S. Marco in Lamis: vecchia foto di Via Allegato. Il muraglione a sx della foto ora non esiste più; a dx si vede il quartiere del 'casalotto'.'Fatti audaci quei malfattori delle loro felici escursioni e grassazioni per sì lungo tempo esercitate, e giovandosi di un fatale dualismo che divideva in partiti gli abitanti di S. Marco in Lamis(Nota 3), meditarono di invadere il paese nel giorno della solennità del Corpus Domini [30 maggio 1861]. Non è a dissimularsi che il loro disegno, se non fu consigliato e provocato dai retrivi e clericali, doveva riuscire almeno loro gradito imperciocché dal primo momento del felice riordinamento politico di queste nostre provincie, essi non si restarono di spargere voci e notizie sovversive, soffiando anche nei confessionili parole di scomunica per imporsi alle coscienze deboli del volgo cieco ed ignorante. Essi venivano fortificati nelle loro colpevoli pratiche dalle Encicliche sediziose del famigerato Vescovo di Foggia Mons. Frascolla, per lo che aspiravano ad abbattere ed umiliare il ceto dei buoni per non perdere potere ed influenza. Però coloro ai quali non si era spenta ogni scintilla di patria carità avendone a tempo informate le autorità della provincia mandarono per quel giorno a vuoto il reo divisamente. Un forte distaccamento di valorosi soldati Italiani fu spedito in San Marco in Lamis e così si tenne lontana la tempesta. Sventuratamente quei prodi furono richiamati e ripartirono la mattina della domenica 2 giugno restando colà 27 soldati in custodia di un furgone e degli oggetti di equipaggio. Questa intempestiva partenza accese il coraggio dei briganti e rianimò le speranze dei tristi. Lo stesso giorno già si facevano precorrere le notizie del loro ingresso in S. Marco in Lamis. Cimitero di S. Marco in Lamis: monumento funebre del capitano della Guardia Nazionale Matteo Tardio, deceduto giovane nel 1863.Invano i capitani della Guardia Nazionale eccitavano i militi alla resistenza, perché essi spaventati da una specie di fremito popolare, cui il volgo suol darsi in circostanze straordinarie, preferirono ritirarsi e chiudersi nelle proprie case. Vedendo il Capitano Matteo Tardio ed altri animosi uffiziali di non esservi nulla a sperare, sfiduciati si riducevano nelle rispettive case al momento che si annunziava l'ingresso dei briganti, i quali avendo già occupato tutti i punti che davano ingresso al paese, fu forza che dieci soldati si rifugiassero in casa dello stesso Tardio, ove si erano anche nascosti tre militi della Guardia Mobile, Francesco Nardella, Giuseppe Nardella e Giovanni Mimmo. Per l’apatia o la debolezza dei buoni spesso si verifica che i malvagi si rendono padroni del campo. Così avvenne in S. Marco in Lamis, dove senza veruna resistenza entrarono con pompa trionfale circa 50 briganti a cavallo comandati dai suddetti Del Sambro, Nardella e Polignone, gridando Viva Francesco 2°, Viva Pio Nono, Viva la Religione. Altri briganti stavano alla vedetta sulle montagne circostanti, queste turbe di cannibali ingrossate da un gran numero di soldati sbandati e da una folla di coloro che non desideravano di meglio che di darsi al saccheggio e alla rapina. Venne a preferenza occupato il posto di Guardia, dove quei vandali con mano sacrilega distrussero un altarino eretto per la solennità della festa nazionale, e calpestarono le immagini del nostro generoso Sovrano con le bandiere nazionali sostituendovi quelle del loro Re. Fecero lo stesso con lo stemma che ne ornava l'ingresso. Quindi la turba feroce andò a circondare e ad invadere il quartiere dove si erano chiusi quei pochi soldati, e tre di essi addetti alla custodia del furgone non avendo voluto cedere il posto ne riportarono delle fucilate che menarono a morte uno di quei bravi e prodi soldati. Gli altri sopraffatti dal numero ebbero a cedere, e, come prigioneri furono rinchiusi nel carcere... Dopo quelle prime scene di sangue, la turba festosa con grida selvagge imponeva una generale illuminazione, la esposizione di bandiere bianche; e, divisa in bande, disarmò quasi tutti coloro dai quali temeva una resistenza. Quindi circondava la casa del medico Leonardo Tancredi e l'altra del capitano Tardio, invisi ai tristi... Nel resto della notte si limitarono a vuotare qualche botte di vino tolta ad alcuni proprietari”.
La tesi del magistrato. Dalla lunga e minuta requisitoria si espunge questa tesi:
“Lo scopo precipuo e unico del movimento insurrezionale fu la rapina, il furto e la vendetta privata, e la causa politica, cui accenna il processo, vi concorse come secondaria ed accidentale, o meglio servì di occasione e di pretesto per abbandonarsi a tanti eccessi”.
Vecchia foto del municio di S. Marco in Lamis.Questo per il giudice istruttore. Ma il buon magistrato, spinto dall'indignazione morale, non vede altro o si rifiuta di vedere più a fondo. L’encomiabile zelo, però, che lo induce per dovere d’ufficio a registrare tutto, lo tradisce, lo fa cadere in contraddizione e offre spunti preziosi a un lettore un po’ smaliziato. A parte il movente sociale, sempre presente, già cronico durante il passato regime e che qui spunta, anzi esplode clamorosamente ed emerge come fortemente istigatore; a parte l'endemica ignoranza del tempo borbonico e l’istigazione clericale e i fatti personali e la brama di sangue e di rapina dei briganti, lo “scopo precipuo” e non “secondario” parrebbe essere proprio quello politico. I briganti invasori erano una cinquantina al momento dell’occupazione; e poi precisamente 78, come risulta dall'atto di accusa definitivo. Dall'altra parte non vi era che un altrettanto, e forse più esiguo numero di liberali, tra galantuomini e guardie nazionali. Va detto, tra parentesi, che questi pochi erano rappresentanti di tutti i ceti sociali, non esclusi quelli infimi, come è testimoniato dalla morte (i soli) dei due Nardella e di Mimmo. Fervidi e sinceri patrioti come il sarto Calvitto, assassinato nell'ottobre precedente. A chi, è il caso di dire, il popolo? Naturalmente ai briganti, anche se questi se ne serviranno come strumento delle loro scelleratezze. Il giudice istruttore, infatti, ammette che i briganti entrarono in S. Marco “senza veruna resistenza”, accolti “con pompa trionfale” da quasi tutto il popolo. E si parla anche di centinaia e centinaia per non dire di migliaia, di contadini entusiasti, di San Marco e di Rignano, pronti “ad avvampare i soldati dello scomunicato” re Vittorio. Pertanto non si spiegherebbe diversamente l’ultimo fatto d'armi sulla via che mena a Rignano, tra i pochi soldati regolari e la “gran turba” capitanata dall'ardimentoso Agostino Nardella, che cade nello scontro, insieme con altri 14 del suo seguito. Questo fatto, a parte i briganti, padroni incontrastati della città per tre giorni, ha tutte le caratteristiche degli altri due moti politici del 7 e del 21 ottobre, quando non vi era ancora ombra di briganti e di scoperte necessità sociali, anzi allora troviamo lo stesso Agostino Nardella a capo di tutti i suoi concittadini, indistintamente, contro i facinorosi assassini di San Giovanni Rotondo. Si tratta dunque, a parer nostro, di un ultimo scontro tra il vecchio e il nuovo, di un ultimo sussulto del popolo che si avvale, a sua volta, anch’esso dei briganti per manifestare e difendere tenacemente la sua radicata fede nel trono e nell’altare. In ultima istanza, si tratterebbe, semmai, di un vero e proprio moto vandeano, di una vandea spontanea, autonoma e caotica, senza legami diretti e decisivi col mondo esterno a San Marco, anche se motivi del genere si sono verificati altrove con la più diretta pressione borbonica da Roma e dagli Abruzzi. È giunta la volta di segnalare qui un complesso fatto psicologico, tragicamente ambiguo ed equivoco, per meglio vedere che cosa spinge tutti a questa furiosa sardana. Come nel vortice di una giostra, tutti immobilmente si illudono di rincorrere e inseguire gli altri; e tutti insieme, alla fine, si accorgono di aver fatto un gesto sanguinoso e inutile; donde disperazione, esasperazione e volontà di fine. Va, dunque, detto conclusivamente che i briganti si servono del popolo per loro propositi di vendetta e di rapina; preti, galantuomini, sanfedisti e borbonici istigano il popolo contro liberali e nazionali; e il popolo, a sua volta, sia pure inconsapevolmente, si serve di tutti costoro sia per affermare proprie rivendicazioni, sia per dare sfogo, una buona volta, a un odio plurisecolare contro tutti e contro tutto. Con un po’ di ritardo, preti e briganti si accorgono di cavalcare una tigre. La prova del nove della comune, reciproca diffidenza la si è avuta, con una certa evidenza, durante un terremoto. Questa cavalcata, insomma, costerà la vita ai briganti e, come si è visto, la borsa ai preti. È una vera e propria scomposta jacquerie, tanto che il popolo, a un certo punto, non fa distinzione tra possidenti, legittimisti, clericali e liberali: salire sui palazzi dei “signori” per una memoranda ora di orgia, di saccheggio e di distruzione. Menadi e baccanti, in questo delirio, le donne sono in prima fila: lo noterà, con doloroso stupore, il buon magistrato della corte di Trani. E donne anche nell’ora della battaglia, nello scontro con l’esercito piemontese, sulla solita via di Rignano. Questo furore popolare, insomma, non tende a darsi un ordine, a proclamarsi indipendente allo stato nazionale (anche se qualche voce isolata, come è memoria orale, non sappiamo quanto fondata però, pensava addirittura, con una sorta di mazzinianesimo singolare, a una repubblica di San Marco). Col grido “Viva Francesco”, gli interessi e gli scopi sono spesso diversi e contrastanti. Più che pensare a darsi un qualsiasi governo, il popolo avverte alla fine, “con animo perturbato e commosso”, che la partita è perduta: allora uomini, donne e fanciulli corrono tutti contro l’esercito piemontese; “alle palle”, come ancor si dice proverbialmente, con gaia e tracotante follia suicida. Queste donne, questi fanciulli, presenti nella battaglia, ci richiamano alla memoria ben lontani eserciti goti, visigoti e longobardi; a tale periodo, con un misto di sacro dominio badiale, rimase purtroppo ancorata San Marco per oltre un millennio, e cioè all’ombra della sua abbazia benedettina (favorita dai pellegrini longobardi diretti al santuario di S. Michele), da cui il paese ebbe origine e impulso. Ed è il caso, ora, di spigolare tra quello che il magistrato scrive: il lettore noterà da sé contraddizioni e preziose omissioni. 1) p. 27:
Stampa celebrativa dello scontro del 4 giugno 1861'La mattina del martedì 4 giugno i briganti furono avvertiti dell’avvicinarsi della truppa. All’istante con grida assordanti invitavano all’armi, ed audacemente mossero ad incontrare la stessa truppa, rinforzati da migliaia di uomini e donne che si diressero verso Rignano con l’animo di saccheggiarlo. Incontrarono infatti un piccolo drappello di bersaglieri con pochi soldati di linea, i quali con la solita abnegazione sostennero un fuoco vivissimo con quei malfattori dei quali morirono quattordici, compreso Agostino Nardella. Però, oppressi dal numero, dovettero retro cedere con dolorosa perdita di due bersaglieri e di un soldato morto nel conflitto, oltre un altro ferito'.
2) p. 30:
'È certa cosa del pari che il loro movimento incontrò le simpatie di un numero presso che infinito di rozzi e malintenzionati popolani'.
3) p. 32:
'Ed a compiere la narrazione dei fatti non è (da) omettersi che anche le donne, le quali corrono a tutte le avventure, eccitavano la moltitudine al sangue e alla rapina'.
4) p. 34:
'I briganti diretti da Del Sambro, Nardella ed altri al numero di una cinquantina, non avrebbero certamente osato di invadere e di aggredire una città di circa 18.000 abitanti senza di un precedente concerto e trattato con altri popolani che ne dividevano le tendenze e le inclinazioni, per agire unanimemente in uno scopo ed interesse comune. Il fatto posteriore basta a dare una eloquente spiegazione di tali antecedenti, poiché i briganti furono ricevuti dai tristi col massimo entusiasmo, ed al torrente delle loro forze riunite non v’erano argini capaci ad arrestarne l'impetuoso corso'.
Senonché, per conto suo, il magistrato conclude, dando poca importanza al movente politico, definendo stranamente il moto insurrezionale come un reato sui generis. Dal che la sua perplessità e l'evidente disorientamento. Egli, essendo mancato un uffiziale rovesciamento di governo nella città, cosa da attribuire proprio all’ignoranza e incapacità all’uso dei metodi politici, civili e amministrativi di quel popolo, si afferra, in ultima analisi, alla tesi criminale. Ma la fede patriottica non gli impediva a quel tempo, di nascondere o minimizzare il movente politico-sociale (Nota 4).
Panorama di San Marco in Lamis'In effetti i briganti e gli altri facinorosi, con i quali erano in intelligenza, occuparono San Marco in Lamis nel 2 giugno, e se ne resero despoti e padroni, senza ostacoli o resistenze da parte degli abitanti. Or se vi fosse stato fine politico avrebbero rimosse e cambiate le autorità locali, avrebbero proceduto a qualche fatto esterno e materiale, che accennasse all’idea di rovesciare e distruggere il governo costituito. Non vi ha dubbio che l’attentato costituisca un reato sui generis, che si compie col semplice conato, a differenza degli estremi richiesti negli altri reati tentati o mancati, ma, è altresì irrecusabile che in esso non debbono andare disgiunti atti tali da far chiaramente intravedere il fine criminoso e la volontà di distruggere o di cangiare la forma del governo, estremi che non concorrono nella specie. Che altronde le rozze menti di brutale e sfrenata plebaglia non sono mai capaci di elevarsi all’altezza di un principio politico. Nei cuori corrotti e pervertiti, come quegli degli imputati, non poteva penetrare un nobile sentimento (ed è pur tale sebbene talvolta erroneo) di amore e di odio, di preferenza o di avversione ad un Sovrano piuttosto che ad un altro, ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra. Si cadrebbe quindi in grossolano errore ritenendo i briganti come campioni di una impossibile restaurazione. Essi agiscono per conto proprio con l’unico scopo di rubare e di depredare le sostanze insozzate nel sangue degli innocenti. E se è vero che i nemici si giovano di quest’opera nefanda per avversare il processo unitario, è altresì incontrastabile che i briganti, sotto le misteriose apparenze di un fine politico, trovano il pretesto di velare le loro iniquità e i loro trascorsi. Considerando che, escluso il fine politico, rientra anche nel nulla la imputazione dell'eccitamento alla guerra civile, alla devastazione, al saccheggio che da quello non possono mai disgiungersi... Ed è appunto per questo motivo che, tanto nelle abolite leggi penali, con più precisione nel codice vigente, simili reati vanno compresi nella categoria di quelli che sono diretti contro la sicurezza interna dello Stato. Che conseguentemente gli imputati debbono soltanto rispondere dei reati in quanto all’abbattimento e distruzione delle immagini del Re, di monumenti, stemmi e bandiere nazionali'.
Tentativo sui generis, dunque, è costretto ad ammettere tuttavia il giudice, 'un conato', egli dice, che, per quanto abortito, è stato comunque alimentato da una non improvvisa e grossa fiammata politica e sociale. È ancor vivo in San Marco un motto scanzonato e disinvolto, ripetuto poi dal popolino:
'Ci hanno detto: torna Francesco e non fu vero - e allora viva Vittorio Emanuele'.
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