Silvio d’Arzo, Casa d'altri, Parma MUP 2006 - Capitolo I
“Così in treno non ci si arriva, lassù … ”
“No. E neanche in corriera”.
“ … “
“Vi ci vogliono tre ore di mulo. E poi non d’inverno, s’intende. E neanche quando le nevi si sciolgono. Allora, non ce la fareste nemmeno con cinque”.
”Beh ... avrà pure un nome”.
“Sì, mi pare di sì. Dev’essere l’unica cosa che abbia”.
I
All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso.
Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all’altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più. Tutto il resto era buio.
“Sentito niente, voi donne?” dissi io alzandomi subito in piedi.
La più vecchia prese il moccolo in mano e lentamente andò ad aprir la finestra. Per un minuto fummo tutti nel buio.
L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e in mezzo all’ombra, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne.
“Sono gli uomini che scendon dai pascoli” mormorò ritornando da noi “e fra dieci minuti son qui”.
Era vero, e così respirai. Le parole mi fanno vergogna, ecco il fatto: e i commiati non sono mai stati per me. Specie quelli. Senza parere mi avviai verso l’uscio.
“Allora, così, reverendo” mi disse una venendomi dietro “noi lo laviamo e gli facciamo la barba: e a vestirlo ci penseranno loro stanotte”.
“A cucire il lenzuolo manderò domattina la Melide” dissi. “E per le donne che piangono?”
“Volevano trecentocinquanta: più mangiare e dormire una notte. Facciamo senza, così. Tanto più che c’è il caso che arrivino anche i nostri parenti da Braino”.
“Sì: forse non ne valeva pena” dissi io, “gente non dovrebbe mancarne domani. Lavorava anche nei maggi, o mi sbaglio?
Sì. Giacobbe. E una volta re Carlo di Francia. E poi, dopo cinquant’anni di pastura su a Bobbio, si finisce che ci conoscono tutti”.
Vicino al saccone di foglie se ne stava seduta la vedova. Difficilmente si piange quassù: e anche lei rimaneva immobile e fissa come la vecchia del Duomo in città che sta lì ad aspettare il suo soldo. I nipoti erano stati portati in istalla.
“Buona notte” dissi io a bassa voce “domattina alle sette son qui”.
Fece segno di sì con la testa. Due o tre donne mi accompagnarono giù.
Adesso cani e campanacci di bronzo si sentivano anche più chiaramente, misti a tratti a un rumore di peste. Dietro un vetro un bambino tossiva e nelle stalle si sentivano calci di mulo e rumori di morsi di ferro.
Cominciava a far freddo. Attraversai la piazzetta di pietre e due strade non più larghe di un braccio: così strette, vi dico, che un Falstaff come me deve strisciarci coi gomiti contro.
Dallo stagno mi voltai per guardare giù in basso.
Sette case. Sette case addossate e nient’altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi.
Le tre vecchie erano ancora là ferme, proprio sullo scalino di casa, sotto la finestra illuminata ed aperta.
“Ecco tutta Montelice” dissi. “Tutta quanta: e nessuno lo sa”.
E salii per la strada di monte.