C'è ancora qualcuno che ricorda Silvio d'Arzo? E’ stato dimenticato anche dagli intellettuali che a suo tempo lo esaltarono. Ma “Casa d'altri ” rimane un racconto gigantesco, uno dei migliori racconti del Novecento.
Pippo Ruiz, Siracusa
Il senso della fine di uno scrittore troppo giovane
di Piergiorgio Paterlini
La sua vita brevissima, stroncata a 32 anni dalla leucemia, ci consegna Casa d’altri un’opera che Montale ha definito il “racconto perfetto”. Per la forza della pacatezza

Dentro di me l’ho sempre chiamato lo scrittore ragazzino.
Era un moto affettuoso, non un giudizio critico. Ma sbagliavo “e anche più», secondo un intercalare caro, nella scrittura, a Silvio D’Arzo (Ezio Comparoni all’anagrafe). D’Arzo, riletto oggi, mi appare non solo Grande, ma grande, anche se la sua vita non si era certo potuta affacciare a lungo nel tempo degli adulti, stroncata dalla leucemia nel 1952, a trentadue anni.
Avrebbe compiuto i cento tondi tondi il 6 febbraio scorso. Un solo romanzo pubblicato in vita, ventiduenne, All’insegna del buon corsiero, testo che a breve uscirà per una casa editrice reggiana che da questo titolo ha tratto il proprio marchio, Corsiero editore, e che manderà in libreria anche un libro per ragazzi rimasto incompiuto, Una storia così, con la seconda parte affidata a Matteo Razzini.
Il solito destino più beffardo che riparatore per uno scrittore che proprio nella sua città, oltre che tra i suoi amici, non voleva essere identificato come l’autore di quel romanzo, di quei saggi, di quelle poesie, di quelle storie per ragazzi, di quei racconti.
Scrive D’Arzo al suo editore Vallecchi:

“Mi raccomando di tirare via la parola “Reggio Emilia” da ogni pubblicità: e di non dirlo nemmeno a questi librai.
Pensate che abbiamo glorie pugilistiche, tenori, direttori di biblioteche che scrivono odi saffiche alle statue, e che il minimo che potrebbe capitarmi sarebbe di vedermi messo tra tanta fama e onore municipali”.

La polemica più acuta e sferzante che si possa fare del provincialismo, la cui essenza sta proprio nell’avere a cuore non la letteratura, e nemmeno il bel canto se è per questo, ma neppure la più popolare gloria sportiva, bensì quel po’ di successo bastante a esibire a mo’ di trofeo - quando va bene - un “compaesano” nella gara tra campanili.
Vivere nascosto. dunque. un po' sepolto, può essere scelta e condizione (sopratutto di classe), ma certo non sepolto letteralmente, accidenti. Invece. Muore giovanissimo Silvio d’Arzo, e se non aveva ancora potuto raccontare l’amore e non era riuscito ancora a far ridere, due progetti che aveva già messo in agenda, i suoi testi non sono quelli di un adolescente con molto talento e poco mestiere, poca cognizione della vita e dell’animo umano, “e anche più”.
Casa d’altri - racconto lungo “perfetto”, secondo la citatissima definizione di Montale - è un thriller psicologico che tiene con il fiato sospeso fino alla fine. Il tema è il suicidio. Non come reazione a grandi tragedie, malattie incurabili, stati vegetativi (semmai stati vegetativi dell’anima), ma a una quotidiana insopportabile infelicità e insensatezza del vivere. E il dibattito non si svolge fra intellettuali, teologi, giornalisti. No. Siamo in un borgo montano di sette case, i protagonisti sono il parroco e un’anziana donna sola e solitaria, Zelinda. Che non ha il minimo dubbio, la sua domanda al prete e retorica, provocatoria, rivendicativa: se sia possibile per qualcuno, senza mettere in discussione la regola generale, ottenere il permesso di “finire un po’ prima”, locuzione indimenticabile che da sola vale il racconto.
“Io ho una capra e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale. Ecco che cosa faccio io: una vita da capra solo che lei finisce più presto”.
Allora - se c’è un po’ di pietà e un po’ di giustizia, anche - si dovrebbe poter dargliela su “senza fare dispetto a nessuno”. Perché alla consapevolezza si accompagna una grande pacatezza e neanche un grammo di vittimismo. Più stupore che protesta contro Dio, gli uomini, il destino. La scelta è cosi piena di forza che il parroco sarà costretto a fare i conti con la propria desolazione e il proprio fallimento, e un pensierino verrà anche a lui su quel diritto alla pietà per se stessi.
Come in molti capolavori, il paesaggio “fuori” è lo stesso del paesaggio “dentro”. Una vita desolata in una “terra desolata”, e cito Eliot perché non si può non pensare alla sua “ora violetta” leggendo di quel viola del tramonto che tinge tutto Casa d’altri.
Il borgo si chiama Montelice, un luogo dove “non succede niente di niente. Niente, v’ho detto. Non succede niente di niente. Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro”. Nella realtà si tratta di Cerreto Alpi, la frazione dove vive un famoso estimatoredi Silvio D’Arzo, Giovanni Lindo Ferretti, che ne tratteggia la madre in un suo libro. Ma niente, in realtà, potrebbe essere più lontano di D’Arzo da Ferretti, che ne tratteggia la madre in un suo libro. In D’Arzo siamo agli antipodi della mitizzazione del silenzio meditativo, del lavoro umile e semplice, del ritorno alle origini. Per D’Arzo quel niente è proprio e solo niente, è abbruttimento da bestie, e vuoto nulla.
Nel breve saggio Robinson 1948 - come non citarlo su queste pagine? - D’Arzo scrive che “dell’uomo solo nell’isola si cerca di fare addirittura una norma di vita, la guida per un’arcadica felicità. E dire che all’inizio del Giornale si possono leggere parole come queste: Piansi la mia misera solitudine e mi disperai, solo la morte avevo dinanzi a me”. La morte, non una vita più autentica, figuriamoci la felicità.
Se Casa d’altri è il più noto, amo allo stesso modo un testo pressoché sconosciuto, altro capolavoro di linguaggio, ritmo, acutezze, ironia: la prefazione a un ampio romanzo che l’autore non avrà tempo di scrivere, Nostro lunedi di Ignoto del XX secolo. Il personaggio (solo interiormente autobiografico) racconta sei anni buttati, tre da soldato, tre da cronista, “sei anni falsi. I miei due anni veri furono invece il ’49 e il '50 quando presi a scrivere questo romanzo. E io, ripeto, non chiedo di più. Niente al mondo E’ più bello che scrivere. Anche male”. Ora, “anche male”, parliamone. Anche no. Ma capisco, anzi sento cosa voleva dire D’Arzo. Una dichiarazione d’amore assoluta per un amore assoluto.
Viene una grande malinconia a pensare che uno scrittore così abbia dovuto non “finire un po’ prima”, ma quasi prima di cominciare.