Da alDòmèla, Novembre 2018
Silvio D’Arzo: “Uno pseudonimo per legittima difesa”
di Massimiliano Manzotti
“Esiliati in terra e senza un cielo sul capo”
Joseph Conrad
Non ci sono vie di mezzo: Ezio Comparoni o lo si conosce profondamente o non si sa alcunché su questo grande scrittore di casa nostra, anzi di Casa d’Altri ... Nel tempo sono state organizzate molte manifestazioni, convegni e pure un premio letterario a lui dedicati. Tuttavia ancor oggi se chiedi a qualche reggiano chi è Silvio D’Arzo ti senti rispondere nei modi più fantasiosi. In tale contesto la FARSTUDIUM REGIENSE nell’ambito dei Caffè del Giovedì il 18 ottobre scorso ha organizzato un incontro dedicato a presentare e ricordare l’autore. Ma andiamo con ordine ricordando le sue principali note biografiche e letterarie. Nato nel 1920 a Reggio in via del Portone 10, Silvio D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni, è figlio di Rosalinda Comparoni, originaria di Cerreto Alpi, e di padre ignoto. L’assenza paterna è vissuta dallo scrittore come una sofferenza esistenziale ineluttabile e questa condizione crea un legame strettissimo ed esclusivo con la madre, elementi che segneranno tutta la sua produzione letteraria. La sua breve esistenza si svolgerà nel misero stanzone di via Aschieri 4, nel centro di Reggio Emilia, tra difficoltà economiche e aspirazioni letterarie. Rosalinda Comparoni, la mamma, sebbene sia una persona semplice e non particolarmente acculturata e che si barcamena con lavori saltuari per la sopravvivenza è capace di intuire le straordinarie doti del figlio che si qualifica subito come genio precoce. Grazie alla sua viva intelligenza poté superare l’esame di maturità classica a soli sedici anni: lo preparò privatamente Giuseppe Zonta, maestro di più d’una generazione di reggiani e autore di notevoli opere di critica letteraria, come L’anima dell’Ottocento e la Storia della Letteratura Italiana. Si laurea poi a ventuno all’università di Bologna con una tesi in glottologia su tre varietà del dialetto reggiano. La scelta di laurearsi con una tesi riguardante Reggio Emilia testimonia il profondo legame che il nostro autore ha sempre avuto con la sua città natale, evidente non solo nei riferimenti paesaggistici, nelle usanze e nei proverbi della tradizione reggiana che compaiono in molti suoi racconti, ma anche nella scelta dello pseudonimo definitivo Silvio D’Arzo, dopo ben quattordici nomi precedenti ed è utilizzato per la prima volta nel 1942 per l’unica sua opera pubblicata in vita: All’insegna del Buon Corsiero. Ne spiega l’origine l’incontro e il dialogo tra il nostro scrittore e l’Avv. Lando Landini sotto i vecchi portici di San Rocco.
“Ci si scambia qualche opinione … mi fa una confidenza … se t’incuriosisce conoscere, una curiosità meramente glottologica s’intende, la ragione della scelta e la derivazione dello pseudonimo che qualche volta uso per i miei scritti … C’è da sorridere e da non crederlo, se valesse la pena mentire su una quisquilia del genere.
Non è un nome di fantasia, come qualcuno può ritenere, né si riferisce a qualche personaggio di leggenda. Creandolo, ho inteso richiamare le mie origini. D’Arzo vuol dire da Reggio“
arzo è la sostantivazione geografica e in lingua di arzan che, in dialetto, significa reggiano. Quindi Silvio da Reggio”.
Il profondo vincolo che lo lega alla sua città, a tratti, però, si muta in profondo desiderio di allargare gli orizzonti; diviene così un infaticabile lettore dei classici della letteratura mondiale (Joseph Conrad, Stevenson, Guy de Maupassant, De Foe, Kipling, Hemingway e altri), in un momento storico in cui in Italia non era per nulla facile reperire tali opere, e sulle quali poi egli scrisse una serie di apprezzatissimi saggi.
Si allontana da Reggio quando deve frequentare la scuola Ufficiali per il servizio di leva che lo porta da Como a Barletta dove l’8 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi, ma riesce fortunosamente a fuggire; oppure quando soggiorna a Roma per sostenere il concorso a cattedre per insegnante di Lettere, e la breve permanenza sul lago di Garda quando ormai è in fin di vita.
La sua attività principale è l’insegnamento; il suo campo di interesse è la letteratura, in cui i classici vengono dialetticamente messi a confronto con i moderni, soprattutto inglesi e americani; ma nel tempo che resta si dedica a quella che è la sua vera passione: la scrittura, e dice:
Niente al mondo è più bello che scrivere anche male anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa.
Anche se D’Arzo muore giovanissimo, nel 1952, all’età di soli trentadue anni, la sua produzione appare abbastanza ampia ed eterogenea. Si va dai saggi critici, che si presentano come essays di taglio anglosassone, in cui emergono, per l’appunto, l’amore e la conoscenza profonda per la letteratura angloamericana, ora raccolti sotto il titolo, che lo scrittore stesso aveva ideato, di Contea inglese; all’attività poetica; alla narrativa per ragazzi, tra cui ricordiamo Penny Wirton e sua madre, ma anche Il pinguino senza frac e Tobby in prigione; ai racconti brevi, tra cui spiccano Due vecchi e Alla giornata; e infine i romanzi di cui menzioniamo All’insegna del Buon Corsiero e, soprattutto, Casa d’altri.
La critica unanimemente riconosce quest’ultimo come il suo capolavoro e Montale ebbe a definirlo: “un racconto perfetto”, in cui i temi esistenziali della solitudine, dell’estraneità, della precarietà del vivere così presenti in tutta la sua poetica, toccano il vertice e vengono universalizzati in una sintesi felice e originale di stile e di immagini.
I Dodici
di Massimiliano Manzotti
Un capitolo a parte della breve vita di Silvio D’Arzo merita di essere ricordato perché di fondamentale importanza nella sua storia umana e affettiva. Si tratta della abituale fraterna frequentazione di dodici amici che accomunati dagli interessi per la cultura e la letteratura leggevano i classici e soprattutto le ultime pubblicazioni della narrativa straniera. Ezio Comparoni era il più giovane, ma era quello che li avrebbe influenzati, già determinato a farsi riconoscere per la sua sensibilità di scrittore. Il gruppo dei dodici era costituito, oltre a D’Arzo, da Ricciardo Valestri, Walter Bartoli, Romeo Zucchi, Antonio Bevilacqua, Canzio Dasioli, Ermanno Guardasoni, Ugo Galloni, Werther Cadoppi, Libero Davoli, Gino Cadoppi e Augusto Mosti. Dodici amici che trascorrevano serate intere a parlare di cose più profonde rispetto alla semplice vita mondana, oppure, se si parlava della “vita di ogni giorno”, lo si faceva in modo ironico e scherzoso, mentre si cercavano “i presagi del futuro”. In questo contesto decisero una sera particolare, il 31 dicembre e la guerra ormai alle porte, di stringere un legame che fosse un patto di amicizia e un impegno di fiducia nei confronti degli amici. Nella sala del Caffè della Stazione i dodici stipularono l’impegno di rivedersi dopo dieci anni, nello stesso posto e nello stesso giorno, qualsiasi cosa fosse accaduta. Una sfida al tempo e al destino che avrebbe potuto strappare a qualcuno di loro la vita anzitempo. Scrissero su una pergamena tale giuramento in latino perché il patto fosse più solenne e al tempo stesso per rendere alcuni termini assai più densi di significato che la lingua italiana o inglese avrebbero potuto sminuire. Venne diviso in dodici parti e ciascun frammento fu dato a un membro perché lo conservasse fino al successivo incontro. I giovani si ritrovarono effettivamente dopo i dieci anni stabiliti, erano diventati avvocati, medici, insegnanti, professionisti e poterono confrontarsi sui temi a loro cari. In particolare confermarono di “aver sempre stimato l’amicizia come il sentimento più virile e dignitoso”. Il breve racconto S’era alzata un po’ di nebbia che pubblichiamo integralmente è dedicato questo avvenimento.