Vi presento la parte introduttiva di Unità e Brigantaggio, opera scritta dal grande sanmarchese Pasquale Soccio con l'aiuto di Tommaso Nardella. Quest'opera è del 1969. Una persona che conosce San marco in Lamis viene immediatamente colpita dalla attualità di questa analisi: già nel 1969 Pasquale Soccio aveva capito tutto! Notevole è la padronanza della lingua italiana. Il periodare scorre fluido ed è piacevole leggere questa prosa. Il testo è introdotto da un breve filmato (prodotto dal sottoscritto) dell'altro grande Joseph Tusiani. NB. I testi in grassetto o corsivo, le foto ed il video sono state inseriti dallo scrivente.
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Inoltre la zona montana del Gargano occidentale fino alle alture di Sannicandro e di Cagnano è stata intensamente coltivata ed abitata esclusivamente in loco da validissimi e tenaci contadini sammarchesi.
Si è usato il passato prossimo, quando invece andrebbe meglio il passato remoto, perché la popolazione agricola nelle zone collinose sta diventando pressoché inesistente. Anche se mutate le condizioni socio-economiche, di là da condizioni storielle contingenti, permane nella gente dei campi una sanguinosa lotta più che millenaria tra coltivatori di campi e allevatori di armenti: ricerca di spazio vitale per il grano o per il pascolo.
Attualmente la lotta volge a favore dei pastori, anzi dei caprai. Per l'indomabile prepotenza di questi, poiché l'allevamento del bestiame è sempre più redditizio, la contesa assume aspetti sanguinosamente tragici (Nota 1) per l'efferato fenomeno dell'abigeato. In ogni pastore, anzi in ogni capraio, a quando a quando dorme e si sveglia l'atavico istinto dell'abigeatario.
Pertanto, in quest'ultimo decennio, l'abbandono dei campi è divenuto una vera fuga precipitosa e collettiva. Mandar via i superstiti contadini ancora tenacemente fedeli alla terra, incutendo loro terrore col furto o con la rapina, è, invero, il consapevole programma degli abigeatari, onde avere a disposizione i necessari pascoli per i loro grossi armenti, che si accrescono miracolosamente di centinaia di capi da una notte all'altra. Quindi il rapido spopolamento delle campagne è, sì, dovuto all'avvilente reddito agricolo, ma anche a questa remota lotta di fondo. L'attività industriale, con le sue migliori offerte di lavoro e i dinamici miraggi dell'urbanesimo, è una strana alleata degli allevatori e degli abigeatari. Questi, con la loro fame di terra e con decisa volontà delittuosa, divenuti padroni della strada e delle balze garganiche, hanno scoraggiato nei contadini ogni superstite desiderio di permanenza sul fondo.
Alle radici di questo contrasto perenne e antichissimo, a motivi economici, sociali, psicologici ed etnologici, allotrii e peculiari, che ora si intrecciano e ora si scontrano, va ricondotta la questione meridionale.
Al presente, pertanto, abbiamo da una parte un nucleo sparuto di contadini, con il loro amore alla terra tanto più ostinato ed esclusivo quanto più improduttivo e pericoloso; dall'altra il dominio sempre più incontrastato dei mandriani: la mitezza dei primi cede il posto alla prepotenza armata dei secondi. Vi è uno stretto rapporto di filiazione: gli abigeatari di oggi sono figli dei disertori della prima guerra mondiale; questi a loro volta dei briganti del periodo unitario; i quali, poi, si richiamano ai briganti del periodo napoleonico, che, da buoni sanfedisti, nel febbraio del 1799, scesero in massa dalle alture di Castelpagano contro i francesi nella famosa battaglia di S. Severo; e, questi ultimi, figli degli abigeatari di sempre. È da notare che i capi dei briganti evasi dalle prigioni di Bovino, di Lucera e di altrove, favoriti dalla fuga borbonica, erano tutti, come risulta da liste consultate, condannati per reati comuni: rapine e abigeati.
Ma poiché il danno prodotto dai caprai diveniva sempre più vistoso, il 31 luglio 1859 il sindaco riunì d'urgenza il Consiglio, richiamando l'attenzione dei decurioni su una circolare ministeriale del 7 maggio 1858 contenente il divieto del pascolo delle capre nei boschi, l'unico principal mezzo per la conservazione dei boschi cennati, eccettocché ne' luoghi montuosi e soprani secondo il prescritto della legge forestale.
Pertanto il decurionato deliberò di aprire un registro con permessi ristretti e con indicazione del numero preciso delle capre; di punire severamente ogni esercizio abusivo; di ripartire i limitati permessi con "equità" tra "i più bisognosi, ed onesti". Ma stando al periodo della nostra vicenda, cioè agli anni dell'Unità e del brigantaggio, il governatore di Foggia, Bardesono di Rigras , amico di Cavour e futuro giudice a Bologna in una inchiesta su Carducci repubblicano, scriveva al luogotenente generale in Napoli:
Nel Gargano universale e radicato è lo spirito reazionario originato dalle intemperanze, dalle estorsioni, dalle violenze commesse in nome della libertà.
Intanto è da notare che, come altrove nell'Italia meridionale di allora, l'avidità cieca della grossa borghesia, l'ottusa pavidità della piccola e media borghesia e l'invadenza clericale consentivano la paradossale situazione che banditi e Guardia nazionale in un primo tempo, provvedessero all'ordine.
'Sulla parte occidentale del Gargano vi sono poi due bande di briganti a cavallo, i quali scorrono la sottostante pianura. Questi sono i banditi di S. Marco in Lamis i quali fino a pochi giorni fa dimoravano nel Comune e concorrevano con la Guardia nazionale al mantenimento dell'ordine, ma in pari tempo commettevano quegli scandalosi furti di intiere mandre, e impunemente rivolgevano ai propretari di Foggia le loro lettere di ricatto mandandone a riscuotere in Foggia il prezzo'.
Attualmente questi, la notte, origliano con la bocca del fucile tra le feritoie degli umili casolari e, di giorno, sono costretti ad aggirarsi armati, temendo che spesso, col favore della nebbia, sfumi il piccolo gregge che integra i magri proventi agricoli.
Persiste, però, una certa valida attività agricola dei massari sammarchesi, coltivando questi con mezzi moderni la vasta parte del Tavoliere che circonda il Gargano sud-occidentale.
Il Gargano è ora entrato nel boom dell'attenzione turistica nazionale ed internazionale. Ma l'interno quadro del Promontorio è ancora fosco: mancano energia elettrica, acqua e strade. Questa triplice assenza è la più forte alleata degli abigeatari. Inoltrarsi nell'interno del quadrilatero garganico, che va da Monte Spigno alla "Grava" di Zazzano, da Cagnano a Castelpagano, è come tentare una rischiosa avventura nella giungla: ancora come ai tempi del toscano e garibaldino Temistocle Mariotti, venuto sul Gargano per la repressione del brigantaggio negli anni 1862-63.
Vive S. Marco in Lamis un annuale suo momento televisivo di attenzione nazionale la sera del venerdì santo con la processione delle "fracchie". Si tratta di un originalissimo corteggio di numerosi carri di fuoco, trainati con lunghe catene da uomini che appaiono e scompaiono, tra lampeggi e fumo, in un graveolente odor di petrolio sparso per alimentare la fiamma. Questo primaverile rito del fuoco purificatore è uno spettacolo di selvaggia bellezza; è una singolare commistione o una felice fusione di tenaci tradizioni popolari greche, romane e cristiane; è una manifestazione folkloristica garganica a cui non si è badato ancora abbastanza. Ma da alcuni anni in qua il numero dei visitatori aumenta, atterrito e affascinato da questo fragor di carriaggi, moventi verso l'infinito, tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi.
Come uno spaccato verde tra gli avidi colli, s'apriva, fresco d'alba, il vallone dove si stipa San Marco in Lamis, paese singolare per la distribuzione regolare delle strade ai lati della via maestra, onde le rosse, livide file di tetti a due spioventi uguali, uguali anch'esse le case d'altezza e dimensione, si allineano e si spartiscono come un ammattonato a spina. Quei contadini coltivano coste e fondo del vallone, tesoreggiando la terra rossa fin dove ne trovano tra i sassi tanta da riempire uno dei loro berretti tondi, che chiaman "còppole". E ciò si diceva, allora e adesso, lavorare la terra a coppola, per dire che è coltivata fin dove ce n'è un pugno.
Vite e vite d'uomini passarono e si trasmisero a sterrare, a diradare i sassi, che in quel suolo par che faccian seme, per ampliare la terra coltiva. Penarono, s’incurvarono; fecero schiene e mani nocchiute e dure; si legarono alla terra con la fatica, con la fame, con la gratitudine, con la disperazione, ripetendo da lei il bene e i frutti, dall'aria i pericoli e le insidie, i tradimenti della tempesta: e, quando non fa male il secco estivo, fa male il secco dell'inverno; il primo dei quali distrugge i frutti, e il secondo anche le piante. E se, due volte al secolo, piove, viene a diluvio, con alluvioni e frane, che si portano paesi e boschi, le terre e le case. (Riccardo Bacchelli, Il Brigante di Tacca del Lupo).
Pasquale Soccio, Unità e Brigantaggio, ESI, 1969