Foggia, il Palazzo de Vita de Luca su via Arpi.'Foggia, quando vi entrammo noi nel 1862, contava poco al di sotto di 40.000 abitanti; e la prima impressione che ne avemmo, guardata esteriormente, non fu punto sgradevole; con strade, in genere, spaziose, aspetto architettonico abbastanza soddisfacente, teatro di bella forma artistica, un cospicuo tempio antico, pubblico passeggio con fontane, colonne, aiuole, ecc. e una storia ragguardevole della città; nelle vie e piazze principali una certa pulitezza. Però non era facile trovarvi un albergo, dove si potesse ottenere un solo letto in una camera, la quale invece ne aveva altri tre o quattro, affittabili contemporaneamente ad altrettanti ospiti sconosciuti tra loro. Né migliore era il servizio di trattoria; bisognava contentarsi di qualche osteria primitiva e far tacere ogni gusto non già raffinato, ma un po’ meno grossolano. Non fu che verso i primi del 1865 che venne a Foggia un industriale, dal nome di origine francese, ad aprire al pubblico un restaurant veramente civile, il quale nei primi tempi fece ottimi affari. Del resto, tutto l'infinito numero di tecnici, di appaltatori e di cottimisti e operai, nella massima pare lombardo-veneti e piemontesi, che di quei giorni invasero la provincia per le costruzioni ferroviarie, si facevano inviare dall’alta Italia gran parte dei commestibili loro occorrenti. Né si stava meglio quanto ad abitazioni: cessata nel 1865 la competenza del servizio di pubblica sicurezza, di cui, per gli ufficiali, faceva parte l’alloggio gratuito fornito dai Comuni presso gli abitanti, noi a Foggia non trovammo più camere ammobiliate in affitto, tranne poche a prezzi favolosi, e il comando del reggimento, che aveva raggiunto il 4° battaglione, fu costretto di collocarci nelle caserme a due per ogni stanza con le mobilie del casermaggio, non certo di stile di un Luigi qualunque, o del Rinascimento o dell’Impero. Brevissima fu la nostra prima dimora a Foggia, tre o quattro giorni al massimo, questi però più che sufficienti, perché tutti, ufficiali e soldati, si ristorassero e si riavessero dalla scossa della disgraziata marcia. La quale, possiamo dichiararlo senza iattanza, pur essendo il principio di lunghi ed inenarrabili sacrifici e pericoli che ci costò la lotta contro il brigantaggio, tuttavia a noi, alle autorità, al paese parve cosa naturalissima; nessuno, non che preoccuparsene, se ne accorse; né i giornali ne dissero verbo. E si comprende. Gli Italiani del 1862 erano ancora quegl’istessi delle lotte pel Risorgimento nazionale, sentivano ancora gli immani sforzi fatti per conseguirlo ed avevano la coscienza di quelli, non inferiori, che si richiedevano per consolidarlo. Stavano essi al potere, davano l’intonazione all’opinione pubblica, al Parlamento, alla stampa: tenevansi a contatto con l’esercito, imprimendogli e ritraendone vigore, onde tutta la nazione si conservava di tempra forte e vigorosa. I giornali non possedevano gli ausilii, i mezzi tecnici ed economici, né la diffusione di oggi, e se taluno di essi avesse stonato, deprimendo il carattere e la fierezza nazionale, ogni lettore l’avrebbe sdegnosamente respinto, ed esso sarebbe perito nella miseria e nella vergogna. Né allora era lecito fare assegnamento sui sussidi del governo, i quali venivano concessi con grande parsimonia e soltanto agli organi onesti ed autorevoli di pubblicità. Tanto meno fondata era la speranza di poter trarre risorse per vivere, dallo scandalo, dal pettegolezzo, dalle diffamazioni, dalla ciarlataneria. Nel ‘62 era questa una forma di letteratura ancora sconosciuta; del resto, l’esercito non si curava molto di leggere i giornali, niente di scrivervi, anzi ciò pel militare d’allora costituiva titolo di demerito. Né l’istituto dei corrispondenti, più o meno di guerra, e delle interviste, se pure cominciava a spuntare, non era punto generalizzato, onde la vera essenza e i particolari della lotta contro il brigantaggio rimasero nell’universale si può dire ignorati. Il che, non v’ha dubbio, fu un bene; così l'esercito, in mezzo a disagi, a sforzi, a pericoli incredibili, poté senza imbarazzi, compiere la propria missione, e sui campi, sparsi dei suoi cadaveri e bagnati del suo sangue, rizzare una altra colonna miliare della redenzione della Patria. Ansiosi com’eravamo noi ufficiali di conoscere il nuovo paese, è facile comprendere se utilizzammo il breve soggiorno a Foggia per formarci un concetto, almeno approssimativo, delle condizioni e dei costumi degli abitanti, che poi ci si sarebbero offerti più accentuati nei centri minori. La prima osservazione che ci colpì fu la differenza e la separazione enorme che regnava tra le due classi esistenti nella popolazione, quella dei proprietari, dei padroni, dei signori e quella dei lavoratori, dei quali i cafoni costituivano la più numerosa e la più bassa espressione etnica, psicologica, morale. Sembravano due razze differenti, la seconda delle quali in un grado assai arretrato di evoluzione umana. Immagine di una campagna in Capitanata.Le campagne della Capitanata sono cosparse di molti cascinali, masserie, ma non possiedono, come già notammo, popolazione stabile: gli agricoltori, i braccianti, i piccoli affittuari, che in altre regioni abitano il contado, qui a cagione della mortifera malaria, vivono nei paesi, uscendone ai lavori campestri la mattina all’albeggiare e rientrandovi la sera sull’imbrunire. Nei paesi, non escluse le città importanti, stanno agglomerati come pecchie all’alveare, dormendo nella stessa camera, o, per meglio dire, nella stessa lurida stamberga, il padre, la madre, i figliuoli, uniti insieme fratelli e sorelle, l’asinello, il maialetto, le galline, senza parlare dei cani e dei gatti; né occorre accennare alla moralità e nettezza che ne derivano. Naturalmente i polli, i porci, i bimbi in camicia ed anche senza, escono a razzolare, a grugnire, a trastullarsi per le contrade, mentre le mamme stanno sedute fuori dell’uscio di casa, grattandosi, chiappandosi gli insetti e talvolta pettinandosi. Nelle masserie non risiedono stabilmente che i massari con le proprie famiglie e qualche cafone al loro servizio. Del resto, numerosi pastori e mandrie scendono dagli Abruzzi e dal Sannio a popolare, dall'autunno alla primavera inoltrata, quell’estese regioni di pascoli eccellenti. Essendo nella stagione estiva, caratteristica ci parve un'abitudine osservata in Foggia e da per tutto, di poi, quella, cioè, di non veder più anima viva dal mezzogiorno alle ore 16: tutte le porte e le finestre delle case private, degli alberghi, delle botteghe, degli uffici pubblici chiuse ermeticamente; il silenzio è profondo e la città si giudicherebbe morta o disabitata'.
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