Il triangolo S. Marco-S. Giovanni-Rignano.
Il triangolo S. Marco-S. Giovanni-Rignano.
Dobbiamo insistere su questa sordità delle autorità provinciali e sugli errori od omissioni di quelle centrali e anche sulla mancata tempestività di certi provvedimenti, taluni di opere urgenti, altri riparatori, per via del lento muoversi della macchina amministrativa. Non alludiamo soltanto a lavori sempre promessi e non ancora avviati, ma anche a qualche episodio quale esempio di mancata assennatezza politica.
Precedentemente sono stati fatti i nomi di quattro evasi per reati comuni che si trasformeranno rapidamente in quattro capibanda famosi; ma ancor prima si è parlato di un altro capobrigante, del condottiero più intelligente e coraggioso, cioè di Agostino Nardella.
Strana analogia di situazione, di atteggiamento e poi di inevitabile scelta, con la conseguente tragica sorte, nella vita di Agostino Nardella e del famoso brigante di Rionero in Vulture, Carmine Donatelli Crocco, dopo l'evasione dal carcere; e forse non tanto strana, se si considera la sorte di tanti altri evasi per reati comuni in questo momento, pensando alla recisa intransigenza opposta dal nuovo regime a ogni genere di petizione, private o ufficiali, di perdono o di indulto. Infatti il Crocco,

'ricercato per essere evaso dal bagno penale di Brindisi, dove scontava una pena per reato comune, nell’agosto del 1860, nella speranza di ottenere il perdono, si schiera con gli insorti e segue Garibaldi sul Volturno. Negatagli la grazia promessa e, non essendo riuscito a raggiungere Corfù, dove le autorità costituite avrebbero voluto farlo fuggire, a Carmine Crocco non resta altra soluzione se non quella di organizzare, su proposta dei legittimisti lucani, la resistenza armata contro il nuovo regime' (Nota 10).

Ora Agostino Nardella, questo Farinata plebeo, nella seconda reazione dell’ottobre avanti il plebiscito, tenne a freno la folla dei rivoltosi, che lo stimavano e ammiravano, difese a viso aperto il suo paese dai facinorosi compagni di S. Giovanni Rotondo, massacratori dei migliori liberali di quel comune e, d’intesa con le autorità cittadine, patteggiò un’onorevole resa di S. Marco borbonica con i garibaldini comandati dal brigadiere Liborio Romano e con lo stesso governatore di Foggia Del Giudice.
La città tutta era riconoscente al giovane valoroso Agostino 'Potecaro' e, fin dal 7 gennaio, avanzò una petizione di grazia sovrana per i suoi reati comuni, sottoscritta con unanimità reale e morale dai suoi concittadini. Ma già il 9 aprile 1861, come trascriviamo dagli Atti, si rileva che

'il sindaco che vi presiede ha interessato il decurionato per rinvenire un giusto ed efficace mezzo onde provvedere alla sicurezza e custodia delle campagne nel prossimo ricolto dei cereali e nella sicurezza del bestiame di questi proprietari ed industriosi che, nell’imminente mese di maggio, deve far ritorno nel tenimento dai luoghi d’inverno. Ha fatto presente il gran numero di furti avvenuti con sequestro di persone, nonché dei molteplici abigeati, ed il numero indefinito dei ladri che, in comitiva armata ed in numero diverso, mascherati e senza, di giorno e di notte infestano non solo questo tenimento, ma anche quello dei limitrofi comuni: come ancora ha fatto presente al collegio istesso della influenza, sia fisica che morale, spiegata dal latitante Agostino Nardella, nelle politiche reazioni avvenute nel 26 e 27 ottobre ultimo, perloché il collegio istesso, nel dì 7 gennaio scorso, inoltrava motivata petizione al Re Vittorio Emanuele, onde, in grazia di essersi il Nardella cooperato pel mantenimento del buon ordine, col reprimere le reazioni e per adempiersi con calma alla tanto minacciata votazione del plebiscito, implorava completa grazia per il perdono del Nardella, e invocava che il medesimo, con un buon drappello di G.N., cooperato si fosse per l’arresto dei facinorosi e latitanti, e per la sicurezza e custodia delle campagne. Il Decurionato, tenuto presente che Agostino Nardella per tanti anni che ha latitato per queste campagne è perfetto conoscitore sì dei luoghi che delle persone; che lo stesso ha spiegato un coraggio straordinario ed una forza morale sulla popolazione; che, ad ovviare i molteplici furti ed abigeati e gli incendi del futuro raccolto, si rende indispensabile la libertà di Agostino Nardella, che costui assuma l’obbligo d'impedire i furti, cooperandosi con la G.N. per l'arresto dei ladri e latitanti di questo comune, ad unanimità delibera che l’organo del sig. Procuratore Generale del Re s’implori al glorioso Re Vittorio Emanuele la grazia per la libertà di Agostino Nardella al più presto, e questi, in grazia di tanto bene, obbligarsi di mettersi alla testa di un buon drappello di G.N. e procurare così la sicurezza al raccolto dei cereali e bestiame con l’attuarsi l’arresto dei latitanti e facinorosi che infestano questo e i limitrofi tenimenti' (Nota 11).

La grazia sovrana non ci fu o non venne in tempo. Agostino passò ai briganti e, due mesi dopo, entrerà in S. Marco vittorioso, alla testa di tutto l’esercito brigantesco, acclamato dal suo popolo. E così siamo a un nuovo “fiume di sangue con pezzi di carne e ossa” analogo a quello che scorse in S. Giovanni Rotondo il 21 ottobre 1860, giornata del plebiscito. Alla fine di maggio del 1861 il governatore insiste per il pagamento della tassa di occupazione imposta dal garibaldino Liborio Romano. L’Amministrazione comunale è in difficoltà; non sa dove porre le mani e a quali nuovi cespiti di entrata ricorrere. Gli animi sono esacerbati; la paurosa memoria degli eccidi di S. Giovanni li invade.

Nel verbale-fiume della lunghissima seduta consiliare, in cui i decurioni non sanno dove dar di capo, si legge tra l'altro:

'Il Consiglio, prima di rispondere (in merito), spiega il seguente fatto. Avvenuta la reazione in S. Giovanni Rotondo, nel giorno 21 ottobre 1860, ove seguì la più crudele e sanguinosa strage del fiore degli uomini di colà sequestrati nel carcere, ove la ferocia di quei inumani reazionari faceva scorrere un fiume di sangue misto a pezzi di carne e ossa, che i replicati colpi di fucile e di scure avevano separati e dispersi dal corpo di quegl’infelici agonizzanti. Questi fatti, che a rammentarsi ogni cuore anche tigrino si annerisce, richiamarono l'attenzione del Governo della Provincia, che mandò colà una colonna di garibaldini per rimettere l’ordine, e punirvi i tristi, ma, sopraffatta dal numero dei reazionari, tra i quali una moltitudine di sammarchesi, ritornò alla volta di Foggia con qualche perdita di Uffiziali, sottuffiziali e militi' (Nota 12).

È il 31 maggio, siamo quasi alla vigilia del nuovo “fiume di sangue” previsto: l'ingresso dei briganti in S. Marco, temuto per il giorno del Corpus Domini, si effettuerà il 2 giugno, festa dello Statuto.
Ed ecco l’ultima esplosione del sindaco, che è, in fondo, un atto di accusa:

'Sig. Governatore, per non tradire il mio dovere e come italiano e come sindaco, e sulla considerazione di essere S. Marco in Lamis un paese italiano, che ben governato diventerà utile sicuramente, come tutti gli altri luoghi, alla gran Patria e al glorioso Re Vittorio Emanuele II, sono a rassegnarLe che, appunto perché S. Marco in Lamis è un figlio traviato, indegno della gran Madre, incombe alle Autorità italiane di curarlo e metterlo al diritto sentire. Il medico è l'autorità governativa, i rimedi sono i mezzi energici da adottarsi, cioè far pervenire al più presto il delegato di pubblica sicurezza, la stazione dei carabinieri reali al numero di 10, e la riorganizzazione della G.N. di buoni elementi formata e armata di buone armi. E frattanto, per effettuarsi la distruzione del brigantaggio impegnare l’autorità militare ad aumentare le forze, poiché la compagnia del 62° reggimento fanteria qui stanziata, sotto il comando del prode capitano sig. Briggia, conta non più di quaranta individui, dei quali nove sono colpiti dalla febbre intermittente ed un sergente morto l’altro ieri. Non credo, quindi, si possa mantenere l’ordine interno, che anzi, ricorrendo la festività del 15 camminante, giorno segnalato, come si dice, dai briganti per profittare della moltitudine e tentare di produrre disordini, questa compagnia potrebbe trovarsi non sufficiente a tutelarlo. Credo di essere più fortunato adesso per essere esaudito nella fermezza di parlare a chi gli palpita in petto il vero cuore italiano'.

Per il ferragosto si temeva, quindi, una nuova rivolta. Briganti e non sceglievano sempre i giorni festivi. Si ha memoria di una quaresima di “quaranta nevi con quaranta omicidi”, ma questo ancor dopo l’unità e il brigantaggio. Comunque, la lettera su riportata è del 12 agosto 1861, e cioè quando una tragedia (quella del 2 giugno) era già stata consumata e i problemi rimanevano ancora insoluti.
C'è da aggiungere, però, che un altro pauroso tentativo d’invasione, capitanato sempre dal Del Sambro, ci fu il 25 agosto 1861.

'Verso le ore 12 di questo giorno, si è veduta la montagna che domina il paese a settentrione gremita largamente di briganti a cavallo e a piedi, ed altri si son veduti anche alla parte di mezzogiorno; ... tutti tiravano delle fucilate per spaventare e scoraggiare i buoni. Questi, che in parte erano arrivati alle mura dell’abitato intendono, con l'aiuto del popolaccio, come al solito, perché in giorno festivo, aggredire il paese: infatti, molte persone del popolo sono partite per incontrarli'.

Il tentativo fu stroncato dall'energica prontezza del capitano dei bersaglieri Desperati Enrico e dal 'galantomismo e proprietari', mobilitati dallo stesso (il De Theo al governatore). Ancora il 30 marzo 1862, il nuovo sindaco fa questo triste quadro:

'Per opera dei tristi S. Marco è stata isolata dal resto d'Italia... Se con misure radicali non si diviene alla distruzione del brigantaggio che infesta il Gargano, tanto gli affari pubblici che privati andranno di male in peggio e, fra breve, anche i più ricchi facoltosi saranno ridotti alla miseria'.

E, infine, in data non precisata:

'Sig. Governatore, l'avvenimento di ieri dello scontro dei briganti al n. di 42 colla poca cavalleria di Lancieri ha fatto insolentire in modo incredibile, e le notizie d’aver i briganti istessi fatto prigionieri quattro cavalieri della truppa, diffusa in questo infame popolo, mi fanno scorgere i più gravi pericoli per i buoni del paese e della poca truppa che è qui stanziata, potendo insorgere nuovamente con l'aiuto dei briganti. Non ci lusinghiamo adunque...'.

Intanto, tornando al serrato dialogo tenuto dal sindaco De Theo e dal governatore di Foggia, quasi a naturale epilogo della dolorosa vicenda, si deve malinconicamente registrare, come sempre avviene in frangenti del genere, l’inevitabile sostituzione dei protagonisti. Qualche giorno dopo l’agosto 1861, il sindaco andrà via dalla direzione della cosa pubblica.
Questo sindaco rude ma intelligente, quest’avvocato De Theo, par di vederlo girare per le vie del paese, sempre in giamberga e sempre affaccendato, cercando di persuadere tutti, con evidente volontà educativa, come molti lo ricordano. Non di cultura raffinata (lo si desume dalla forma incerta e talora grammaticalmente rudimentale e arbitraria delle sue lettere); ma onest'uomo a tutta prova, coscienzioso, 'vero italiano'; nonostante le dure prove e le strette in cui è posto, è uomo pratico che, anche se inascoltato, ha sempre proposto cose improntate a realismo e buon senso. Ha misura verso tutti (si ricordi il suo atteggiamento verso clero e popolo); e, a distanza di un secolo, sia consentita, una volta sola, a chi scrive questo attestato di ammirazione e di simpatia verso un suo concittadino.
Dunque, ai primi di settembre, cambiano i protagonisti: via De Theo, via Bardesono. La G.N., 'dissoltasi', non è ancora ricostituita. Nell'interregno, per così dire, il paese “è abbandonato a se stesso e in balia dei briganti”. Poiché,

'quantunque vi fosse nei galantuomini e buoni cittadini la... risoluta volontà di resistere a qualunque invasione, la mancanza delle armi potrebbe farli soccombere e divenire vittime degli assassini': il sindaco al governatore, il 12 settembre 1861.