Una carta dei tratturi
Una carta dei tratturi
La transumanza degli armenti è un fenomeno antichissimo e molto diffuso. La forma più frequente è la piccola transumanza verticale, dalla durata di qualche giorno che riguarda gli armenti che dai pascoli montani all’inizio dell’autunno scendono a valle, per risalire alla fine di maggio. Io stesso sono figlio di transumanti che conducevano le greggi di pecore dall’altopiano garganico alle pianure del Tavoliere delle Puglie. Nelle regioni centro-meridionali del versante adriatico è praticata soprattutto la grande transumanza orizzontale. Fin verso la metà del secolo scorso dall’Abruzzo, dal Molise, dalla Campania sannitica, dalla Basilicata alla fine di settembre arrivavano in Puglia, e soprattutto in Capitanata, milioni di pecore guidate da migliaia di pastori. I tracciati principali erano chiamati tratturi e avevano una larghezza stabilita di 111 metri, su questi si innestavano le strade secondarie chiamate tratturelli e bracci dalla larghezza variabile dai 30 ai 40 metri. Tutto questo flusso di uomini e animali era stato regolato da speciale legislazione già al tempo dell’Impero romano. Dopo il lungo periodo di decadenza nell’epoca tardoantica e altomedievale fu di nuovo regolamentato agli inizi del millennio scorso dal normanno Guglielmo I il Malo. Nel sec. XV ebbe la sua legislazione definitiva con gli Aragonesi i quali la dotarono anche di una speciale Magistratura, la Dogana della Mena delle pecore e relativo Tribunale con sede in Foggia. L’intera rete, di circa 3000 Km, era accuratamente tenuta in efficienza.
Questi numeri danno l’idea dell’enorme numero di animali e di uomini che fluttuavano, due volte l’anno, per diversi millenni, tra le regioni interessate e la Capitanata. Il millenario fluire di armenti e pastori ha innescato un continuo scambio di linguaggi, di forme e di stili, di interpretazioni e di prospettive vitali, conferendo a queste regioni un solido patrimonio comune. Non era, quindi, un fenomeno ristretto solo alla stretta fascia degli interessi economici e lavorativi.
Un tema importante per comprendere la portata degli scambi culturali è quello della devozione soprattutto per la sua capacità di abbracciare tutti gli aspetti della vita. Nella pianura della Capitanata, i pastori entravano in contatto con i Santuari maggiori del Gargano: la Madonna di Stignano e San Matteo a San Marco in Lamis, la Grotta di S. Michele e la Madonna di Pulsano a Monte Sant’Angelo, S. Leonardo in Lama Volara a Manfredonia, la Madonna Incoronata a Foggia; tutti dislocati sull’antico percorso della Via Francesca che fra tutti i tratti italiani insigniti di questo nome è quello che non ha mai smesso di condurre pellegrini. L’Abruzzo e il Molise, da parte loro, hanno una storia religiosa antica di millenni che emerge di tanto in tanto con figure importanti come Pietro Celestino del Morrone, Giovanni da Tufara e tanti altri, tutte persone che con le regioni daune, e in particolare il Gargano, hanno avuto stretti rapporti. Con i loro eremi e le doro fondazioni hanno trasformato l’Abruzzo, per dirla con Francesco Petrarca, in una Domus Christi (Nota 1). D’altra parte per molti secoli, fino all’esplosione del fenomeno di P. Pio da Pietrelcina, alla metà del sec. XX, transumanti e pellegrini erano due termini quasi intercambiabili. Infatti la maggior parte dei pellegrini che ogni anno, soprattutto a settembre e a maggio, si recavano al Santuario di S. Michele sul Gargano provenivano dalle zone della transumanza, e cioè dall’Abruzzo, dal Molise, dalla Campania sannitica, dalla Basilicata, dal Lazio orientale, oltre che dalla Puglia.
Anche i transumanti, come i pellegrini, abituati a un regime di pura sopravvivenza, in cui la povertà non era solo una evenienza economica, ma una forma di vita, avevano un approccio totale con l’insieme delle realtà materiali e spirituali.
Intendevano, perciò, il pellegrinaggio non come momento religioso solitario ed estemporaneo o legato agli accadimenti della vita, ma come attività necessaria all’ordinarietà della vita familiare e lavorativa, inserito nel tessuto sociale con un radicamento che va oltre i secoli, gli interessi e le vedute del momento: un tempo per lavorare, un tempo per pregare.
Emile Bertaux, attentissimo visitatore, alla fine del sec XIX ci dà un sintetico a splendido quadro del pellegrinaggio al Gargano (Nota 2).
Il contadino d’Abruzzo o di Puglia, scrive, divide l’anno in due parti disuguali: una per i lavori che procurano il pane quotidiano, l’altra per i pellegrinaggi che devono procurare il Cielo
Ogni contadino, ogni pastore abruzzese e pugliese, sembra dire il Bertaux, è anche un pellegrino. Ha notato, anzi, che il pellegrinaggio continua nella intensità di sempre anche quando, nel sec. XIX, l’abolizione del Tavoliere delle Puglie e le profonde trasformazioni politiche, sociali ed economiche in atto, hanno notevolmente ridotto l’afflusso delle greggi transumanti nelle pianure daune.

Per il contadino, prosegue, il pellegrinaggio non è uno straordinario dovere di pietà, ma un atto periodico della vita, diventato necessario quanto il lavoro di ogni giorno. Esiste per il pio viaggio un tempo stabilito, come per particolari lavori di campagna... L’itinerario del grande pellegrinaggio di maggio è così fissato per i gruppi più numerosi, che scendono dal Molise e dall’Abruzzo: prima i santuari del Gargano, cioè, oltre la celebre basilica di Monte Sant’Angelo, l’antico eremitaggio di Pulsano, sulla cresta del promontorio, di fronte alle lagune di Salpi, e il convento di San Matteo, vicino San Marco in Lamis; nella pianura di Capitanata, l’Incoronata, presso il fiume Cervaro, una cappella tra ciuffi d’alberi, dove si venera un’icona cento volte ridipinta, scoperta da un cacciatore su una quercia.

Mappa dei tratturi
Mappa dei tratturi
Un primo aspetto da considerare è il reciproco arricchimento devozionale fra transumanti e popolazioni della Capitanata.
Notevole è, per es., l’allargamento della devozione dell’Incoronata di Foggia. Sorta in piena pianura agli inizi del sec. XI, in breve si estese in tutte le aree della transumanza. I pastori consideravano il santuario dell’Incoronata come il loro centro spirituale e la chiamavano il sole nome bellissimo che alludeva al groviglio di tratturi, tratturelli e bracci che, partendo dal santuario s’irraggiavano per tutta la Capitanata e la Terra di Bari. Il santuario, posto sul tratturo Foggia-Ofanto, faceva parte della Locatione del feudo d’Ascoli e Fabrica. (Nota 3). Già dalla fine del medioevo il santuario dell’Incoronata fu replicato più volte sempre lungo i tratturi. Il più celebre è il santuario dell’Incoronata a Pescasseroli, al termine del tratturo Pescasseroli-Candela. Altri santuari sorgono lungo il Tratturo Regio, ad Apricena; ad Ascoli Satriano, sul tratturello che mena dall’Ofanto a Candela; a Bovino, lungo la via che porta a Napoli, a Minervino Murge, al termine del tratturo del sud (Nota 4). Anche l’Iconavetere di Foggia, chiamata Madonna dei sette veli, il cui rinvenimento ha dato origine alla città, aveva molti devoti nelle regioni della transumanza. L’Incoronata di Foggia è presente anche in molte chiese con altre intitolazione, site sui percorsi tratturali, come la chiesa della Pietà a Lucera.
Alla metà del sec. XVIII s Campobasso viveva e operava lo scultore Francesco Saverio Di Zinno autore di diverse bellissime statue dell’Incoronata di cui una è conservata nella Biblioteca del Santuario di S. Matteo sul Gargano.
I transumanti, poi, portavano con sé anche il loro mondo religioso e spesso facevano riferimento ai santi venerati nei loro borghi: San Rocco, San Cristanziano e San Gaudenzio il quale ci libera dai rignuoli, cioè dai brufoli (Nota 5). Da questo pensiero deriva la bella pubblicazione di Maria Teresa Calzona Lalli, La Madonna nella religiosità del tratturo (Nota 6). Altri santi hanno viaggiato con i transumanti e sono stati adottati nei paesi della Daunia: da Venafro è arrivato S. Nazario martire, venerato in un piccolo e frequentatissimo santuario posto al confine di Lesina, Poggio Imperiale ed Apricena. Da Trivento è arrivato il culto dei Santi Celso e Nicandro, che è diventato patrono di Sannicandro Garganico.
San Matteo e gli animali
S. Matteo, da ex gabelliere, è patrono dei doganieri, della Guardia di finanza, dei commercialisti, dei ragionieri e dei cassieri di banca. A questa sua funzione si fa risalire la Cappella Doria a Genova, dedicata a S. Matteo. Sul Gargano è il santo protettore degli animali di campagna.
Per la verità anche nell'Italia settentrionale, soprattutto in località dell'arco alpino, la figura di S. Matteo ha a che fare con gli animali ed entra nel complesso meccanismo della transumanza. La sua festa, 21 settembre, è prossima all'equinozio di autunno che segna il limite temporale dei pascoli montani e determina la discesa degli armenti verso i pascoli di pianura. A san Mattia, la mucca torna indrìo, recita un detto popolare. In diversi luoghi si celebra anche la fiera degli animali dedicata a S. Matteo. Le mucche scendono dai monti ornate di ghirlande e santini, sfilano per le vie principali delle città, e spesso sono oggetto di gare di bellezza. Celebre la festa di Asiago, di cui peraltro S. Matteo è compatrono.
Il santuario di S. Matteo sul Gargano nacque come abbazia benedettina col nome di San Giovanni in Lamis probabilmente negli ultimi secoli del primo millennio cristiano. Finita l’esperienza benedettina nel 1311, e nel corso del sec. XV anche quella cistercense, nel 1578 fu affidato ai Francescani Osservanti della Provincia di Sant’Angelo in Puglia. Quasi contemporaneamente si arricchiva di un ruolo pastorale che poneva su nuove basi il rapporto già antico con le numerose comitive di pellegrini che percorrevano i tortuosi sentieri del Gargano Meridionale diretti alla Grotta dell’Arcangelo Michele a Monte Sant’Angelo. L’arrivo del Dente del Santo Apostolo ed Evangelista Matteo verso la metà del sec. XVI, o forse già alla fine del sec. XV, dilatò il ruolo religioso dell’antica abbazia aprendola a un rapporto più ampio soprattutto col mondo dei contadini e dei pastori.
Non si sa con precisione da chi e da dove il Dente di San Matteo sia stato portato nel nostro santuario. P. Agostino Mattielli, che ha percorso le nostre valli nel 1686, dice che fu portato da Salerno da un non precisato Cardinale che era anche Abate Commendatario dell’Abbazia. Questa notizia sembra avere una qualche conferma dall'inventario delle reliquie della cattedrale di Salerno allegato agli atti del Sinodo diocesano del 1584 dove, parlando del corpo dell'Apostolo si dice che risulta mancante di un dente oltre che del braccio destro donato ai beneventani (Nota 7).
Il culto di San Matteo sin dall’inizio ha assunto una precisa configurazione di stampo popolare sviluppandosi non in relazione alla storia del Santo, o al suo Vangelo, ma nell’ambito di un processo spontaneo di attribuzioni e di rimandi tessuti da un immaginario popolare che vedeva nel Dente offerto alla pubblica devozione qualcosa di funzionale in merito a precise necessità del mondo dei contadini e degli allevatori. Quello con San Matteo fu quindi, fin dagli inizi, un rapporto specializzato, aperto particolarmente al mondo agricolo e pastorale (Nota 8).
Le testimonianze
Il Dente di San Matteo rievocava altri denti. L'olio della lampada che ardeva nel sacello del santo fu usato per benedire le persone morse dai cani arrabbiati. Francesco Gonzaga nel 1587, così dice della devozione a San Matteo:

Si quispiam ex circumvicinis rabie laborans sumpto ex lampade, quae in sacello B. Evangelistae Mathaei continuo lucet, oleo laesam partem linierit, ex tempore ab huiusmodi passione liberatur (Nota 9).

Pellegrini nel chiostro del santuario di S. Matteo sul Gargano.
Pellegrini nel chiostro del santuario di S. Matteo sul Gargano.
Anche il domenicano toscano Serafino Razzi, in visita canonica ai conventi domenicani del Gargano nell’autunno del 1576, così scriveva:

E più in alto un altro miglio trovammo San Matteo: Badia del signor Giovan Vincenzo Caraffa, cavaliere di Malta, e priore di Ungheria, ove sono liberati gli Indemoniati, e coloro che sono morsi da i cani arrabbiati sono sanati (Nota 10).

Padre Michelangelo Manicone parlando del santuario di S. Matteo riassume nella sua veste di frate, ma anche di scienziato e teologo, l’intera problematica proposta da una devozione, quella per il Dente di San Matteo, che a qualche scienziato poteva apparire come un insulso affidarsi a forze la cui esistenza è tutta da provare; e che a qualche teologo poteva, invece, presentarsi come un altrettanto vuoto atteggiamento superstizioso.

La chiesa è un Santuario celebre, perché vi si conserva il Sagrato Dente del Gloriosissimo Apostolo. Tutte le persone da animali rabbiosi morsicate vengon qua a prostrarsi dinanzi alla Statua del Santo, e dinanzi al Dente, ed a sciorre i voti, ond’esser dalla terribile rabbia liberati. Quindi la gran confluenza di tutti i popoli del Gargano, della Pianura Dauna ed anche degli Irpini, e de’ Frentani (Nota 11).

Alcune tra le più importanti città della Capitanata e del Gargano, Manfredonia, Monte Sant'Angelo, San Marco in Lamis, Mattinata, Cerignola hanno ancora oggi nel Santuario di San Matteo il loro centro spirituale.
Gli ex voto
Naturalmente nelle campagne del Gargano e del Tavoliere, insieme a quelli dei cani, altri denti infliggevano pericolose offese. Cavalli, asini, maiali, orsi minacciano, mordono, scarnificano uomini, donne e bambini in una serie infinita di ex voto, conservati nel Santuario, in cui allo smarrimento impotente per l'improvvisa minaccia fa rassicurante contrappunto l'immagine serena del santo.
Riccardo Bacchelli ricorda con gusto una di tali tavolette visitate intorno agli anni venti. La scena lo impressionò e le dedicò una novella: Agnus Dei.

Al fonte gli era stato imposto il nome di Matteo, che gli giovò quando all'età di dodici anni fu addentato da un ciuco intiero di grande statura, magro come la rabbia e la lussuria e la vecchiezza che l'avevano scarnito sotto il basto e fra le stanghe, sotto il sole e fra la polvere del Tavoliere. I denti lunghi e gialli erano arrivati all'osso del braccio, a metà fra gomito e spalla; e le legnate a ruota pareva che servissero soltanto a levar la polvere dalla schiena affilata dell'animale, e a fargli stringere vie più le mascelle.
Allora intervenne San Matteo, protettore della rabbia degli animali, a disserrare quei denti, quando anche l'osso del bambino cominciava a sgretolarcisi.
La scena si vede dipinta in un ex-voto, dove il sangue umano spiccia al naturale e la ferocia ciuchesca è parlante. Pende con altri molti nel convento di San Matteo sopra San Marco in Lamis (Nota 12).

Tanta neve sul piazzale del convento di S. Matteo sul Gargano.
Tanta neve sul piazzale del convento di S. Matteo sul Gargano.
L'asino, anche se traditore nato, resta pur sempre un capitale da difendere e uno strumento di lavoro prezioso. Per questo motivo i contadini garganici e del Tavoliere amano immaginare che la protezione del Santo vada ben oltre le persone e abbracci anche gli animali. Qualche centinaio degli oltre 500 ex voto attualmente conservati nel Santuario hanno come protagonisti gli animali vittime di incidenti e malattie (Nota 13).
Sembra che nella fantasia popolare gli animali preferiti dal santo siano i cavalli molti dei quali nei tempi passati all'anagrafe zootecnica erano insigniti col nome di Matteo. Di qui il facile motteggio comune fra i salaci contadini ti chiami Mattiuccio come un cavallo e, giocando sulle parole matto e Matteo e allargandosi fino ai muli, notoriamente bizzarri, un detto popolare afferma matt jè Mattè, matt jè chi lu tè, matt jè chi ce lu pigghia, e matta tutta la famigghia. Il rapporto con i cavalli è quasi canonizzato sul fastigio del tempietto in cui è esposta la statua del Santo. Un tondo marmoreo scolpito nel 1927 da ignoto lapicida cerignolano ritrae l'immagine veneranda di San Matteo accompagnata non dalla regolamentare sagoma umana ma dall'inconfondibile profilo di un volto cavallino. Ancora oggi molte stalle del Tavoliere e del Gargano hanno ben in vista l'immagine del Santo.
La quasi totalità degli ex voto anteriori al 1960 proviene soprattutto dalle città di Manfredonia, Monte Sant'Angelo, San Marco in Lamis, Mattinata, Cerignola, un mondo, cioè, a forte prevalenza contadina e pastorale, con i suoi variegati aspetti derivanti dal rapporto con la terra e gli animali, con le esigenze di trasporto e di commercializzazione e, purtroppo, anche con la necessità di difendersi dai malviventi. Il rapporto col sacro viene documentato nella concretezza di un assetto sociale ed economico essenziale, di pochissime comodità, spesso di pura sopravvivenza, in cui nulla è superfluo, tutto è necessario, e tutto è dono di Dio.
S. Matteo e i pastori d'Abruzzo
Il rapporto del nostro Santuario di San Matteo con i pastori di Abruzzo non è immediatamente evidente. Posto nel bel mezzo del Gargano è fuori del territorio soggetto alla Regia Dogana delle pecore.
Tutti i contatti con i transumanti hanno come base la devozione verso San Matteo.
Fra Agostino Mattielli, francescano di Stroncone in Umbria, inviato nel 1683 a visitare canonicamente i conventi della Provincia di Sant’Angelo in Puglia così testimonia:

Hoggi il convento si chiama di S. Matteo perché vi fu portato un dente di questo Santo da Salerno, lo diede un cardinale commendatario, che si conserva in sacristia in un ostensorio d'argento et è in gran devozione appresso tutta la Puglia per li continui miracoli che fa e le grazie che se ne ricevono, massime per l'infermità dell'animali dei quali abbonda la Puglia: cavalle, pecore, vaccine, porci e tutti che toccati con l'oglio della lampada che arde all'altare di esso Santo guariscono subito e ciò si vede ogni giorno, poiché vi conducono spesso le massarie intiere a toccargli, e vanno sani. Li più lontani, cioè dell’Abbruzzo, Puglia Alta, di Bari, di Terra di Lavoro che non possono condurgli, mandano a pigliare un frate con cavalli e lo portano ove bisogna e questo (sia sacerdote, chierico, laico o terziario) mette un poco d’oglio in una conca d’acqua con la quale asperge le mandrie intere e guariscono subito e m’è stato certificato da persone degne di fede che lo vedono giornalmente non solo frati, ma preti, baroni e cavalieri (Nota 14).

Insieme con i frati che visitano le greggi, viaggiano anche le immagini di S. Matteo, tutte dislocate nei paesi abruzzesi e molisani da dove si originano i tratturi, e in molte località attraversate dai percorsi pastorali. È questo un interessante settore di ricerca che contribuisce ad evidenziare la stabilità e la qualità dei rapporti fra le regioni interessate alla transumanza. Quasi tutti i paesi del Subappennino settentrionale hanno la statua di S. Matteo. Fra questi si ricorda Castelnuovo della Daunia, Lucera, Biccari, Casalvecchio di Puglia, Volturino Castelnuovo della Daunia, Lucera, S. Severo, Torremaggiore, tutti posti sui percorsi tratturali. In diversi di questi paesi fino a qualche decennio fa si celebrava il 21 settembre, insieme alla festa, anche la fiera degli animali.

Sepino. I transumanti, in epoca romana, dovevano pagare una imposta per passare per questa porta.
Sepino. I transumanti, in epoca romana, dovevano pagare una imposta per passare per questa porta.
Per quanto riguarda il Molise ricordiamo le belle statue scolpite verso la metà del sec. XVIII da Paolo Saverio Di Zinno, alcune delle quali esposte alla venerazione dei fedeli a Campobasso, a Trivento e in altre località. Altri paesi dove il culto di S. Matteo è esplicitamente posto in relazione con gli allevamenti di animali e la transumanza sono Sepino (Nota 15), Toro, Termoli, Montenero di Bisaccia, Campolieto (Nota 16).
Da uno di questi paesini arroccati sul Subappennino, S. Bartolomeo in Galdo in provincia di Benevento, ci arriva una preziosa testimonianza sul rapporto tra S. Matteo e gli animali della transumanza.
Si tratta di un responsorio in uso nella festa del Santo che si celebrava nella chiesa dei Frati Minori di San Bartolomeo in Galdo.
Il ritornello del responsorio fotografa, per così dire, la situazione devozionale al santo evangelista come si è sviluppata nei secoli secondo l’interpretazione garganica per cui S. Matteo è soprattutto il santo degli animali della campagna, come già notava il citato Agostino Mattielli. Conferisce, in pari tempo, dignità liturgica e istituzionale alla spontanea devozione dei fedeli che chiedono a S. Matteo, insieme alla propria, anche la salute per gli animali, loro compagni di viaggio: Sicut fideles animas/Ad astra coeli sublevas// ic animantium corpora/a morsu, veneno libera. I due emistichi, in perfetto equilibrio sul piano teologico, ma anche su quello degli interessi e dei sentimenti, chiedono per i fedeli la salvezza dell’anima come per gli animali quella del corpo (Nota 17).
Quella delle formule liturgiche è una questione importante perché inserisce la salute fisica degli animali come bene economico in un più vasto orizzonte in cui è compresa la dignità, direi la personalità, degli animali i quali, pur essendo assolutamente indispensabili per la sopravvivenza dell’uomo, tuttavia non esauriscono in questo la loro ragion d’essere. Essi sono per se stessi degni di vivere, e la loro stessa vita è motivo di una dignità che solo Dio conosce completamente.
Il concetto sembra essere centrale nella benedizione degli animali in onore di S. Matteo Apostolo rinvenuta negli anni scorsi manoscritta in appendice a un benedizionale a stampa nel sec. XVIII compilato dal francescano Bernard Sanning (Nota 18). La formula è strutturata come una paraliturgia aperta dai versetti centrali del Canticum Trium Puerorum del libro di Daniele e dal Salmo 150 Laudate Dominum in Sanctis eius. Termina con tre Orationes il cui uso non appare frequentissimo nell’uso liturgico abituale. Pur presenti nel Rituale Romanum del 1614 (Nota 19) e nella successiva Editio typica del 1953 (Nota 20) come Benedictio animalium gravi infirmitate laborantium, nelle edizioni manuali ad uso giornaliero abitualmente sono assenti.
Tavoletta votiva della raccolta di S. Matteo a S. Marco in Lamis.
Tavoletta votiva della raccolta di S. Matteo a S. Marco in Lamis.
Eppure l’uso di questi testi è attestato dalla seconda metà del primo millennio cristiano. Già nel sec. VIII erano usati nella Missa pro mortalitate animalium riportato dal Paris Nat. Lat. 12048, dal cod. 350 di S. Gallo, del sec. IX, e da molti altri codici (Nota 21). Erano usati parimenti in caso di peste degli animali .
Deus, qui laboribus hominum etiam de mutis animalibus solatia subrogasti; supplices te rogamus; ut, sine quibus non alitur humana conditio, nostris facies usibus non perire. In questa orazione è certamente presente e pressante il timore di perdere un indispensabile sostegno. L’orante esprime tuttavia questa sua preoccupazione attraverso un linguaggio delicato e pudico sorretto dalla suggestione nella lettera 124 di Seneca a Lucilio. Sparisce con la sua boria il re dell’universo a cui tutto si deve e niente si può negare; l’uomo ridiventa ciò che è, un mendicante la cui esistenza dipende dalla generosità della natura e in particolare degli animali. Si nota, ancora una volta, un forte rimando alla nativa fragilità dell'uomo, che per vivere ha bisogno anche del lavoro gratuito e discreto dei "muti animali". Lo stato di endemica e ineluttabile necessità è delicatamente espresso dalla citazione sine quibus non alitur humana conditio di S. Colombano (Nota 22) fatta propria dai maestri della Scolastica attraverso Pietro Lombardo (Nota 23).
La parte iniziale della benedizione non è presente in nessuna delle quattro formule di benedizione degli animali riportate dal Rituale Romanum. Il Canticum Trium Puerorum chiama a raccolta tutte le creature a lodare e benedire il Signore. Indipendentemente dalle sottili distinzioni che la pigrizia e il malsano interesse umano ha inventato per sceverare tra esseri animati e inanimati, animali buoni e nocivi, da salotto o da lavoro, ogni creatura ha il suo ruolo in un’azione corale di proporzione cosmica in cui tutti sono accomunati, insieme all’uomo, nella benedizione e nel ringraziamento. Benedicite fontes Domino; … Benedicite omnes bestiae et pecora Domino; benedicite filii hominum Domino.
Ogni essere creato ha il suo posto e la sua individualità. Ogni cosa uscita dalle mani di Dio conserva per sempre la sua dignità e a Dio ritorna nel canto e nella lode Hunc astra, tellus aequora, Hunc omne quod coelo subest, Salutis auctorem novae, Novo salutat cantico, proclama un inno di Natale probabilmente del IV secolo (Nota 24). Se l’uomo è chiamato a lodare Dio anche con la voce, gli altri esseri lodano Dio col fatto stesso di vivere. L’humus del Cantico delle Creature è trasparente in questa compilazione, espressione preziosa di una mentalità che è proposta di vita, intesa dai pastori e dai contadini abruzzesi e pugliesi come normale dimensione della vita.
P. Mario Villani
Padova, 18 dicembre 2012