I fatti di Ottobre: prima reazione e mancato plebiscito
Seguiamo un po' i cronisti del tempo:
'A dì 24 di settembre 1860 si festeggiò l'insediamento del nuovo governo dai pochi liberali del paese, i quali, girando per le due piazze con una bandiera tricolore dallo stemma di Casa Savoia, gridavano di tratto in tratto: Viva Vittorio Emanuele - Viva Garibaldi - Viva l'Italia una e indipendente. Queste grida, o per dirla con una sola parola, l'entusiasmo estrinsecato così dai pochi patrioti, mentre la massa l'era in attitudine ostile, fu motivo ai cattivi e reazionarii di architettare un'altra dimostrazione in senso contrario' (Tardio).
Pochi patrioti, pochi liberali (Nota 1-1. parte) (Nota 1-2. parte) contro una massa attivamente ostile: si profila il dramma. È da notare, invero, che con quella “massa ostile”, sono solidali quasi tutti i galantuomini locali. Inoltre nei moti del 2 agosto i braccianti occupano le terre usurpate da questi stessi “signori” tenacemente fedeli al re Francesco.
Invero, forse con più precisione in merito alla data, il Giuliani annota:
'Un espresso da San Severo nel giorno primo ottobre. Con esso si annunciava il telegramma per la occupazione seguita nello Stato pontificio dalle armi del Re Galantuomo Vittorio Emanuele, e si inculcava di rendersi pubblico il lieto evento, invitandosi il Clero, le autorità giudiziarie, la guardia nazionale, e tutti a festeggiarlo, anche col canto del Te Deum (Nota 2). Uffiziatosi l'arciprete con la comunicazione dell'ufficio venuto dalla Sotto Intendenza di San Severo, venne il Te Deum cantato nella chiesa di S. Antonio Abate, e facendo posa il corteggio al corpo di guardia, dopo la religiosa funzione veniva in quella occasione inaugurato lo stemma delle reali armi di Savoia, e si ricevé il giuramento della guardia nazionale superiormente ordinato. Era così la funzione di quel giorno terminata; ma alcune voci tra gli astanti, richiedevano per la prima volta una manifestazione di pubblica esultanza; e tanto più che false voci facevano conoscere che per la volta di Sannicandro veniva qui una forza di duecento armati a scuotere questa assonnata popolazione. E quindi si proruppe nelle acclamazioni di Viva Vittorio Emanuele Re Galantuomo, viva Garibaldi, viva l'Italia una sotto lo stendardo della Croce di Savoia: e così ponendosi in marcia la guardia nazionale con buona parte delle autorità e del galantomismo, si girò per le piazze con la bandiera tricolore, ripetendosi sempre le stesse voci di evviva, sino a che si ritornò al corpo di guardia, ove la civile funzione ebbe termine.
Si continuò nella quiete fino alla domenica sette, quando non poté farsi la processione della Vergine del SS. Rosario, per non darsi occasione allo sviluppo di un popolare tumulto, come si sussurrava; e per quanto si disse, sospettoso per alcune lettere di soldati regi venute alle famiglie con le valigie del giorno antecedente, perché facevano credere alla ignara plebe l'arrivo in Napoli del re Francesco II'.
'Indifferente', 'retrograda', 'assonnata', dunque, questa popolazione di San Marco: sono epiteti che espungiamo dalla stessa relazione del Giuliani; si erge però sospettosa contro ogni novità, si allarma di fronte alla miseranda manifestazione dei pochi liberali e galantuomini, è riottosa ad accettare una nuova realtà dei fatti, dai pochi inneggiata e dai molti temuta e osteggiata, si desta e urta contro una fatalità che vorrebbe distruggere con un moto altrettanto spontaneo quanto pauroso. L'inganno in cui essa è stata tenuta, fin dal tempo dello sbarco garibaldino, ora è desiderato come verità pervicacemente, ostinatamente; non si può, non si vuol credere che tutto sia cambiato da un giorno all'altro.
Pertanto la medesima insinuazione dei malevoli, a cui accennerà candidamente il Tardio, per noi invece è una miccia accesa risucchiata voracemente da una bomba desiderosa soltanto di esplodere. San Marco è borbonica, ecco tutto; ed è la sua reazione un ultimo focolaio di resistenza, di fedeltà al vecchio regime.
Essa ama il suo Francesco e la sua religione e diffida dei liberali, teme le conseguenze dell'unità d'Italia; e il re Vittorio, per qualcuno, come leggiamo in un'anonima, è semplicemente 'un c...'.
Torniamo dunque ai fatti.
'Alla sera della prima domenica di ottobre (7 ottobre) una moltitudine di ragazzi, capitanata da un tal Michele Di Santolo, movendo in fretta dall'estremo della piazza principale a San Berardino, faceva sentire le grida di Viva Francesco II, tra lo sventolare di molti fazzoletti bianchi. La truppa dei monelli via facendo s'ingrossò in poche ore di gente di ogni età; ed era tale lo schiamazzo, lo frastuono, che produceva tanta folla agglomerata lungo la piazza, che il mare in tempesta o l'uragano nel suo maggior furore non avrebbe retto al paragone. Poscia alle grida di viva Francesco II succedevano, dietro insinuazione dei tristi, quelle di “morte ai liberali' (Tardio).
Seguiamo ora il Giuliani che è, a un tempo, testimone, cronista e parte in causa, il quale anche lui è impressionato dalla potenza della folla in rivolta. Gli vien fatto di ricorrere al Pellico per meglio esprimere la sua profonda impressione:
'quel muoversi dei popoli irruente ...
un mar parea,
che straripando inondi la campagna...
Si discernea ch’ell’era gioia, e pure
era una gioia che mettea spavento'.
Gioia e spavento; i molti non vogliono credere alla verità dei pochi, e questi non vogliono credere alla realtà dei molti: due dure certezze, direbbe il Vico, provenienti da due verità diverse, da due idee opposte, e pertanto i pochi liberali e la gran massa del popolo reciprocamente non si comprendono, donde la tragedia in corso.
'Ciò che era titubanza e dubbio del giorno ebbe a divenire realtà e certezza; giacché non ancora erano battute le ore 24, quando dalla piazza San Berardino, un aggruppamento di bracciali inermi, e dal bambolo fino al canuto, e perciò di ogni età, non escluse le donne contadine, precipitavasi a torme sulla piazza maestra, e come si inoltrava, così sempre più cresceva, tanto che in breve tutta la lunghezza ne veniva dai tumultuanti occupata, gridando sempre Viva Francesco II, Viva il nostro Re... Gli insorti così cresciuti in massa, e sempre in tumulto passando per il corpo di guardia nazionale rimasto vuoto per la fuga di quelle poche guardie che lo custodivano, ed insuperbiti per non aver trovato ivi chi loro facesse fronte, procede al massimo dei disordini, perché tutto il mobilio venne distrutto e dato alle fiamme; i fucili vennero presi, l’effige, le bandiere, lo stemma, dispersi e lacerati. E simili alle locuste, quando precipitano a divorare il campo, tutto in un baleno venne posto a rovina, né si risparmiarono le grosse travi di sostegno alla lettiera, ridotte in minuti pezzi e con le sole orsigne mani. I pacifici, presi da spavento, precipitosamente corsero a chiudersi nelle proprie abitazioni, chi chiamando i figli, chi i fratelli, chi il padre; e confondendosi queste alle grida tumultuose della plebe, sembrava un finimondo; e così tutte le porte si chiusero e custodirono. Semplicemente non poté chiudersi, e dové rimanere aperta ed esposta la mia abitazione, e la mia famiglia, fino a notte avanzata, dové sopportare gli assalti dei rivoltosi i quali ora volevano l'effige di Francesco II, ora le sue bandiere: più tardi torce e ceri, ed in ultimo armi e munizioni: era un vero caos, una vera casa del diavolo. Come che ciò che si chiedeva non tutto poteva darsi, così onde cessare le insistenze, si dové pregare e persuadere alla meglio che si poté. Durante il tumulto il sarto Angelo Calvitto fu il solo che venne mortalmente ferito; e più per opinione manifestata, che per vendetta privata, e così offeso fuggendo stiede in campagna tutta la notte; la sua casa venne aggredita e saccheggiata, il poco mobilio disperso e parte incendiato, e col di più che l'infelice famiglia deplora. Il disgraziato che dopo rifugiato si era presso l'eremita dell’Addolorata, nella cui cella con cristiana rassegnazione ricevé gli ultimi sacramenti, dopo due giorni se ne morì in casa della figlia maritata. La famiglia orbata ricevé in appresso dal Governatore una liberanza di ducati 300 dalla tassa per le spese di guerra (Nota 3). Nella notte istessa, mentre ancora disperatamente si gridava e si strepitava per le strade, le femmine coi tamburelli, come le baccanti, gli uomini con le mazze e i rottami di tavole, residuo del distrutto corpo di guardia, per ragione della mia carica ho dovuto, in mezzo a tanto fracasso, rapportare l'accaduto al sotto Governatore del Distretto: ma il corriere non poté muoversi, perché tutte le uscite erano già custodite dai rivoltosi, e non partì che alle ore tarde del giorno appresso. Dell'istesso rapporto se ne fece inteso il Governatore in Foggia. Non ancora sorgeva l'alba del giorno otto, e l'imperiosa gente già era dietro al mio portone, chiedendo e obbligando ripetersi le funzioni che nel primo ottobre facevansi per Garibaldi, oggi, dicevano, per Francesco secondo, e più solenni. E chi poteva negarsi? Tutta la potenza già stava nelle loro mani, e bandi in ogni poco si sentivano per le strade; con che chiedevano che nessuno fosse andato in campagna per assistere alla funzione; che tutti avessero cacciate le loro armi da fuoco per solennizzarla con lo sparo; che tutti i componenti la disordinata banda musicale dovevano riunirsi; e che si fussero suonate le campane in segno di allegrezza. Tutto a rigore si eseguì, che anzi con mio invito da essi impostomi, calarono tutti i monaci da San Matteo, e così, quando il sole aveva percorso la quarta parte del nostro orizzonte, il clero uscì processionalmente dalla chiesa collegiale, e, seguito dal popolo, si recò nella chiesa dell'Addolorata.
Un vasto piano si accerchia da irti monti, che, tappezzati da fiori di mille colori, e guardandosi la prospettiva delle nostre terre, ti ricorda i vastissimi anfiteatri di Roma. Di fronte a quel punto di cielo, ove l'aurora sorge rugiadosa e benefica, furierà dell'astro maggiore, evvi la chiesa dell'Addolorata, situata su l'ultima linea del piano; al suo sinistro fianco, a pochi passi, il paese s'innesta tra il piano ed i monti, e, come apposito sgabello in un luogo di festa, parea che fusse fatto per guardare sicuro la tumultuosa gente, che il giorno otto raccoglieva sul piano: e veramente che da ogni punto dell'abitato e sopra i tetti si vedevano le donne a gruppi, che ad ogni mossa del popolo sventolavano i loro pannilini, e lo spettacolo e la natura intiera pareva tutta animata, tutta viva.
Il suono continuo dei campanelli della chiesa, lo sparo fragoroso dei fucili e mortaletti, annunciava che la funzione già incominciava. La massima parte del popolo dové lasciarsene nello spianato e sull'atrio, atteso che la chiesa poca dell'accorsa gente poté contenere. Tutti raccolti, abbenché fuori li vedevate con le braccia a sen conserte, con gli occhi bassi, e dal muovere continuo delle labbra, riconcentrati in se stessi, si arguiva che pregavano. Vi regnava un perfetto silenzio, interrotto dallo sparo dei fucili e da qualche sospiro mal represso di femminella.
La Santa Messa parata a festa e solennizzata dall'arciprete era per terminarsi. Sull'atrio e tra le due porte della chiesa, con pensiero del popolo, si eresse un altare parato con baldacchino, ceri e tutt'altro, acciocché tutti avessero assistito al canto del Te Deum e ricevuta la benedizione.
Era non adatto; ma pure quella funzione, quel vedere di un popolo sì devoto e sì cambiato dagli eccessi di furia, che quasi insensato animale lo rendevano nel giorno innanzi, mi commuoveva l'anima. Le due porte della chiesa si spalancarono e due file di armati si ordinavano sull'atrio. Il clero ed i monaci a due a due defilavano dalle porte, quando apparve il Gran Dio Sacramentato, che veniva reverentemente situato nel baldacchino sul preparato altare. Oh allora! Il battersi del petto, il pianto soffocato delle donne, lo sparo dei mortali e degli schioppi mi allacciavano il cuore, e con gli occhi nuotanti nelle lacrime, guardava l'umiliato popolo e pregavo per quella gente ignorante che l’avesse fatta ravvedere dall'inganno già preso. E tra le clamorose voci che là là si alzarono di Viva Francesco secondo, l'arciprete intuonava il Te Deum, ed uno sparo mai inteso salutò l’Iddio degli Eserciti. Non un motto, non un detto distoglieva la moltitudine dal suo raccoglimento ed unità di pensiero, e profittandone il Canonico D. Pietro Maria Giuliani, mio figlio, salito sul basso muro di cinta all’atrio, improvvisò un discorso di disinganno richiesto dalla circostanza, non discompagnato dalle esortazioni agli astanti di presto riprendere l’ordine; e che, inteso con pacatezza, produsse l'effetto che si desiderava. Il popolo, ricevutosi la benedizione del Santissimo, lo accompagnò devotamente e con bell'ordine; e dopo che la processione pose termine nella chiesa di S. Antonio Abate, ognuno si ritirò soddisfatto e contento'.
Queste pagine del sindaco Giuliani che abbiamo voluto riprodurre integralmente per la loro bella efficacia, ci inducono ad alcune considerazioni.
Il popolo fino allora ingannato vuol imporre la sua disperata azione.
'Il convicino paese di Rignano stava in veglia e tremebondo, perché dai rivoltosi si minacciava un'aggressione, e il timore non era senza fondamento, poiché nel tumulto ne uscirono di tali voci, e, per dirla, si decretava così dai caporioni, e per ciò qui si dubitava della venuta della forza, come di fatti era già giunta in S. Giovanni Rotondo, e là se ne rimase, ed il tenente comandante De Maria me ne faceva consapevole. Una deputazione, veniva allestita per quel comune, io col R. Giudice e molto seguito ci presentammo al comandante la forza mobile e gli facemmo chiaro l'accaduto, persuadendolo che la reazione qui succeduta non aveva un oggetto politico, ma che false notizie venute dai soldati regi alle famiglie, accagionarono tanto rumore'.
Il dire che la rivolta non aveva avuto oggetto politico è semplice, pietosa, plausibile bugia dal sindaco a favore dei suoi amministrati nell’invocare clemenza dalle autorità superiori.
La rivolta, checché ne dica il Giuliani, è schiettamente politica (Nota 4) con un incentivo a sfondo sentimentale comune alle due parti e insieme diverso.
Fatta eccezione del triste episodio Calvitto, del quale diremo fra poco, non vi fu danno alle persone né invasione di case, né saccheggi, né, come nell'agosto, occupazione di terre. Con spirito sia pure fanatico, il popolo vuole il suo re, la sua religione che crede minacciata: Garibaldi, i rossi spaventano il popolo sammarchese. In un manifesto dello stesso Giuliani con cui indice i comizi per l'imminente plebiscito si leggono frasi illuminanti e rivelatrici come queste:
'il vessillo tricolore con la croce dei Savoia non vi spaventi'.
È ormai in atto un conflitto di idee, di interessi, sia pure, ma questa volta non materiale, di due parti che non si comprendono più. In quel popolo silenziosamente orante si possono ravvisare tutte le classi sociali: contadini, braccianti, clero e borghesi di parte borbonica come nell'altra parte sono anche rappresentate le stesse classi, fino a quelle dell'umile sarto Calvitto che solo paga di persona per opinione semplicemente e liberamente espressa. 'Più per opinione manifestata che per vendetta privata', sentenzia incisivamente lo stesso Giuliani. Eroismo, in questo caso del povero Calvitto, o imprudenza di fronte a una folla scatenata? Comunque - 'un vero martire', annoterà mestamente il buon Tardio - 'colpevole d'aver manifestato la propria opinione favorevole al risorgimento d'Italia'.
Certo non si poteva pretendere quest'eroismo, questa imprudenza da un sindaco responsabile e da un galantuomo qual’era il vecchio Giuliani. Occorreva un coraggio civile e sovrumano per dire a quella folla piamente pregante la verità, né sappiamo che cosa il di lui figlio, il canonico Don Pietro Maria Giuliani, abbia precisamente detto in quel discorso di disinganno improvvisato per la circostanza.
Vero è che lo stesso Tardio (Nota 5), di sicura e strenua fede liberale, annota favorevolmente il comportamento tenuto dal sindaco.
Fatto sta che se un altro Angelo Calvitto avesse in quell'ora di raccoglimento gridato improntamente: “Viva l'Italia libera e unita”, la folla si sarebbe ridestata come belva e sarebbe ritornato il “finimondo” che il Giuliani aveva già sperimentato, nella notte precedente, in casa propria. (Con lo stesso sentimento del Tardio, a distanza di un secolo, a noi però vien fatto di pensare che quella folla ora variamente divisa in partiti di massa si batterà tuttora per un ideale nobilissimo di religione, magari di patria, per un giusto interesse di lavoro e di pane, giammai ancora, purtroppo, per un ideale di libertà).
Scrive a sua volta con commozione il Giuliani - e il fremito di tale commozione raggiunge anche noi tardivi lettori -:
“era non adatto; ma pure quella funzione, quel vedere di un popolo sì devoto e sì cambiato dagli eccessi di furia, che quasi insensato animale lo rendevano nel giorno innanzi, mi commuoveva l'anima'.
Era dunque non adatto proprio così, perché quella commozione del Giuliani ci appare complessa. Non era soltanto la surriferita e giusta considerazione a commuovere il Giuliani: l’onestuomo in quel momento sentiva che la sua opera di sindaco, di “padre” antico e, in qualche modo, di educatore, era fallita. In quel momento la folla sammarchese prende coscienza della sua forza, che una prova di forza fu appunto quella prima manifestazione. Essa cederà soltanto a un'altra forza irresistibile di cui subirà, per dirla col Vico, l'imperioso fascino: sarà prima la forza di capi rivoltosi e poi quella dell'esercito regolare. Da quel momento il popolo non può ascoltare più il suo sindaco; esso pensa a un suo capo. Praticamente dal 7-8 ottobre il sindaco non ha più alcuna autorità.
Infatti il popolo, l'otto ottobre con un anticipo di dodici giorni sulla data del plebiscito aveva apertamente e unanimemente risposto no.
Intanto il Giuliani, più per dovere d'ufficio, il 18 ottobre, esorterà così i suoi amministrati nel prepararli alla votazione:
'Cittadini,
voi vi riunirete con noi in comizio domenica prossima alle ore 13 nella casa comunale. Ne sapete il perché? In questa riunione conoscerete la vostra dignità nella quale vi ha posto il riordinamento della cosa pubblica sotto gli auspici dell'invitto Dittatore... Per adesso si avrà una giustizia imparziale, un incoraggiamento all'agricoltura ed al commercio, il rispetto alla religione ed ai suoi ministri. Il vessillo tricolore non vi spaventi. Voi, col pronunziare il sì concorrerete a mettere una pietra al patrio edifizio. Siete però liberi a profferire anche il no... Cittadini, mi chiamate padre ed io da figli vi ho amato e vi amo. Nella mia avanzata età fui chiamato a porre mano all'aratro...: sentiste le mie voci e vi siete ritirati speranzosi dalle sconsigliate dissodazioni sopra i demani comunali. Le sentiste quando mi dirigeva alla guardia nazionale per mantenersi nel buon ordine e nella pubblica quiete, e voi come assonnati in placido riposo non vi scuoteste alle tumultuose voci dei popoli convicini, serbando sempre il rispetto ai magistrati e l'osservanza alle leggi. Ma infine, tutto ad un tratto, cadeste nel precipizio. Chi vi salverà, chi salverà la Patria, le vostre famiglie, i vostri figli? Un sì che profferirete sarà l'antidoto salutare e questo da voi provoco'.
Ma la domenica del 21 ottobre, giornata del plebiscito, a San Marco le urne saranno deserte: il sindaco, con la giunta preposta alle operazioni di voto, è costretto a redigere malinconicamente un verbale negativo. Dall'atto ufficiale esistente nell'archivio comunale trascriviamo:
'L'anno 1860 il giorno 21 ottobre in San Marco in Lamis. La giunta comunale composta dal sindaco presidente, dai Decurioni e Comandante la guardia nazionale in piedi sottoscritti, coll’intervento pure del regio Giudice, si è riunito alle ore 7 antimeridiane nella casa comunale ad oggetto di raccogliere i voti in Comizio che si sarebbero dati dai votanti dichiarati capaci per la votazione, per accettare o rigettare il Plebiscito richiesto dai Decreti Dittatoriali degli 8 e 11 volgente mese. Il sindaco presidente ha dato lettura dei citati decreti con i regolamenti annessi.
Ha dato lettura della lista dei votanti col correlativo certificato di affissione dai quali si ha il numero dei votanti 3086, esclusi quegli individui che per condanna si trovano riportati negli elenchi trasmessi dal Sig. Governatore con lettera del 16 e 18 detto corrente mese, e dei quali ancora si è data lettura. Su di un panco destinato per la votazione si sono situate le tre urne come dall'art. 4. Non essendo richiesto l’appello nominale dei votanti si è attesa la loro spontanea comparsa. Ed essendo stata la Giunta in sessione permanente, sino alle dodici nessun votante si è presentato, per cui il chiesto Plebiscito, non ha avuto luogo. Di che si è disteso il presente processo verbale. Sottoscritto dal Sindaco presidente, dai Decurioni intervenuti e dal Comandante la 3. Compagnia della Guardia Nazionale, vistato dal Regio Giudice. Il sindaco: L. Giuliani; I Decurioni: Giovanni Picucci, Giuseppe Luigi Ciavarella, Pasquale De Theo, Angelo Bonfitto, Giuseppe Luigi Martino; Il Comandante della Guardia Nazionale: Michele Gravina; Visto il Giudice: L. Altobelli' (Nota 6).
La memoria viva e fresca dei fatti del sette e dell'otto ottobre, e l'oscura minaccia dei molti fecero passare la voglia di votare ai pochi eventualmente volenterosi. Lo stesso giorno, nella vicina S. Giovanni Rotondo, i capi liberali e i preposti alle urne,
'24 distinti cittadini, tra cui un giovane notar di San Marco, di molto ingegno dotato, a nome Paolo Franco' (Tardio),
furono barbaramente trucidati.
Il 24 ottobre il Giuliani si dimette: al sindaco notar Leonardo Giuliani subentra, vera autorità morale, anche se illegale, il futuro e cavalieresco brigante Agostino Nardella. Sarà comunque un breve interregno in cui tutti si appellano al fuorilegge, scappato di prigione, al Nardella, alias 'Putecaro', anziché al Vice-Sindaco, al secondo eletto sig. Michele La Porta. Durerà questa extralegale ma provvida autorità lo spazio di una settimana ancora gravida di eventi.
Un diverso svolgimento del plebiscito, sia pure con alcuni fermenti contrari, subito repressi, si ebbe nel vicino borgo di Sannicandro Garganico. Questi furono i risultati della votazione del 21 ottobre: 485 voti favorevoli e nessuno contrario. Senonché il sindaco credette opportuno informare minuziosamente le autorità di alcuni tentativi inquietanti.
'La mattina del 21 ottobre verso le 6 a.m. i campagnuoli, uscendo fuori dalla Chiesa, dove avevano ascoltato la messa dell'aurora, avevano gridato ‘Viva Francesco II’'! Appena erano giunte le Guardie Nazionali essi erano fuggiti. Uno di essi, Michele Centonza, era stato arrestato. Verso le 5 p.m. dello stesso giorno però, mentre la votazione procedeva in tutta tranquillità, una pattuglia della Guardia Nazionale si accorgeva che alcuni pastori-campagnuoli, riuniti in piccoli crocchi tentavano di risollevare una sommossa reazionaria. Essi infatti, riunitisi a largo Colonna in vicinanza della Chiesa madre, avevano di nuovo gridato ‘la detestabile parola’ brandendo ‘stili e scuri’ di cui erano armati e lanciando pietre ai cittadini inermi. Respinti dalla G. N. i rivoltosi benché si difendessero strenuamente con le pietre e con ‘gli scuri’ (avevano tirato anche due colpi di pistola) avevano dovuto arrendersi alle G. N. ed erano fuggiti per una strada che sporgeva nel vallone di Monte Vergine e si erano salvati dall'arresto. Erano stati arrestati i pastori Luigi Fortunato e Pasquale Cristino il quale aveva poi ferito una guardia a colpi di scure. La votazione però non era stata minimamente turbata. Il sindaco accusava di aver provocato questi sediziosi un tale Antonio Cavallo vagabondo ‘coverto di mille turpitudini’ e un certo Giuseppe Fioritto che era un ancor più tristo individuo' (Nota 7).