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La provincia

Panorama di Ventasso (RE)
Panorama di Ventasso (RE)
Comparoni trascorre, quindi, le sue giornate fra libri e incontri culturali con gli amici, nell’ambiente della piccola provincia emiliana, anzi neppure cercando di evadere fisicamente dalla città di nascita per conoscere altri ambienti. Se si allontanò da Reggio fu solo perché costretto da qualche necessità esterna: frequentò la facoltà di Lettere a Bologna; il servizio di leva lo trasferì prima a Como, poi ad Avellino alla scuola Ufficiali, infine a Barletta, dove avrebbe dovuto imbarcarsi per il fronte Egeo. Qui, diventò protagonista di un’avventura straordinaria, quasi rocambolesca, che gli ispirò poi due racconti: l’8 settembre 1943 fu catturato insieme ai commilitoni dai tedeschi, ma, quando già era avviato ai campi di concentramento, durante una sosta del treno in campagna, riuscì a fuggire con un sottotenente nei pressi di Francavilla a Mare trovando rifugio, fino a novembre, presso una casa di contadini, da dove riuscì a tornare senza sostanziale pericolo a Reggio Emilia. Negli anni successivi, ci furono solo uno o due soggiorni a Firenze, uno o due a Roma per il concorso a cattedre di insegnante di Lettere, la breve permanenza sul lago di Garda, su consiglio del medico, nella speranza che il clima del luogo potesse giovare alla sua precaria condizione di salute.
Ezio Comparoni trascorse, quindi, la sua breve vita, come dice lui stesso, da provinciale, ma il sentimento che lo legò alla provincia fu ambivalente: certamente fu forte in lui il vincolo con il luogo natale, e forse fu proprio questo che gli impedì di allontanarsi da Reggio, perfino durante il periodo dei bombardamenti; nello stesso tempo, però, fu pienamente consapevole dei condizionamenti culturali ed umani dell’ambiente; e più volte manifestò la sua insofferenza. Scriveva, per esempio, a Cecchi il 21 luglio 1948:

“… io sono quello che sono: e faccio il professore, e vivo in una città di provincia, dove il passeggio verso le sette per la via principale è quasi un’avventura. I giorni, le ore non mi passano mai”.

D’Arzo aveva l’abitudine, infatti, di osservare il passeggio cittadino: ogni sera a partire dalle sei, ora nella quale uscivano operai ed impiegati riversandosi nella via Emilia, si poneva in disparte, addossato ai muri di Palazzo Bussetti, nella frequentatissima Piazza del Monte, tutto assorto ad indagare le fisionomie: lo spettacolo di una realtà limitata e sempre uguale lungi dal procurargli noia, diventava quasi momento di estraniazione dal contingente, come si può ricavare dalla prefazione a Nostro Lunedì:

mi piaceva molto guardare, ecco tutto: avevo il discutibile dono d’una fantasia superiore alla media che mi permetteva di verniciare di fresco anche gli aspetti più degradanti o più miseri, e un’ironia un poco ignobile per riderci o sorriderci su, e una meridionale pigrizia che mi impediva di conoscere fino in fondo la noia”.

La povertà degli eventi e degli incontri che caratterizzavano l’esperienza ambientale provocavano poi in D’Arzo anche un’insicurezza di comportamento, il timore di avere acquisito maniere inadeguate al vivere. Ad esempio, così scriveva a Emilio Cecchi l’undici luglio 1946:

“… non ho parole per chiederle scusa e per ringraziarla e per pregarla di dare, in buona parte colpa alla provincia” (Lettera del 11 luglio 1946) , e il 29 agosto 1947: “… Mi lasci, questa volta, parlare da ragazzo e da provinciale …”.
Non vorrei che Lei mi considerasse ambizioso come un provinciale” – scriveva ancora il 20 agosto 1950 – “… non frequentando quasi nessuno, non ho nemmeno il senso del limite: qualche volta credo di essere indiscreto solo chiedendo il nome di una strada, qualche volta sono maleducato addirittura”.

Il tema della vita provinciale costituisce un vero e proprio Leitmotiv della corrispondenza darziana: in una lettera del 26 novembre 1948 scriveva al suo editore:

“Caro Vallecchi ti auguro di cuore di non arrivare a conoscere mai che cosa sia una cittadina di provincia, a novembre, in una continua attesa di risposte che arrivano da lontano”;

e alla sua amica Ada Gorini, il 27 novembre 1949:

“Forse tutto è stata colpa della provincia e della domenica. (Oltre a tutto pioveva)”.