedi. Dall'insieme si deduce che per il ritorno si utilizza il treno.
L'intero primo giorno è dedicato a San Nicola. Insieme alle orazioni desunte dalla liturgia o ad essa ispirate, il libretto dispone di un'ampia e preziosa antologia di orazioni, responsori ed inni di tradizione popolare e locale, attraverso cui la figura di San Nicola viene presentata con i tratti più cari alla devozione, alle leggende e alle tradizioni locali.
Il pellegrinaggio vero e proprio inizia al santuario di Santa Maria di Stignano a San Marco in Lamis, che il Rituale interpreta come Santa Maria "del Disdegno o Disdegnato" (Nota 15), dove la compagnia si abbandona a un'ampia contemplazione di Maria condotta con i misteri del Rosario e una serie di canti desunti per lo più dagli inni di S. Alfonso de Liguori. La sera si alloggia al santuario di San Matteo, ugualmente a San Marco in Lamis. Si prosegue poi per Monte Sant'Angelo dove ci si ferma un intero giorno dedicato a San Michele. Anche per questo giorno il Rituale propone un notevole numero di preghiere, inni e cantari quasi tutti di estrazione popolare. Alcuni appartengono anche al patrimonio di diverse comunità, altri invece sembrano appartenere alla specifica tradizione di San Salvo (Nota 16).
Proprie di questo Rituale risultano essere le preghiere rivolte a San Matteo (Nota 17) e a Santa Maria di Pulsano (Nota 18).
Il cammino riprende attraverso l'arida discesa posta a sud ovest di Monte Sant'Angelo, che il Rituale chiama "deserto", al termine della quale, in cima ad alti dirupi in faccia al Golfo di Manfredonia si ergono i ruderi dell'antico monastero-santuario di Santa Maria di Pulsano. Questo tratto è dedicato alla meditazione sulla Croce. La quarta, dopo il pernottamento a Manfredonia, è la giornata dedicata al perdono. Seguendo la strada litoranea verso sud, dopo aver superato le paludi di Zapponeta, in vista di Margherita di Savoia, sulla spiaggia i pellegrini piantano la croce e in faccia al mare sconfinato si scambiano il segno della pace (Nota 19). La comitiva cammina ancora due giorni. Il settimo giorno, dopo aver pernottato a Santo Spirito, si ripete per la terza volta il rito del Perdono. A Bari la comitiva partecipa alla processione di San Nicola fino all'imbarco.
Il Rituale di Ripabottoni, di prossima pubblicazione, nella sua attuale redazione è stato compilato da Nicolaus Maria Barbieri nel 1860.
Di Nicolaus Maria Barbieri non sappiamo nulla. E' probabile che, più che compilare il Rituale, abbia rivisto e riorganizzato un materiale preesistente in forma più slegata e frammentaria. Le caratteristiche del Rituale, infatti, in particolare la completezza dell'impianto, l'equilibrio delle parti, la proprietà della terminologia, l'armonioso vicendevole completarsi del linguaggio contadino e di quello colto, lo scientifico uso delle fonti, il senso del teatro, la raffinatezza della comunicazione e altro fa pensare che l'autore del Rituale sia stato depositario di una cultura teologica e letteraria e, comunque, di una formazione culturale di base ben al di sopra di quanto l'ambiente, caratterizzato da solido e fondato analfabetismo originario, porti a supporre. A quell'epoca, infatti, solo 1% degli abitanti l'ex Regno delle Due Sicilie sapeva leggere e scrivere.
Allo stato attuale delle ricerche, nonostante le innumerevoli e continue corruzioni testuali dovute alla trasmissione manoscritta, questo Rituale si presenta come il più completo e interessante tra tutti i Rituali conosciuti.
Ne conosciamo due edizioni. La prima è quella redatta da Nicolaus Maria Barbieri, arrivata a noi con due manoscritti, ciascuno in due grossi quaderni, redatti nei primi decenni di questo secolo, essenzialmente uguali, ma differenti nella organizzazione.
La seconda edizione è una sorta di guida breve in cui sono proposti i momenti salienti del pellegrinaggio insieme a una lunga serie di preghiere, recitate e cantate, disposte in sequenza casuale. Più che una guida breve, è un documento completamente ripensato in rapporto alle esigenze di una comunità profondamente rivoluzionata dall'emigrazione, dall'abbandono progressivo della terra, e da quant'altro ha contribuito a rinnovare i tradizionali assetti sodali e religiosi. Questo secondo documento è stato compilato probabilmente intorno al 1950.
Verso questa data, infatti, i pellegrinaggi molisani e abruzzesi cominciarono ad utilizzare i mezzi di trasporto automobilistici i quali provocarono l'accorciamento del tempo del pellegrinaggio e questo fatto, a sua volta, accelerò il processo di mutazione profonda di taluni elementi sostanziali del pellegrinaggio stesso, proprio tra quelli che sembravano più consolidati. Intervenne una certa esigenza di rapidità, efficiente e sbrigativa, che non dava molto spazio all'approfondimento. La visita ai singoli santuari non fu più preparata con apposite orazioni e pratiche, né fu più seguita da quello stato di silenzio contemplativo e di orazione mormorata che faceva più leggeri i passi con una gioia consapevole e avvertita, col ringraziamento e il ricordo interiorizzante.
Il Rituale si rivela di grande interesse per la quantità di fonti liturgiche, letterarie e popolari utilizzate. Spesso riecheggiano brani letterali provenienti da epoche diverse, tutte di grande spessore religioso e culturale. Ricordo, un esempio per tutti, l'accenno alla spiritualità battesimale legato al ricordo del miracolo di Cone. L'episodio, conosciuto attraverso la relazione greca di Sisinnio e quella latina di Metafraste, è ricordato nei tempi moderni dal Martyrologium del Baronio e dal Cavaglieri nel suo Pellegrino al Gargano. Si narra che San Michele Arcangelo, a Cone, nella Frigia nei pressi dell'antica Colossi dove S. Paolo aveva indirizzato una lettera, fece scaturire una fonte. Chiunque bevesse quest'acqua invocando la Santissima Trinità riceveva la salute dell'anima e del corpo. Questa tradizione, dalle ascendenze così nobili, viene ricevuta, insieme alla sua autentica interpretazione, in un documento popolare del sec. XIX. Non vi sono riscontri simili negli altri Rituali, né in documenti analoghi.
L'intenzione esplicita è di attuare, oltre che rappresentare, l'itinerario spirituale della conversione e condurre il pellegrino a diventare nuova creatura.
L'ultimo Rituale che voglio presentarvi è quello di San Marco in Lamis. Non è un Rituale completo, bensì un complesso di frammenti. Il frammento più rilevante è costituito dal Rituale delle benedizioni per la compagnia dei Santimichelari giunto fino a noi in una edizione di fine Ottocento conservata nell'Archivio della Chiesa del Purgatorio. Il libretto manoscritto riporta un complesso di preci in latino da recitare in forma dialogata, e in forma solistica dal solo sacerdote. Il tema principale è costituito dal cammino di conversione dei pellegrini; si toccano poi i temi connessi dei pericoli e disagi della via; si invoca la clemenza del tempo e la disponibilità di anime buone nell'assistenza dei pellegrini.
Nonostante la brevità del percorso il rituale propone del pellegrino il quadro classico della persona che, lasciata casa e famiglia, si appresta a compiere una lunga e difficile impresa per vie e luoghi sconosciuti e pieni di pericoli. Dice l'introduzione Peregrini ad loca sancta profecturi, antequam discedant, iuxta veteris ecclesiae institutum debent accipere patentes seu com menda titias litteras a suo parodio. Quibus obtentis et rebus suis dispositis, facta peccatorum suorum confessione et audita missa in qua dicitur oratio pro peregrinantibus, SS. Eucharistiam devote suscipiant. Sacerdos super eos genuflexos facit sequentes preces.
Qui si dispone che i pellegrini si muniscano di lettere commendatizie del parroco in modo da non essere scambiati da chi li incontrerà per ladri o vagabondi, e in modo da avere, invece, tutta l'assistenza che si deve ai pellegrini e forestieri; si dice poi, che prima di mettersi in cammino facciano testamento. Tutto questo in rapporto a un viaggio di appena trenta chilometri compiuto in luoghi domestici e con un'assenza dalla casa di appena tre giorni.
E' plausibile, quindi che questo frammento sia quanto rimane di un Rituale molto antico in uso quando le condizioni del pellegrinaggio erano più difficili di quanto lo fossero alla fine del sec. XIX.
Più ragionevoli le richieste finali. I pellegrini prima di partire devono confessarsi e ricevere il Pane dei Pellegrini, l'Eucaristia, e la benedizione del sacerdote.
Altra specificità del Rituale sammarchese è la benedizione della cappa, indumento classico del pellegrino, del bordone e della corona angelica che lo aiuterà a pregare durante il viaggio.
Il cammino dei pellegrini sammarchesi era molto duro, caratterizzato da forte radicalità religiosa, senza alcuna delle bellissime e umanissime digressioni proposte, per esempio, dal Rituale di Ripabottoni il quale sentenzia, appena arrivati a Torremaggiore, qui ci facciamo un bicchierotto di vino. Durante tutto il cammino e la giornata di permanenza a Monte Sant'Angelo è consentito solo pregare e far penitenza.
Un pellegrino è stato deferito al consiglio della confraternita perché non si è limitato a nutrirsi solo di pane ed acqua, come prescritto, ma ha mangiato anche 'muscisca', la saporita carne di pecora seccata in uso presso i pastori. Le mancanze sono tutte annotate e comunicate in apposite relazioni. Spesso si lamenta quanto già S. Agostino rilevava per i pellegrini del suo tempo: rapporti disinvolti fra uomini e donne. Qualche pellegrino è arrivato a trascorrere la notte con la fidanzata, un segretario della compagnia del Carmine, nella sua relazione scritta negli ultimi decenni del sec. XIX per il priore della Confraternita, rivela senza mezzi termini il nome di una sarta rea di aver lasciato correre liberamente la fantasia delle sue ragazze intente, più che a pregare, a trovarsi il "zito", il fidanzato.
P. Mario Villani o.f.m.
Convento di San Matteo 28 novembre 1999