Silvio D'Amico, Comoedia, anno X, 20 febbraio 1928
Discorso dell’attor comico
Ecco, i dieci lunghi anni sono passati! E, in questo frattempo, ho studiato e consultato Tagore, l’orario delle ferrovie, la tavola pitagorica e l’annuario dei telefoni. Senza voler parlare delle leggi delle XII tavole e del calendario gregoriano, mi permetto di dire che in fatto di opere di teatro, difficilmente se ne potrà incontrare una che a prima vista non appaia noiosa. La materia di recitazione è nei libri di teatro quasi sempre immobile, se si eccettui qualcuna delle opere scritte dagli scrittori-attori come Shakespeare, Molière e Goldoni; e cioè quelle commedie o drammi che, alla lettura, sembrano innocentemente melensi, oziosamente spiritosi di uno spirito piuttosto vecchiotto. Si discute molto di teatro teatrale e di teatro non teatrale. A tale proposito i critici, per fare impressione, ci accoppano di nomi: Gwimplane, Gogol, Bernard Shaw, Pico della Mirandola, Landru, Girardengo, Marinetti e la Mandragola di Niccolò Machiavelli. Lasciamoli dire. La verità è che la maggior parte del teatro scritto, dalla Commedia dell’Arte in poi, è noioso e antiteatrale. Il fallimento dei teatri sperimentali non è colpa della incomprensione del pubblico; è originato soltanto dal fatto che, in questi tempietti, domina il piú stomachevole e inutile rispetto dell’opera d’arte.
Nozze... a distanza.
Lo spazio vuoto.
Per colmare queste fenditure degli spazi vuoti nel pubblico, non basta l'opera recitata così com'è, come non bastano le vecchie risorse di trucchi teatrali predisposti e tradizionali: occorre avere un senso esatto di quello che domina il pubblico in quel momento e orientarlo improvvisamente, a tradimento, verso qualche idea nuova che lo colpisca all'improvviso e lo domini per qualche minuto: un’allusione a fatti del giorno che formano il fondo dei pensieri d'ognuno, ma che nessuno s'aspetta di sentirsi ricordare a teatro; una falsa intonazione, un fischietto, un versaccio, una scemenza, una malignità. E, in caso disperato, una cattiveria. Il pericolo maggiore è che il pubblico preveda tutto mentre si svolge la commedia, e che non si aspetti nulla di imprevisto e sia dominato da quel torpore di cattivo augurio che gli attori conoscono molto bene. Credo che i vecchi comici, che interpretavano commedie quasi sempre dello stesso soggetto, avessero appunto il senso dello spazio vuoto. Altrimenti non si potrebbe spiegare la sopravvivenza di molti mezzi teatrali che hanno tutti lo stesso carattere, dalla recitazione dei comici dell'Arte a quella degli attori più colti. Osservando bene, si trova che hanno più resistenza di molte opere i mezzi buffoneschi più sfruttati: essi sopravvivono da Aristofane a noi, con una perenne attualità che molte opere teatrali non hanno. Lo spirito dell’attor comico non sarebbe mai mutato, come si può vedere in quello che nelle commedie scritte sopravvive dei mezzi della recitazione; non sarebbe mai mutato lo spirito del pubblico, che si è sempre lasciato accalappiare da tali mezzi; i quali, a leggerli a tavolino, sanno di scemenza; ma riportati alla ribalta hanno una meravigliosa freschezza e una vita segreta, che non si riesce a spiegare altrimenti che come un fenomeno della creazione più personale dell’attore.
Tempismo.
Slittamenti
Un caso particolarissimo e spesso interessante di quelle improvvisazioni con cui si riempie lo spazio vuoto è quello che io chiamo slittamento (l'uscire dalle dimensioni della finzione scenica passando per un momento in quelle della realtà). Per esempio, si può parlare col suggeritore, ammonire un rumoroso ritardatario: insomma trarre profitto di tutto, dal rumore del seggiolino della poltrona lasciato cadere sbadatamente, all'immancabile pianto del bambino nelle rappresentazioni diurne. Naturalmente bisogna essere tempisti, e cogliere il momento sia di uscire, sia di rientrare nello spazio scenico. Lavorando su questo terreno per molti anni, mi sono accorto che non esiste commedia impossibile da recitare. Molti critici dicono, ed io lo riconosco senza difficoltà, che il mio repertorio è pieno di cose idiote che non sarebbero degne di stare accanto alle cose intelligenti che vi si trovano. Per me è lo stesso. Io considero la commedia come un buon pretesto e null’altro. Ho recitato nella mia vita delle cose stupidissime che avevano soltanto il torto di non essere a quel punto di imbecillità che desideravo e che, alla fine, per ottenerlo, dovetti inventare da me.
"Più stupidi di cosi si muore"
"Perché sì"
Basterà che ricordi come divenne grido trionfale e addirittura una formula il primo verso dei Salamini: “Ho comprato i salamini e me ne vanto” e tutto il formulario delle risposte che risolvevano per me molti problemi: “Perché la terra gira? Perché sì. - Perché gli uomini sono fatti di carne e d'ossa anziché di acciaio? Perché sì”›. E via dicendo con domande quasi angosciose miste ad altre soltanto pettegole, sino alla conclusione illogica ma riassuntiva: “Ho comprato i salamini e me ne vanto”. Lo stesso sistema ho adottato nelle commedie e nei drammi che recito.
Autobiografia.
L’attore, in momenti come questi, non fa più che dell'autobiografia. Io do all’autobiografia in teatro una importanza pari a quella che essa ha nelle arti. Intendo una autobiografia superiore, un modo di insinuare nell'opera i propri sentimenti e punti di vista, la propria ironia o il proprio patetico, come espressioni caratteristiche di uno stato d’animo individuale in cui tutti si riconoscono. Ho fatto, nel primi anni della mia vita, di tutto (vedi ciò che ho scritto su Piazza Guglielmo Pepe di Roma) nei teatri da quattro soldi i primi posti e due soldi i secondi: dal camaleonte all'istrice, dal pappagallo sapiente alla scimmia imbalsamata; or piangendo lacrime di coccodrillo, ora ridendo il riso sesquipedale dell'ippopotamo. Fu una vita selvaggia, allegra e guitta, e un’educazione a tutti i trucchi e a tutti i funambolismi, davanti al pubblico, che magnava le ƒusaje (i lupini) e poi tirava le cocce (le bucce) sur parcoscenico al lume de certe lampene (lampade), che er fumo spanneva dapertutto un odore da bottega de friggitore. Di là sono salito ai caffè-concerto di second’ordine con la consumazione obbligatoria, dalle ribalte di legno ai palcoscenici in muratura, dallo spettacolo da quattro soldi, con la grancassa e la parata all'entrata, al Varietà con lire una d'ingresso. Ho lasciato la sirena del mare, le foche sapienti e la donna barbuta (che era un uomo travestito) per le attrazioni ginnastiche e le canzonettiste deliziosamente ignoranti. Ho imparato in questa mia esperienza a sondare la stupidaggine, ad anatomizzare la puerilità, a vivisezionare il grottesco e l’imbecillità del nostro prossimo, per arricchire il museo della cretineria. Il sentimentalismo odioso, la prosopopea, il tragicismo ad ogni costo, mi hanno attratto irresistibilmente; e la boria presuntuosa di qualche attore del teatro così detto serio, mi ha fornito molto materiale umoristico per il mio teatro. Alla fine, non profittavo più dello spazio vuoto del mio pubblico, ma lo creavo io stesso; e non per colmarlo, ma per tenere l’uditorio in quello stato di esaltazione in cui qualsiasi cosa si dica finisce per avere un senso o per non averne nessuno: più cretini di così si muore. Il mio ideale era ormai la creazione dell’imbecille di statura ciclopica. Devo dichiarare che non ho mai preso l'aria di estetizzante o di decadente, non mi sono mai entusiasmato alle metropoli, e da romano de Roma preferisco a tutti gli asfalti una strada serciata o un vicolo co li panni stesi che interrompano l'uniformità del panorama. Non mi sono mai chiamato con tre nomi, e non per modestia. Mi sono tenuto sempre lontano dalla modestia per paura di diventare... orgoglioso di essere modesto.
L'attor comico
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