Appunti sull'evoluzione dell'edifìcio conventuale di S. Matteo a S. Marco in Lamis
II convento di S. Matteo, se guardato da lontano, si presenta come un edifìcio raccolto e possente, ben strutturato, che poggia le sue millenarie fondamenta sulle rosse rocce garganiche del versante occidentale di Monte Celano. Guardato da vicino, mostra tutto il tormento di una storia fatta di accrescimenti e variazioni.
Fondato in epoca imprecisata dai benedettini col nome di S. Giovanni in Lamis, all'inizio dello scorso millennio era una realtà religiosa importante, con un notevole numero di monaci, un vasto territorio da amministrare e un apprezzabile credito presso papi e re. La crisi della seconda metà del sec. XIII si risolse nel 1311 col passaggio del monastero dai benedettini ai cistercensi. Nel 1327 fu dato in commenda. Nel sec. XV si perdono le tracce dei cistercensi e nel 1578 il papa Gregorio XIII lo diede in custodia ai Frati Minori Osservanti della Provincia di S. Angelo in Puglia.
Attraverso il succedersi delle varie famiglie religiose il nostro convento, fatta eccezione per alcuni brevi periodi delle soppressioni ottocentesche, ha usufruito di sostanziale continuità di presenza religiosa, dai benedettini ai cistercensi ai francescani. Ciò ha comportato, com'è facile dedurre, un continuo ripensamento dell'edificio conventuale senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni. Quel che oggi appare è un groviglio di linee e di strati difficili da decifrare. Ogni linea, infatti, e ogni segno rimanda a linee e segni precedenti fino ad arrivare a strutture che sembrano essere le più antiche oggi visibili, le quali, essendo costruite con materiale di riuso, rimandano, a loro volta, ad altre strutture oggi non più esistenti, o a resti seppelliti nelle viscere dell'edificio, di cui forse mai nessuno saprà nulla.
Altra conseguenza necessaria del succedersi delle famiglie religiose è il diverso rapportarsi delle strutture conventuali alle mutevoli necessità e caratteristiche delle popolazioni locali e, soprattutto di quegli elementi fondanti del nostro paesaggio religioso che sono i pellegrini verso cui il nostro convento ha svolto nei secoli un importante ruolo di servizio. Altro elemento da considerare è la particolare attività lavorativa prevalente delle generazioni di Frati Minori che si sono succedute nel convento di S. Matteo.
La mancanza di documentazione non consente per il momento di dare corpo a tutta questa storia che si intuisce lunga e complessa. Per ora abbiamo a disposizione, insieme a una quasi insignificante documentazione scritta, solo qualche indicazione cronologica sui muri del convento e i molti segni che da un trentennio a questa parte ci vengono doviziosamente restituiti dai lavori di restauro che stiamo conducendo. Molti di questi segni sono coerenti con la storia conosciuta, ma non abbastanza, del periodo francescano. Per ciò che riguarda il periodo cistercense e quello benedettino, i segni scoperti non sono ancora suscettibili di una lettura che abbia una qualsiasi sistematicità e restano, quindi, scollegati fra loro.
Questi appunti, pertanto, scritti con l'approssimazione di chi è privo di specifiche competenze, sono necessariamente interlocutori, da consegnare a chi, speriamo presto, possa compiere una lettura globale di quanto è stato ritrovato negli ultimi tempi.
L'edifìcio si presenta come un rettangolo molto irregolare posto su uno sprone roccioso che, protendendosi dalle pendici di Monte Celano ben dentro la Valle dello Starale, dà origine al profondo canalone della Fajarama a nord e alla Valle della Difesa a sud. Il lato orientale è caratterizzato da un pian terreno e da due rialzati. Questo lato è dominato dalla scalinata d'ingresso e relativa piazzola antistante il portone sulla cui sommità si legge la data 1838. La data si riferisce alle modifiche apportate per dare ai fedeli la possibilità di entrare nella chiesa conventuale evitando i disagi derivanti dalla rigidità del clima. La chiesa, infatti, originariamente di impianto benedettino, è posta al secondo piano del convento. Per entrarvi i fedeli, arrivati sul piazzale del convento, erano obbligati a costeggiare l'intero lato settentrionale battuto d'inverno da gelidi venti di tramontana, e salire la scalinata della chiesa resa spesso impraticabile dall'accumulo di neve e di ghiaccio.
Il nuovo ingresso aperto nel 1838 ha avuto anche la funzione di conferire maggiore ordine e sistematicità agli spazi conventuali separando nettamente i reparti destinati alla vita individuale, posti all'ultimo piano dell'edificio, e gli ambienti adibiti alla vita della comunità, come la chiesa, la sacrestia, il refettorio ecc. siti tutti al secondo piano, dai locali adibiti alle attività produttive, come il lanificio, i magazzini, gli ovili, le stalle dei cavalli, tutti posti nei piani al di sotto della linea marcapiani.
La storia della chiesa, come di tutto l'edificio conventuale, è piuttosto travagliata, ma allo stato attuale delle informazioni, non è possibile tracciarla neppure in modo sommario o provvisorio, è possibile solo sottolineare l'esistenza di segni emersi dai lavori di restauro su cui azzardare qualche ipotesi.
Una di queste ipotesi è che la chiesa pur rimanendo sempre orientata da est ad ovest, in epoca imprecisata sia stata riorganizzata al suo interno. Si pensa, infatti, che originariamente l'altare fosse ad occidente, mentre l'ingresso fosse all'estremità orientale. I segni su cui l'ipotesi si poggia sono i seguenti. Durante il restauro dell'abside e del coro, nel 1984, è stato scoperto il resto di un portale che aveva tutta l'aria di essere il primitivo ingresso alla chiesa chiuso definitivamente nel sec. XVII con la costruzione del coro ligneo di cui un prezioso graffito scoperto su uno degli stalli ci fa conoscere con sicurezza il termine ad quem: 1676. Questa ipotesi sembra essere confermata anche dalla parte sommatale della struttura in cui si apre il portale ritrovato. Questa parete, infatti, visibile dall'interno del lucernario da cui prende luce il coro, potrebbe essere la primitiva facciata della chiesa. Lo spigolo meridionale della facciata primitiva è ora visibile, in seguito agli ultimi lavori di restauro della parete esterna meridionale della chiesa. Questa ipotesi spiegherebbe anche le anomalie che si riscontrano nei due locali che si aprono alla destra del corridoio d'ingresso del convento immediatamente dopo il portone del 1838. Il primo, attualmente occupato dal presepio permanente, e il secondo, adibito a negozio di souvenir, hanno il pavimento a un livello notevolmente più basso rispetto a quello del resto dei locali dell'intero piano. L'ipotesi che si delinea è che il locale più esterno, quello che ospita il presepio, fino alla seconda metà del sec. XVII non ci fosse affatto, insieme alla parte sovrastante del convento e buona parte dell'ultimo piano per i motivi a cui accennerò fra poco, e che il locale dell'attuale negozio dei souvenir fosse un atrio addossato alla facciata della chiesa da cui con pochi scalini si potesse accedere al portale di cui sopra e quindi in chiesa.
Siamo certi che fin dai primi decenni del sec. XVII i Frati hanno posto mano a un programma edilizio di vaste proporzioni da realizzare in tempi lunghi. Quando i Frati minori arrivarono, nel 1578, il vecchio monastero era in pessime condizioni. I Cistercensi ab immemorabili erano spariti; anche l'Abate Commendatario non frequentava più l'abbazia essendosi costruito un palazzotto, chiamato ancora Palazzo Badiale, sul versante settentrionale del vasto catino in fondo al quale si stende l'abitato di S. Marco in Lamis. Nella seconda metà del sec. XVI il vecchio edificio badiale, rimasto abbandonato a se stesso, rischiava di crollare e ridursi a rudere. Francesco Gonzaga nella sua opera De Origine Seraphicae Religionis, stampata nel 1587, dice che il motivo che ha indotto l'Abate commendatario Vincenzo Carata a stipulare una convenzione con i Frati Minori e chiamarli come custodi del monastero fu ne hoc sacrum monasterium ... in Gargoni montis solitudine aedificatum, ... derelictum, aliquando tandem collaberetur. D'altra parte, anche il Breve esecutivo della convenzione Exigit iniunctum di Papa Gregorio XIII del 1578 motivava il provvedimento col fatto che domum dicti monasterii et illius ecclesiam ac alia aedifìda ruinam minori. Gregorio XIII nel suo Breve dice anche che i Frati Minori hanno il compito ripristinare il culto divino come si conviene, ut par est; difatti gli hanno riferito che ibi cultum divinum diu neglectum fuisse. L'urgenza di fermare il degrado delle strutture murarie è, quindi, resa impellente dal rischio di vedere il monastero completamente privato della possibilità di espletare la sua attuale funzione pastorale.
Vorrei far notare che nella lunga storia del monastero di S. Giovanni in Lamis, è la prima volta che si accenna a un suo ruolo eminentemente religioso, vasto e popolare, dalla fisionomia fortemente caratterizzata dal culto dell'Apostolo ed Evangelista S. Matteo e inserito profondamente nelle strutture economiche e sociali della Capitanata. Francesco Gonzaga prosegue il suo racconto notando che l'afflusso della popolazione intorno alla reliquia di S. Matteo è tale che molti dimenticano che il nome proprio dell'abbazia è S. Giovanni in Lamis, e la chiamano tranquillamente S. Matteo. Quod haddubie in causa est, ut sacra haec aedes, modo divo loanni, modo vero B. Mattheo, cuius etiam digitus in smario diligentissime asservatur, prò cuiusque arbitrio, dicetur, consecreturque. Il fenomeno del cambiamento del nome, in tutti i casi, era già vecchio non solo nel 1587, quando Francesco Gonzaga pubblicò la sua opera, ma anche nel 1578, quando il Papa Gregorio XIII stilò il suo Breve. Difatti nel 1576 il domenicano Serafino Razzi, in viaggio per le contrade del nostro Gargano, fermatosi nella vecchia abbazia quando non ancora erano presenti i Frati Minori, chiamava il nostro convento simpliciter col nome di S. Matteo.
Già nel 1576, l'anno del viaggio di Serafino Razzi, quindi, le nuove responsabilità pastorali dlla vecchia abbazia benedettina e poi cistercense erano già chiare e consolidate. Si può, quindi, ragionevolmente dedurre che anche le strutture murarie urgessero un qualche adeguamento alle nuove condizioni.
Le cose, tuttavia, rimasero sostanzialmente immutate sino alla fine del sec. XVI. Nel 1595, infatti, l'arcivescovo di Manfredonia, card. Domenico Ginnasio, scriveva nella sua Relatio ad Limina Apostolorum che nel monastero di S. Giovanni in Lamis dodici Frati conducevano una vita pauperrima, il monastero era quasi distrutto; anche l'abitato di S. Marco in Lamis, di circa cento fuochi, era in condizioni disastrose; la chiesa parrocchiale per la povertà e l'abbandono non era in grado di assicurare neppure una messa settimanale. Vero è che l'appunto del card. Domenico Ginnasio non era privo di seconde intenzioni nei confronti dell'Abate commendatario, ma è vero anche che a questo punto è diffìcile smentire la notizia delle condizioni in cui versava il convento di S. Matteo.
Nei primi decenni del sec. XVII qualcosa cambiò. Il 1 settembre 1634 a Roma la Congregazione dei Religiosi concedeva il suo placet per l'erezione di ben due case di Noviziato della Provincia Osservante di S. Angelo nei due conventi sammarchesi di S. Maria di Stignano e di S. Matteo (Angelo da Lantusca, Theatrum regularium in quo brevi metodo varine decisiones tam apostolicae quam Ordinis Minorum de Observantia necnon decreta novissima Sacrarum Congregationum Urbie iam pubblicata, Roma, Camera Apostolica, 1679, pag. 413). Nel 1683 un francescano umbro, P. Agostino Mattielli, venuto nella nostra Provincia religiosa come Visitatore Generale, tracciò nelle sue note di viaggio quel che potremmo definire un bilancio dell'attività edilizia svolta a S. Matteo in tutto il secolo XVII. Dice che la chiesa è stata ristrutturata dai Frati i quali l'hanno munita di bella volta e di una scala esterna per consentire l'ingresso ai fedeli. L'arredo è costituito da un'altar maggiore in legno intagliato e dorato, un organo, tre altarini laterali e il coro di noce che il Mattielli definisce "bellissimo". Il convento si presenta già con tutte le caratteristiche e buona parte dei volumi che conserverà sostanzialmente fino ai nostri giorni. Dal piano del cortile, cioè del chiostro, si ascende al piano superiore dove ci sono due dormitori con molte stanze e dieci celle per i novizi. I piani inferiori ospitano le officine. Il convento è dotato anche di un mulino a trazione animale, quattro cisterne e una neviera. All'esterno vi sono anche diversi recinti per gli animali.
Questo poderoso programma edilizio, portato a termine nel giro di circa settantanni, fu reso possibile dalle mutate condizioni economiche del convento. Il complesso dei beni dell'Ente Abbazia di S. Giovanni in Lamis continuava a produrre, secondo la testimonianza dello stesso Mattielli, oltre tremila ducati l'anno; ma di questi neppure un ducato normalmente era speso per la manutenzione del convento. Se i primi trent'anni della loro presenza, secondo la citata testimonianza del card. Ginnasio, erano stati pauperrimi, il nuovo secolo, il XVII, appariva per i Frati di S. Matteo ubertoso di opere e di soddisfazioni anche economiche. La devozione a S. Matteo, iniziata in sordina forse verso la metà del sec. XVI, nei primi decenni del sec. XVII si era diffusa in tutta la Capitanata e il Gargano. Le comitive dei pastori abruzzesi la trasferirono nelle loro regioni di origine. Il padre Mattielli parla con entusiasmo delle greggi del convento, degli agnelli che si vendevano alla fiera di Foggia, dei vitelli e dei puledri che in abbondanza i contadini e i locati abruzzesi portavano al convento. Parla anche dell'usanza diffusa fra i pastori abruzzesi di prelevare un Frate di S. Matteo e portarlo in Abruzzo perché benedicesse le greggi. Il Mattielli non esita a far capire che il complesso delle entrate del convento, frutto del lavoro dei Frati e della libera contribuzione dei devoti, era ben più importante delle rendite percepite dall'Ente Badiale.
Probabilmente durante il sec. XVII fu realizzata una sequenza di camere sulle strutture modificate della sacrestia al lato settentrionale del convento. Questo reparto fu adibito fino alla soppressione del 1866 a ospizio per i pellegrini diretti alla Grotta di S. Michele a Monte Sant'Angelo. La sacrestia fu profondamente modificata con l'abbassamento dell'altissima volta gotica. Probabilmente nella seconda metà del sec. XVI la sacrestia era ancora il sacellum dove si conservava la reliquia di S. Matteo, secondo l'interessante cenno che ne fa Francesco Gonzaga nel 1587. Al tempo della visita del Mattielli, nel 1683, pur essendo stato adibito a sacrestia, il locale continuava ad ospitare la suddetta reliquia. Negli ultimi anni del sec. XVII la chiesa subì ulteriori profondi mutamenti. Tra il 1692 e il 1719 furono eretti i quattro altarini laterali in pietra di Monte il primo dei quali, dedicato a S. Antonio di Padova, chiuse il grande portale di comunicazione tra la chiesa e la sacrestia, mentre l'ultimo, del 1719 dedicato a S. Giovanni Battista chiuse a sua volta l'entrata gotica che metteva in comunicazione la chiesa con il cortile interno del convento, il chiostro.
Durante il sec. XVIII fu sostituito l'altar maggiore di cui parlava il Mattielli in legno intagliato con quello in marmi policromi in uso tuttora. Nello stesso tempo fu completato l'ultimo piano e da quel momento il convento assunse la forma quadrangolare che lo caratterizza oggi. Tanto sembra potersi dedurre dalla data posta sul fìnestrone che dall'ultimo piano si apre sul piazzale allo spigolo sud-orientale del convento: 1760.
I lavori di ristrutturazione del convento proseguirono anche nell'intervallo fra le due soppressioni ottocentesche. Da una relazione del ministro Generale dell'Ordine, venuto in visita canonica alla metà del sec. XIX, si deduce che buona parte degli ambienti dell'ultimo piano erano ancora costituiti da cameroni probabilmente adibiti a dormitori. La famiglia conventuale, infatti, già numerosa agli inizi del sec. XIX, con la soppressione murattiana era ulteriormente cresciuta essendo S. Matteo identificato come convento di concentramento dei molti frati rimasti cacciati dai loro conventi. Gli oltre trenta frati presenti nel 1806, erano cresciuti a oltre sessanta. Finito il periodo della soppressione, S. Matteo era stato adibito a casa di studio; inoltre era attivo ancora il lanificio con circa quaranta frati addetti, fra tecnici, operai, frati questuanti e amministratori. Tutta questa gente, costretta a vivere in spazi ristretti e privi della necessaria intimità, creava qualche problema. Per questo motivo il p. Generale ordinava che gli ambienti fossero riorganizzati con la costruzione di camere individuali.
Gli ultimi importanti lavori di trasformazione della chiesa conventuale furono eseguiti tra il 1924 e il 1927. L'urgenza di consolidare lo spigolo nord-occidentale del convento che stava scivolando a valle consentì in pari tempo al superiore dell'epoca di realizzare il progetto della nuova facciata della chiesa su cui si andava riflettendo da qualche decennio. Il risultato forse non era propriamente coerente con le linee dell'edifìcio, ma dava alla chiesa quella visibilità che si richiedeva. I lavori comportarono una profonda riorganizzazione dell'intemo della chiesa stessa: il pavimento, originariamente digradante verso l'altare maggiore, fu notevolmente abbassato. Gli altarini laterali furono smontati e adeguati al nuovo livello. Pari sorte subì l'area presbiterale e il coro.
Tutte queste evoluzioni interessano esclusivamente il periodo francescano del convento di S. Matteo.
I restauri che, a cominciare dal 1975, si sono succeduti a ritmo incalzante, se da una parte hanno colmato con ritrovamenti oggettivi una esigua parte dei molti vuoti di informazione documentaria, dall'altra aprono molti interrogativi che non sono ancora delle piste di ricerca. La quasi totalità dei segni e dei punti interrogativi riguardano l'epoca benedettina e cistercense.
Nel 1975 i lavori di consolidamento resi necessari da una scossa di terremoto hanno consentito di ritrovare sotto gli intonaci della chiesa piccoli ma significativi lacerti di un arredo pittorico di cui non si aveva alcuna notizia. In quella occasione fu scoperto anche un importante portale che metteva in comunicazione il chiostro con la chiesa. Come è stato accennato, questo portale fu chiuso quando in chiesa fu costruito l'altare di S. Giovanni Battista, nel 1719. Parimenti fu scoperto l'arco che introduceva al sacello della reliquia di S. Matteo, trasformata poi in sacrestia. L'arco era già chiuso al tempo della visita del P. Agostino Mattielli nel 1683, infatti nel suo diario dice che di fronte all'altare di S. Giovanni Battista era istallato l'organo. L'organo a sua volta fu sostituito nel 1692 dall'attuale altare di S. Antonio. Successive campagne di restauro hanno restituito notevoli informazioni sulle variazioni subite da alcune strutture attinenti la chiesa, sacrestia e cappella delle confessioni, e da molti ambienti conventuali come il refettorio grande e quello piccolo, la cucina, la sala del fuoco comune, il grande salone adibito fino al 1866 a pannifica officina, oggi auditorium del convento.
L'ultimo grande lavoro di restauro è stato condotto in questo ultimo anno sull'esterno della parete meridionale della chiesa dove sono stati portati alla luce, insieme ai molti segni delle evoluzioni subite dalla chiesa nel corso dei secoli, anche alcune monofore che conservano interessanti tracce di affreschi.Quest'ultimo lavoro ha messo allo scoperto anche tracce di archi e di vele che portano a pensare come il chiostro, in un tempo imprecisato della storia, fosse del tutto differente da come oggi si presenta.
Altri punti interrogativi vengono proposti da strutture, apparentemente incoerenti, scoperte nei piani inferiori, particolarmente nei locali della biblioteca.
Una campagna di scavi meriterebbe il grande contrafforte che sostiene buona parte del piazzale e tutta la zona settentrionale del convento. Pensato fino a due decenni fa come una semplice struttura di contenimento, si è rivelato, in seguito a lavori occasionali, una realtà estremamente complessa e articolata. La delicatezza del manufatto e la prospettiva delle operazioni richieste non ci hanno consentito ulteriori interventi. Anche i dintorni del convento meriterebbero una indagine scrupolosa, in particolare i resti di costruzioni ancora evidenti sul pendio di mezzogiorno e su quello occidentale.
Una considerazione a parte meriterebbe l'eremo di S. Nicola i cui ruderi occupano la sommità dell'omonima collinetta sita a nord del nostro convento. Sono ancora visibili alcuni muri, delle scale, l'assetto della chiesetta, alcune cisterne di cui qualcuna ancora attiva.
P. Mario Villani
Monte S. Angelo 28. 04. 2007
Appunti sull'edificio conventuale
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