Festa Farina e Folk - Sabato 25 agosto 2007
S. Marco in Lamis, un paese musico e canterino.

S. Marco in Lamis. Esibizione del gruppo Festa Farina e Folk nel 2005
S. Marco in Lamis. Esibizione del gruppo Festa Farina e Folk nel 2005
E…., ma non sape cantà…. Ascoltai questa espressione nei primi anni della mia vita, più di sessanta anni fa, da qualcuna delle mie nonne o da qualche parente anziana a proposito di un giovanotto che aspirava alla mano, così si diceva allora, di una ragazza del vicinato. Il giovane era buono, laborioso, e anche bello, ma gli mancava una cosa che se proprio non era indispensabile, pur, come il cacio sui maccheroni, serviva a dare senso e sugo a tutta l’operazione: non sapeva cantare, e presumibilmente, neppure suonare qualche strumento. In seguito, con tutto il razionalismo scolastico di cui ci riempirono, l’espressione mi suonò strana, fuorviante e perfino blasfema. E’ vero: molti matrimoni erano combinati e spesso non si coniugavano volentieri con l’amore. D’altra parte il canto e la musica, pur giudicati indispensabili nelle feste matrimoniali, erano degli elementi esteriori, sostanzialmente marginali, puri accessori ornamentali di avvenimenti diversi. La mia perplessità di bambino di fronte all’espressione detta dalle mie nonne, era grande. Solo molto tempo dopo, quando l’esperienza della vita, insieme alle disillusioni, mi aprì la mente ad orizzonti più ampi e a sintesi più organiche capii la sostanziale verità detta dalle mie nonne: se la vita non è contemplazione, se la vita non è partecipazione attiva al fluire degli avvenimenti del cosmo attraverso l’ascolto della musica prodotta dalle vibrazioni della terra, del cielo e degli uomini che ci comunicano la loro vita profonda, questa non è vita. E, d’altra parte, il canto non è che l’entrare in questo concerto, il comunicare, a nostra volta, i ritmi del nostro essere in un linguaggio semplice, di pochi segni, ma comprensibile. E qui ricordo le parole di S. Agostino a proposito del canto di giubilo: il giubilo è il momento più alto della nostra vita materiale, in cui sentiamo il bisogno di smaterializzarci, di parlare lingue, che pur sconosciute, sono comprensibilissime, di esprimerci attraverso la successione, a volte sensata e consegueziale, a volte del tutto strampalata, di suoni e gesti, di movimenti del corpo e della danza. Il canto e la musica esprimono l’inesprimibile. In essi riconosciamo uno dei pochi momenti in cui l’umanità ravvisa la fondata speranza di salvarsi: essi sono il vertice della bellezza, e la bellezza salverà il mondo.
Festa Farina e Folk nel 2005
Festa Farina e Folk nel 2005
Sono molto grato a Claudio e Angelo per avermi invitato a dire due parole stasera. Ma sono soprattutto grato a loro e a tutto il gruppo di Festa, Farina e Folk, per il coraggio che hanno avuto in una operazione inconsueta, che evita la facile retorica rievocativa, e accetta, invece, il difficile invito a spingersi avanti verso orizzonti in cui, pur utilizzando schemi e linguaggi tradizionali, non si cristallizzano a fotografare ancora una volta il passato, ma parlano del presente e del futuro. E questo fanno con lo stesso misurato distacco divertito con cui i nostri padri guardavano le comari che spettegolavano, o esibivano li pezz ‘[n]cule allu cavezone, o ammiravano con malcelata invidia il giovanotto elogiato dalla sua bella come nu giaiante, anche se porta li saccuccine sempe vacante.
Il canto popolare è questo. E' contemplazione divertita, è filastrocca ripetuta che si attorciglia nell’aria come una sequenza neumatica gregoriana che ti lascia senza fiato ma con una sensazione di leggerezza e di appartenenza a un mondo diverso e più alto, è riproposizione serena di una povertà antica perché non c’è niente più grande dell’amore. Essenzialmente, il canto popolare esprime l’amore.
Qualche appunto sul disco prodotto dai nostri amici. Il disco ha il merito di essere in linea con una tradizione che recepisce l’importanza del momento ludico in cui, come ricorda S. Agostino, non è necessario che le parole esprimano qualcosa che tendano a comunicare un concetto. Le canzoni Tarantella nova o E’ strutte lu stevale, mi sembra che esprimano bene questa gratuità di rapporto sociale che si articola in una comunicazione al vertice della quale c’è sempre e solo il piacere di stare insieme, di danzare, di toccarsi, si sentirsi presenti e intimi l’uno all’altro.
La vita, però, che non è solo gioco, si esprime anche in ammiccamenti ora divertiti, ora preoccupati, per cose e situazioni. Terra nera, terra arraiata, n’atu re t’anne affibbiate… recita il primo verso di una canzone. Ma questo re, cera vascia e core toste, deve fare i conti con un sudditame che, in mancanza d’altro, si difende con l’arma più efficace della storia, il riso e l’ironia oi re, oi re, oi re, Tu si re pe nu re che non è re. Più seria la problematica della canzone Durme montagna durme in cui viene allo scoperto la drammatica, e quanto mai attuale emergenza ambientale del nostro Gargano. In questa canzone, la preoccupazione si alterna alla speranza, che si fa tenue all’ombra tetra di una storia antica di sopraffazioni, di sfruttamenti e violenza gratuita, Lu Zambre non jè chiù sule, mo te cente frate all’avventura.
Festa Farina e Folk nel 2005 nella 'Padula'
Festa Farina e Folk nel 2005 nella 'Padula'
E tuttavia la carica interna della gente garganica viene fuori sul ritmo di una musica popolare che è prima di tutto gioia di vivere, pur nelle traversie della vita e nelle angheria dell’esistenza. Non si nota in queste canzoni, come in genere, in quasi nessuna delle canzoni popolari di tutte le regioni italiane, la voglia di rivalsa, o spiragli d’odio. Sempre l’ottimismo emerge dalla capacità tutta italiana, e forse universale, di ripensare continuamente la vita, di sovvertire i luoghi comuni e i consolidati parametri di giudizio, di sollecitare il senso critico proprio dei contadini, e di ritrovarsi in un cantuccio dove, isolati dal rumore delle contese, per un momento si vive di speranza. Così nella canzone Pizzica, dopo una sconfortata invocazione Sante Michele aiutace tu, questa uerra non ce fenisce cchiù, s’apre uno spiraglio di speranza basata sulla certezza che Cele e terra jenna accucchiate. E’ un piccolo trattato di teologia, questo verso, che afferma quanto nel vangelo è detto: gli uomini possono anche continuare a scannarsi nelle guerre e nelle rapine, non potranno cambiare la storia, infatti il Figlio di Dio che si è fatto uomo è colui che rende vicini e domestici la terra e il cielo, in se reconcilians ima summis, colui che riconcilia in se stesso le cose che sono più in basso con quelle che sono più in alto. La speranza a sua volta è contagiosa. Nonostante la tristitia temporum, come dicevano gli antichi, la gente gioisce del poco che ha nell’attesa che il poco fiorisca Cele e terra jenne accucchiate e la pizzica jè nata, Musica vecchia, musica nova zompa, zompa aisce fora.
Questo mio piccolo intervento è durato già troppo a lungo. La musica ci attende. Ma prima di concludere consentitemi di fare un ricordo di una persona, carissima anche a molti di voi. Qualche settimana fa è morto Tonino Lombardozzi. Eravamo cugini.
Talento musicale naturale, come suo padre Luigi, era l’ultimo di una lunga serie di musicisti che hanno segnato la vita musicale di S. Marco per tutto l’arco del secolo scorso. Da circa trent’anni era in forza stabile nel coro Cantemus Domino del Santuario di S. Matteo.
Mi è caro parlare di lui soprattutto in questa circostanza della presentazione del disco di musica popolare degli amici di Festa Farina e Folk. Tonino, infatti, incarnava l’anima della musica popolare in tutte le sue variegate componenti ed espressioni: dalle canzoni popolari tradizionali di cui era esemplare esecutore con la fisarmonica, alla musica sacra di origine popolare, alla musica sacra di origine paludata che attraverso il rimescolio delle generazioni era diventata patrimonio esclusivo e prezioso di S. Marco in Lamis.
Tonino ricordava tutto, eseguiva tutto; sorretto dalla sua prodigiosa memoria, era il vero e proprio archivio della ricchezza musicale di S. Marco. Tonino aveva vissuto dall’interno tutte le vicende della vita musicale di S. Marco. Agli inizi del ‘900 si costituì il coro Giovanni Cagliero composto da una nutrita schiera di preti e di laici ardimentosi che si prefiggevano di raccogliere l’invito di ridare dignità al canto liturgico. Era l’inizio di quello che poi fu chiamato il movimento ceciliano che ebbe la sua codificazione con S. Pio X. Molti componenti di questo coro furono attivi fino agli anni Cinquanta. In particolare è da ricordare la figura di Don Michele Giuliani e di Luigi Lombardozzi. Da essi Tonino assorbì, insieme al gusto per la musica, anche un modo assolutamente popolare di far musica in chiesa, in cui, evitati i tecnicismi asettici, si tendeva ad esaltare l’assemblea, e quindi il popolo, con una serie dei canti che esprimessero l’animus popolare.
Tonino è stato anche l’ultimo esemplare di artigiano della musica, formatosi a bottega dal padre Luigi e da Don Michele Giuliani, che si è dedicato a una didattica della musica tipicamente sammarchese, la quale, più che a una impeccabile lettura del pentagramma, tendeva a dare agli allievi la possibilità di esprimere sentimenti e parole attraverso l’uso semplice e non impegnativo dello strumento. Forse mia nonna aveva ragione quando esprimeva qualche riserva sul giovanotto che aspirava all’amore della sua bella ma… non sape cantà. Caro Tonino, sentiremo a lungo la tua mancanza.
P. Mario Villani
25 agosto 2007