L'Unità del 30.01.2002
Pubblica in periodici diversi racconti e abbozza progetti di romanzi (che realizza solo in parte) tra cui il più importante è Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo (ricostruito da Anna Luce Lenzi nel 1986 per l’editore Mucchi di Modena). Non va dimenticata la sua produzione per l’infanzia, all’interno della quale spicca il romanzo Penny Wirton e sua madre (Torino, Einaudi, 1978). Il suo capolavoro rimane comunque il racconto lungo Casa d’altri, pubblicato per la prima volta nel X quaderno di “Botteghe Oscure” a pochi mesi dalla prematura scomparsa dello scrittore, avvenuta nel 1952.
In occasione del cinquantesimo anniversario della morte dello scrittore molte sono le iniziative in atto. La neonata casa editrice Il cavaliere azzurro sta preparando un testo a cura di Alberto Bertoni e Fabrizio Frasnedi. Raffaele Crovi, editor di Nino Aragno Editore, annuncia l’imminente pubblicazione di un’edizione critico-genetica di Casa d’altri curata da Stefano Costanzi. Bompiani ha in cantiere la riproposta dell’Aria della sera e la pubblicazione del romanzo giovanile Essi pensano ad altro. Non mancherà un convegno di studi, che, diretto da Ezio Raimondi, si celebrerà il 13 aprile nella Sala degli Specchi del Teatro Valli di Reggio Emilia. Sempre nella città emiliana dalla metà di marzo sarà visitabile una mostra bibliografica presso la Biblioteca Panizzi, dove sono conservate le carte dello scrittore, oltre a tutte le edizioni dei suoi scritti e la produzione critica che si è esercitata intorno alla sua opera.
ro. ca.
D’Arzo, la dignità del dolore
Una vita breve e una fortuna editoriale alterna. Cinquant’anni fa moriva lo scrittore emiliano
Roberto Carnero
Ci sono scrittori la cui vicenda biografica e letteraria si è svolta all’insegna di un destino decisamente sfortunato.
Silvio D’Arzo - nome d’arte di Ezio Comparoni - è uno di loro. Ricorre in questi giorni il cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 30 gennaio 1952 nella sua Reggio Emilia, all’età di soli trentun anni.
Ezio Comparoni era figlio di padre ignoto. La condizione di figlio illegittimo aveva molto pesato sulla psicologia del ragazzo: nell’Italietta bigotta e piccolo-borghese del ventennio fascista si trattava di una macchia difficilmente cancellabile. A ciò si aggiungevano le condizioni di estrema povertà materiale della madre, che non ebbe mai un lavoro fisso. Il senso di diversità che ne ricava il giovane D’Arzo nel confronto con i compagni determinerà la tematica di parecchie opere del futuro scrittore.
Anche il suo capolavoro, Casa d’altri, definito da Montale “un racconto perfetto” - a quanto ha riferito un amico di D’Arzo, Canzio Dasioli - altro non era che la storia di sua madre, una donna stanca di vivere. Tanto che la protagonista della vicenda, la vecchia Zelinda (montanara come la madre dell’autore, che era di un piccolo borgo dell’Appennino Emiliano, Cerreto Alpi), giunge a chiedere al suo parroco il permesso di suicidarsi. Il racconto ruota infatti attorno a questa domanda, rivelata solo alla fine di un singolare “corteggiamento d’anime” tra il sacerdote e la sua parrocchiana.
Non sembra che D’Arzo abbia voluto scrivere un racconto religioso o addirittura – come sembrò a Pampaloni - un racconto “cattolico”. Quello che lo scrittore intendeva rappresentare era un dramma esistenziale, il dramma di una vita senza senso che chiede disperatamente aiuto. Ma il finale aperto non concede al lettore né la facile consolazione di un lieto fine né lo smarrimento senza appello di una soluzione negativa. Di qui, nell’indeterminatezza, la modernità darziana, che ha spinto qualche interprete ad accostare l’autore alla filosofia dell’esistenza.
D’Arzo non aveva certezze: né di tipo confessionale né di tipo politico. In anni di pieno neo-realismo egli dichiarava di sentirsi ugualmente distante tanto dall’arcadia del suo apprendistato letterario (si era nutrito negli anni giovanili delle esperienze gravitanti intorno alla prosa d’arte di gusto rondesco) quanto dalla “cronaca” degli esiti letterari più in voga. La sua riluttanza, all’indomani del secondo conflitto mondiale, ad aderire a quel programma di impegno civile che molti scrittori erano invece bramosi di firmare, lo collocò irrimediabilmente al di fuori dei gruppi e delle scuole. E, insieme all’esiguità della sua produzione, fu questa l’altra causa dell’oblio in cui rapidamente cadde dopo la morte.
Strana è infatti la fortuna - o la (s)fortuna - editoriale e critica di D’Arzo. In occasione di anniversari, commemorazioni, convegni, nuove edizioni delle sue opere, si è registrato in questi anni un periodico revival, che però tende ad assorbirsi piuttosto in fretta. E forse anche questa volta capiterà la stessa cosa.
Scrittore raffinato, scrittore per pochi, non gli sono però mai mancati illustri estimatori: dal citato Montale ad Attilio Bertolucci, da Walter Binni a Mario Lavagetto, da Enzo Siciliano a Giovanni Raboni ad Anna Luce Lenzi, la sua più devota studiosa.
Notevole poi la sua presenza presso tutta una generazione di scrittori: a partire dagli anni Ottanta il compianto Pier Vittorio Tondelli, Claudio Piersanti, Alessandro Tamburini, Eraldo Affinati, suo raffinato esegeta, e poi ancora Angelo Ferracuti, Guido Conti e, in tempi recentissimi, il giovane Davide Bregola.
Di D’Arzo essi riprendono innanzitutto una lezione di stile. Che non è però mera forma, quanto piuttosto una disposizione interiore che si fa parola senza ingombranti mediazioni intellettualistiche.
La riflessione morale di D’Arzo è quella di un’etica quotidiana, feriale, espressa con nitore in alcuni bellissimi saggi sugli amati scrittori anglosassoni. Il modello è ciò che D’Arzo, a partire da Conrad, chiama “umanità”, un valore assunto al di là di ogni retorica oggi diremmo buonistica: “virile e solitaria e malinconica. Non rivolge domande: non attende né pretende risposte: fa la sua traversata con esemplare dignità”. La stessa dignità che fu di Silvio D’Arzo e che ne fa oggi un piccolo grande “classico”.
2002 - La dignità del dolore
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