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wuz n. 6 novembre-dicembre 2007
di Hilarius Moosbrugger

Silvio D'Arzo
Silvio D'Arzo
L’uso di pseudonimo, se non è cautela dovuta a malaffare, è un felice strumento protettivo, anzi di più, una magìa che di volta in volta porta in un mondo immaginario ma non irreale, dove le difficoltà si superano e le ansie si attenuano.
Silvio D’Arzo, alias Andrew Mackenzie, Oreste Nasi, Tullio Mari, Aldo Colli, Sandro Nedi, Raffaele Comparoni è stato un esempio perfetto di questo affidarsi al doppio, addirittura al plurimo nel caso suo, così come è stato autore geniale di racconti, fantasie, fiabe, saggi, anche se di culto quasi totalmente postumo.
Nato a Reggio Emilia nel febbraio 1920 da Rosalinda Comparoni e da padre sconosciuto, ebbe come nome vero Ezio e fu iscritto all’anagrafe con il cognome della madre. Si può capire quanto essere figlio di NN fosse un trauma difficile da superare in un’ epoca e in una società in cui le differenze di stato civile erano marcate e condizionanti. E si può apprezzare non solo la necessità, ma la volontà di crearsi una nuova identità basata su nomi fittizi, non si sa come trovati ma comunque scelti con cura, e su capacità creative tali da dare sostanza a un’ esistenza nata difficile se non proprio dubbia.
La natura della madre, di tempra forte, espansiva nei modi, ricca di fantasia, che viveva di mestieri da racconto realista americano, bigliettaia di cinematografo e cartomante negli intervalli di tempo, fu l’altra fonte della personalità di Silvio D’Arzo. Fu lei a incitarlo agli studi e alla scrittura, proiettando capacità di inventiva che sentiva forse nascoste in sé e sperava si realizzassero nel figlio, aspettativa certamente non delusa.
Negli anni dal 1930 al 1941 Ezio Comparoni studiò al ginnasio e liceo di Reggio e, successivamente, si iscrisse all’ università di Bologna. Si laureò a 21 anni con una tesi in glottologia – su grafìa e pronuncia di nomi particolari dei paesi dell’Appennino reggiano – studio veloce per ottenere impiego di insegnante alla scuola tecnica.
Panorama di Ventasso (RE)
Panorama di Ventasso (RE)
Nel 1942, l’Italia in guerra, venne chiamato al servizio militare, scuola allievi ufficiali di Avellino; fu imprigionato dai tedeschi l’8 settembre 1943 a Barletta; riuscì a fuggire quasi subito, presso Francavilla a Mare, dal treno che lo portava in Germania e a riparare a Reggio fino alla liberazione del 45. Aveva ancora sette anni da vivere, prima che una leucemia lo uccidesse nel gennaio del 1952. La sua breve vita fu sostanzialmente statica e quasi senza eventi significativi, per quanto riguarda i fatti. All’opposto, fu vita intensissima, in continuo spasmodico movimento, nel suo aspetto interiore e soprattutto nella costante ricerca e invenzione letteraria.
Comparoni, nel 1935, 15 anni, frequentava la scuola a Reggio. I suoi primi due libri, uno di poesia l’altro di prose, uscirono quell’anno. Nulla si sa né da lui né da altri, di questi primi tentativi: non chi fosse il tramite per il contatto con gli editori, nessuna reazione all’apparire delle opere, totale rimozione di sensazioni da parte dell’autore, il quale non solo non parlò mai dei suoi inizi, ma fece di tutto per cancellarli. Eppure i due libri esistono, sono firmati Raffaele Comparoni, primo esiguo velo di incognito, hanno titolo Luci e Penombre. Liriche le poesie, e Maschere. Racconti di paese e di città le prose. Gli editori sono: Edizioni ‘La Quercia’, Milano e Carabba, Lanciano.
Luci e Penombre rappresenta un interessante caso di totale oblio editoriale. In Italia il libro si trova in unica copia presso la biblioteca Manfrediana di Faenza. Una domanda viene spontanea: chi era l’editrice ‘La Quercia’ ? Con precisione non si sa. Si sa che era una tipografia perché il retro del frontespizio porta l’indicazione Tipografia E. Bellasio, Milano 1935, Lire 3. Come il signor Comparoni conoscesse il signor Bellasio, in che modo lo convincesse a stampare il libretto di liriche – quante copie? 100? 200? – s’è perduto nel silenzio dell’autore e di tutte le bibliografie o note biografiche su di lui.
Anche Maschere è quasi un desaparecido. Qualche copia però, s’è vista apparire in questi anni e qualche oculato possessore dell’edizione esiste. Neppure in questo caso ci sono ragguagli sui rapporti Comparoni/Carabba, ma l’editore è conosciuto e benfamato per pubblicazioni raffinate del Novecento (tra le altre, Scrittori inglesi e americani di Emilio Cecchi, uscito nello stesso anno di Maschere e testo più che formativo per Comparoni).
Lo pseudonimo Silvio D’Arzo apparve la prima volta nel 1939, nella corrispondenza tra lo scrittore e la casa editrice Vallecchi. Nella lettera del 22 maggio, indirizzata al signor Silvio D’Arzo, presso Comparoni via Aschieri 4, Reggio Emilia, Attilio Vallecchi rifiutava il racconto Ragazzo in città:

” …teniamo ad assicurarVi che lo abbiamo letto con simpatia e piacere … purtroppo la nostra pratica impossibilità ad assumere nuovi impegni è assoluta e irrimediabile “.

Panorama di Ventasso (RE)
Panorama di Ventasso (RE)
Ragazzo in città era probabilmente una prima stesura di Essi pensano ad altro, una delle opere di D’Arzo che peregrinò per anni, prima d’esser edita da Garzanti.
L’autore Silvio D’Arzo nacque due anni dopo, nel dicembre 1941. A quella data Enrico Vallecchi, figlio di Attilio, comunicava di accettare la pubblicazione di All’ insegna del Buon Corsiero, fantasia di tono settecentesco, ma modernissima di significato. L’editore apprezzava il lavoro, lo considerava ”degno di far parte delle nostre edizioni“, assicurava che la produzione non si sarebbe trascinata troppo avanti nel tempo e offriva per contratto la percentuale del 15% sulle copie vendute, prezzo di copertina.
Iniziano qui dieci anni di storia editoriale e di creatività letteraria non più fantasma, ma documentata in corrispondenze con Vallecchi, Einaudi, Garzanti, Emilio Cecchi, Attilio Bertolucci. E’ una storia tormentata e frustrante per noi che la leggiamo oggi, scuorante a dir poco per l’autore, ” un calvario ” la definì in una lettera.
Ha visto una sola realizzazione, l’uscita di All’insegna del Buon Corsiero, Vallecchi, gennaio 1943, anche se il libro porta la data 1942. Di contro, una serie di proposte e idee che saranno tutte deluse, peggio, accettate a parole e rifiutate nei fatti.
All’ insegna … fu firmata Silvio D’Arzo e questo pseudonimo sarà sempre usato per condurre i contatti con gli editori, o nella corrispondenza. Unica eccezione lo scambio con Attilio Bertolucci, svolto con cognome vero.
Silvio D’Arzo resterà quindi il nome inventato, con il quale l’autore sarà conosciuto nel mondo letterario d’allora e tanto più, dopo morto, avrà fama e notorietà crescenti. Eppure non era lo pseudonimo che Comparoni amava. Diceva in una lettera a Vallecchi:

“C’è poi un’altra cosa … chiamarsi Silvio D’Arzo è nello stile del peggior D’ Annunzio e di qualche cantante d’operetta: io lo scelsi quando ero ancora un ragazzo, e mi si poteva anche perdonare. Adesso no: non si può”.

Veduta di Bobbio
Veduta di Bobbio
Il rifiuto non ebbe seguito, se non nel senso che i diversi altri nomi di scorta furono sparsi su riviste a firma di racconti e saggi, mentre D’Arzo rimase saldo a difesa della ossessiva paura di svelarsi che Comparoni aveva, ma pure a conferma che tanto d’operetta non era, e ”d” a parte, neppure così dannunziano.
I titoli che oggi sono i più noti nella bibliografia dello scrittore: Casa d’altri, Essi pensano ad altro, Penny Wirton e sua madre, Il pinguino senza frac, Nostro Lunedì di Ignoto del XX secolo, sono tutti stati rivalutati nel tempo dopo aver subìto una lunga sequenza di vicende con un unico comun denominatore: l’autore elaborava idee e testi, tentava titoli successivi, lottava contro lentezze, mutar d’opinioni, cambio di interlocutori, non riuscendo ad evitare un continuo stop and go che lo sfiniva senza mai risolversi.
Si prenda come esempio Casa d’altri, oggi definito il più bel racconto lungo della letteratura italiana del Novecento, storia di una vecchia che si sfianca di lavoro in un paese remoto dell’Appennino e disperata di vivere chiede dispensa di suicidio al vecchio prete del villaggio.
Un primo accenno alla composizione è in due lettere a Emilio Cecchi. La prima:

” Quando le scrissi, lei mi consigliò una cosa: di non lasciarmi vincere dalla malinconia e di non badare ad altro che a lavorare: ed io ho fatto di tutto per attenermi al suo consiglio … Fra qualche giorno mi permetterò di inviarle (come le avevo chiesto a suo tempo e lei mi aveva accordato) un altro racconto“.

La seconda:

”Ecco il racconto. Le chiedo ancora scusa di tutto: del fatto che io glielo invio proprio in giorni dedicati al riposo: di averlo copiato a mano con una scrittura misera misera, certamente sgradevole all’occhio, ma farlo leggere ad altri, sia pure una dattilografa, era più forte di me e di ogni altra cosa“.

La risposta di Cecchi fu lusinghiera e incoraggiante:

”Mi pare che lei dovrebbe essere assai contento di quel racconto… mi è piaciuto: c’è atmosfera, verità, qualche lievissima affettazione di scrittura, ma molte cose verissime e molto vive“.

Il giudizio rese felice D’Arzo, ma effetti pratici non ne sortirono.
Passati sei mesi il manoscritto fu inviato a Einaudi:

”Un anno fa scrissi a Emilio Cecchi chiedendogli il favore di leggere qualcosa di mio … cominciai a scrivere con impegno e finalmente credetti di trovare quello che faceva per me: una donna di montagna che muore di miseria ed un prete: i luoghi erano quelli che avevo visto anni prima: i personaggi, mi accorsi, li avevo da anni con me … così nacque Io e la vecchia Zelinda“.

E’ questo il primo titolo scelto per il racconto, sarà usato per la pubblicazione in rivista e successivamente mutato per la proposta in libro.
Einaudi rispose a giro di posta:

”Abbiamo letto con vivo interesse il suo racconto, è una cosa certo notevole, ma non ha la densità di un libro: è un’ esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue“.

A questo giudizio si sommava una scheda editoriale e una nota aggiuntiva che D’Arzo per fortuna non conobbe mai. La scheda era di Natalia Ginzburg:

” Racconto certo di grande verità e impegno … però è altrettanto vero che non è niente di più che una novella lunga, con un fiato da passerotto“.

La nota di Cesare Pavese:

” Non mi interessa affatto. A morte“.

Nel luglio 1948, con l’uso di un altro dei numerosi eteronimi, Sandro Nedi, il testo fu inviato all‘Illustrazione Italiana. Il direttore Magliano approvò e la rivista pubblicò Io prete e la vecchia Zelinda.
Di stampa in volume non si parlò più fino al 1950 quando D’Arzo compì un nuovo tentativo, questa volta verso Vallecchi, proponendo per la prima volta il titolo Casa d’altri e raccontando l’iter di proposte, apprezzamenti ecc.
Vallecchi nicchiò, si fece attendere, poi rispose, 25 maggio 1950, che non capiva il titolo, l’opera era bella ma tenue, non credeva di potersi impegnare. La replica di D’Arzo fu piena di sarcasmo nei confronti dello scivoloso editore ed ebbe il pregio di dire benissimo le sue ragioni d’autore, soprattutto dando la motivazione del titolo:

Quanto al titolo Casa d’altri a me pare chiarissimo: quando si vive come la vecchia, in quel modo inumano e impossibile, il mondo non è più casa nostra: è ”casa d’altri.

D’Arzo non riuscì a vedere la conclusione degli anni di sforzi. Due mesi dopo la sua morte, il racconto fu pubblicato su Botteghe Oscure, merito di Giorgio Bassani, con il titolo definitivo Casa d’altri.
L’ edizione originale in volume uscì edita da Sansoni nel 1953.
La stessa sorte, forse perfino più maligna, toccò agli altri libri di D’Arzo. Penny Wirton e sua madre ebbe travagli impossibili con Vallecchi: il volume sarà pubblicato da Einaudi nel 1978, ventisei anni dopo la scomparsa dell’autore.
Essi pensano ad altro uscirà nel 1976 da Garzanti. Nostro Lunedì di Ignoto del XX secolo doveva essere nelle intenzioni ”il romanzo definitivo”: non è apparso mai in forma compiuta.
Il commento più acuto alla frustrazione dell’edizione lo scrisse D’Arzo stesso:

I grossi editori da noi sono in complesso una dura genia. Sono coriacei e malleabili a un tempo, e in definitiva non si sa mai cosa pensino. Loro lo sanno bene però: se lo sanno! Ma è una storia che porterebbe un po’ in là. Con noi scovarono questo sistema. Ci scrivevano divertentissime lettere: nelle prime sei righe ci facevano chiaramente capire che noi potevamo con tutta tranquillità porre la nostra candidatura fra i grandi del secolo: nelle ultime due si rammaricavano che la difficoltà del momento li costringesse a rifiutare l’offerta. Incolpavano il pubblico, eccetera. Soprattutto si preoccupavano di mostrare a nostro favore una specie di sdegno civile. Facemmo male a pigliarcene: quelle lettere erano degne di noi.

I soli lavori che ebbero pronta accoglienza in vita di Silvio D’Arzo furono i suoi studi di letteratura straniera, inglese in particolare. I saggi uscirono quasi tutti su Paragone, la rivista che Roberto Longhi e Anna Banti avevano iniziato e che aveva in Attilio Bertolucci un redattore attento e delicato verso la sensibilità del giovane scrittore di Reggio Emilia. La passione per gli scrittori anglosassoni fu certamente un territorio comune tra Silvio D’Arzo e Bertolucci.
Anche in questo caso, comunque, l’uscita in volume fu postuma. Gli studi furono raccolti dapprima in Nostro Lunedì Contea inglese.
Silvio D’Arzo è stato uno dei maggiori autori del Novecento italiano a provare la crudele contraddizione tra maestria di scrittura e impossibilità di conferma in vita. Era forse destino che, insieme all’estremo desiderio di nascondersi, egli non riuscisse a rompere diffidenza e indifferenza. Lui stesso però, ha lasciato testimonianza della vera natura della sua vocazione:

Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male. Anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa.

Questo articolo è basato sui volumi Silvio D’Arzo. Opere, Parma, MUP, 2003 e Lettere, Parma, MUP, 2004.