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G. Antonio Borgese, Nazionalismo, in La vita e il libro, pp. 305-313, Torino, 1911

Il Conte di Cavour
Il Conte di Cavour
L'immagine del conte di Cavour torna innanzi alla memoria e alla fantasia degli italiani. Così dice almeno una frase tipica d'ogni commemorazione. Ma, non appena l'hanno pronunziata, quei pochi che, oltre la parola, cercano il senso, s'arrestano dubitosi. Donde traggono gli italiani l'immagine di Cavour? Cerchiamo dapprima l'immagine fisica. Con una qualche fatica riusciamo un po' tutti ad evocare l'uomo tarchiato e alquanto pingue, povero di grazia e saturo di forza, che scantona con un problema da risolvere entro ventiquattr'ore attraverso i rettilinei di Torino ed alza di tanto in tanto in un attimo di perplessità la larga faccia carnosa circondata da una barba contadinesca e figge nell'avvenire le sue pupille aguzze che sembrano convergere tutto il loro fuoco sulla convessità degli occhiali a stanga. Così doveva essere a un dipresso; cosi ce l'hanno anche descritto. Ma le incisioni del tempo sono troppo pallide e convenzionali, ed a Cavour mancò un pittore volgarizzatore come l'ebbe Bismarck in Lenbach. La miserabile statuaria della terza Italia che pure ci ha dato qualche tollerabile Garibaldi e un paio di Vittorii Emanueli abbastanza espressivi nella loro aggressiva laidezza tra mefistofelica e moschettiera, quando s'è provata con Cavour ha fatto col marmo e col bronzo quel che fanno con la cera gli artigiani di villaggio, modellatori d'idoli per ex-voto.
Otto von Bismarck ritratto da Franz von Lenbach nel 1884.
 Otto von Bismarck ritratto da Franz von Lenbach nel 1884.
E, se ci metteremo a cercare l'immagine spirituale, la nostra ricerca non raggiungerà risultati di gran lunga più soddisfacenti. Le feste commemorative, che celebra in questi giorni in onore del più grande fra i suoi uomini il Piemonte, sono una bellissima cosa; e, se c'è quasi sempre molta retorica negli elogi funebri, nei riti solenni, nelle fanfare oratorie e negli sbandieramenti centenarii, c'è poi sempre un po' di retorica nel dir male di queste consuetudini, ove la scoria avvolge ma non contamina il puro sentimento di un popolo che torna con orgogliosa pietà alle tombe dei suoi padri. Ma più bella ancora sarebbe questa commemorazione, se la cerimonia ufficiale fosse accompagnata da un avvenimento librario: dall'apparizione di alcuni libri brevi, raccolti, sapientemente costrutti, ove la figura e l'opera di Cavour rivivessero intere davanti alla meditazione del suo popolo. Grandi libri sulla storia del risorgimento non abbiamo a iosa: ma si leggono volentieri il Vittorio Emanuele di Massari e il Garibaldi di Guerzoni.
Non sono cose degne di un Michelet o di un Plutarco; eppure siamo ridotti a desiderare un Massari o un Guerzoni per Cavour. La vita e il pensiero del meraviglioso edificatore giacciono come materiale grezzo nei preziosi e ponderosi volumi di lettere e documenti raccolti dal Ghiaia, e né uno storico, né un artista è ancor sorto, nutrito di tal midolla leonina da battere col suo scalpello quel masso informe ed enorme per trarne alla luce il monumento degno di lui che ci generò e di noi suoi figli che vorremmo adorarlo come i Romani adorarono Enea. Quanto persiste di Cavour nella coscienza media degli italiani? qualche motto politico come quello sui rapporti fra Chiesa e Stato, qualche raro aneddoto di omeriche dimensioni, come il suo diverbio col re dopo l'armistizio.
Il pensiero torna involontariamente a Bismarck, che insieme a Lutero, a Schiller, a Goethe, è il nume nazionale più popolare fra i tedeschi; a Bismarck, le cui lettere e i cui discorsi fanno testo lassù per gli uomini pratici e gli uomini di pensiero, e sono consultati come gli oracoli sibillini per trarne consiglio e giovamento alla soluzione dei problemi presenti; a Bismarck, la cui fronte s'illumina ogni anno di nuovi raggi per altri ricordi, per altri documenti che integrano il significato del protagonista o delineano ancora un particolare nello sfondo dell'epopea.
Una vaga coscienza di ciò che fosse Cavour tende a farsi strada nell'animo nostro, e, sebbene il nostro poeta nazionale, Carducci, abbia cantato per quasi cinquant'anni il risorgimento d'Italia, inneggiando con voce talvolta sublime ai re, ai condottieri, ai poeti, ma non mai sentendo la necessità di onorare con una sola allusione il ministro, noi siamo ormai tutti d'accordo, tolte l'anime settarie e le menti cieche, nel riconoscere che a Cavour spetta il primo posto, come al fabbro che seppe fondere nella stessa caldaia la cavalleresca ambizione dinastica del re, l'avventurosa santità anarchica di Garibaldi, l'ideale trascendente di Mazzini, le ataviche sentimentalità di Napoleone III, e dal contatto di ingredienti cosi repugnanti e discordi fu capace di generare non già una miscela esplosiva, come dovremmo supporre a priori, ma una miracolosa volontà operante.
Autoritratto di Johann Reinhard von Marées (sx) con Franz von Lenbach (dx).
Autoritratto di Johann Reinhard von Marées (sx) con Franz von Lenbach (dx).
Si ripete una verità mille volte ripetuta, quando si afferma che il compito di Bismarck fu infinitamente più agevole del compito di Cavour. Quante cose ebbe Bismarck dietro di sé e con sé che Cavour non ebbe nemmen tempo di sognare!: una lunga tradizione, una dinastia incrollabile, una burocrazia senza pari, un esercito ch'era quello di Federico II, una grande industria in formazione, un partito storico ed uno Stato, la Prussia, che valeva quasi dieci volte il Piemonte.
Bismarck non salì al potere con la Nemesi di Novara alle calcagna. Bismarck lavorò con un nugolo di forze che gli erano naturalmente e storicamente alleate; Cavour lavorò con le forze avverse: con la Carboneria e con i residui della Santa Alleanza, con l'indisciplina italiana e col clericalismo francese, con l'Europa vogliosa di quiete e tutt'altro che cupida di mutazioni e con l'impaziente democrazia nazionale che credeva di potere sterminare i tiranni col pugnale di Bruto e costituire l'unità coi trecento delle Termopili. Se Cavour potesse mai divenire personaggio da leggenda, non gli si attribuirebbe né una cappa magica, né un corno d'Orlando, né un cavallo volante; gli si metterebbe in mano non so quale misteriosa bacchetta, in virtù della quale, apparendo sui campi ove si decidono i destini delle nazioni, gli avversarii, poco innanzi in armi e in furore, esitano, pencolano, trepidano, finché, attratti da una forza vorticosa, passano con le loro bandiere ai servigi di quello che pochi istanti prima volevano volgere in fuga.
Nell'incessante e tempestoso fluttuare delle innumerevoli forze, che, pur avendo una sola méta: l'Italia nuova, la perseguivano con tendenze contraddittorie ed ostili; fra i repubblicani e i monarchici, tra i federalisti e gli unitarii, tra i giacobini e i moderati, tra i murattisti e i garibaldini, tra i cospiratori e i diplomatici, tra la Francia e la Prussia, Cavour è collocato come un'immobile roccia magnetica la cui invisibile forza si estende tutt'intorno, facendo smarrire a tutte l'altre forze autonome la loro direzione.
Intorno a lui si forma rapidamente un blocco d'attrazione cui nessuno potrà più sfuggire. Egli è il nucleo interiore dell'Italia che nasce e cresce. Se altri, nel Risorgimento, venne fuori al proscenio della storia con una veste più splendida o con un gesto più appariscente, se altri combatté con una sciabola nel pugno e con una canzone sulle labbra fiorenti, se Mazzini fu l'accigliato e nubiloso profeta, se Garibaldi fu il bel cavalier San Giorgio, se Vittorio Emanuele fu il re, in un lirico e canoro significato che questa parola sembra aver perduto, con la morte di lui, in Italia e in Europa, per sempre, a Cavour spettò il compito più aspro, più umile, più terribile, più grandioso: il compito del cuore, che batte anche quando le membra sono sature del veleno del lavoro e il cervello esausto s'abbandona al grave delirio del sonno; il compito d"una lucida, eguale, instancabile volontà ordinatrice, la quale, straziando sé medesima, imprime il moto a tutti gli organi, che, ignari l'uno dell'altro, le obbediscono.
Camillo Benso di Cavour ritratto da Antonio Ciseri nel 1859.
Camillo Benso di Cavour ritratto da Antonio Ciseri nel 1859.
Chi cercasse la parola che determina Cavour come un blasone determina una genealogia di guerrieri, non si fermerebbe alla parola sogno e nemmeno a pensiero e nemmeno a sentimento e forse nemmeno ad unione. Cavour è tutto quanto volontà, la volontà di nascere della nuova Italia. Vi sono deliberazioni della sua vita che il sentimento, il sogno, il genio non bastano a spiegare. Pensiamo, per esempio, al lacerante eroismo di chi cede Nizza e la Savoia, le terre, per una ragione o per l'altra, più care del reame sardo, acciocché l'Italia sorga: riconosceremo nell'atto di colui che amputa e, quasi dirò, fa sanguinare il suo sogno, perché il suo sogno, anche se monco, diventi vita, il simbolo di tale energia volitiva che ogni altra anima umana si arretrerebbe spaventata. Egli osò contro sé stesso, perché nella sua volontà si era trasfusa tutta quanta la volontà dell'Italia rinascente. Pochi mesi dopo la proclamazione di Roma capitale, fatta virtualmente la nazione, Cavour, appena cinquantenne, morì. S'era talmente sommerso nella cosa da fare, nel fine da raggiungere, che, raggiunto il fine, non seppe più vivere. Liberato improvvisamente dall'inaudita tensione, l'arco del suo volere si ruppe. Uno degli uomini più grandi che la storia conosca periva come periscono quelle piante e quegli animali, che, svolgendosi concordi col più elementare istinto della natura, si spengono non appena abbiano generato la nuova vita cui la loro vita tendeva. Chi immaginerebbe Cavour nella sterile e iraconda vecchiezza di Bismarck?
Esser tedesco, disse un giorno Bismarck, significa fare il compito per amore del proprio compito; significa, in altri termini, avere una volontà pura.
Eppure Bismarck, che fu uomo di stupendo equililibrio mentale, non avrebbe avuto l'animo di precorrere alle stolidezze dei pangermanisti e di sostenere che Cavour, esemplare non paragonabile a nessuno, e nemmeno a lui, di volontà pura, disinteressata, interamente sommersa nel fine da raggiungere, fosse schietta progenie d'invasori germanici. Chi volesse, anche a proposito di Cavour, ripetere quelle stolidezze, non mancherebbe di volgere a profitto della sua tesi la scarsa popolarità di cui il creatore d'Italia gode in Italia. Né libri, né poemi, né ritratti, né statue, né vigile tradizione che si volga alla sua ombra gigantesca per ispirazione e consiglio. Come mai? Bisogna proprio concludere che la struttura morale di quest'uomo era in diretta opposizione col carattere degli italiani? Bisogna ancora una volta ripetere la solita storiella, secondo cui questo popolo sensuale adora il gesto largo, lo sguardo rutilante, la parola reboante, il periodo ventoso, l'enfasi che strombazza per i pubblici mercati, e che la virtù povera di gioielli retorici, nuda di truccature tribunizie non trova grazia presso la sua fantasia? Anche a voler mitigare il giudizio, bisognerà dire che una certa rusticità e durezza di atteggiamenti, un non so che di tagliato con fascia, una certa incompostezza di cultura tecnicamente saldissima ma non sfaccettata né polita siano bastate a rendere Cavour quasi straniero fra gli italiani, buongustai, adoratori delle intime e delle esteriori leggiadrie, nutriti con la duplice ambrosia della grecità e del Rinascimento? In fatto di buon gusto, i tedeschi si contenterebbero di assai meno. E, tuttavia, quanta parte della fortuna di Bismarck presso i posteri non è dovuta ai suoi continui rapporti con la poesia e con la filosofia, alla sua asciutta e complessa snellezza di prosatore, alla sua finezza letteraria che talvolta si compiace perfino di caustiche sofisticherie!
Nell'ordine, da sopra: Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi in una incisione presente in Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX, Vol. III, Milano, 1860.
Nell'ordine, da sopra: Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi in una incisione presente in Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX, Vol. III, Milano, 1860.
Ma questa esercitazione del paragonare i grandi uomini con l'indole dei popoli donde emersero finisce quasi sempre nel vaniloquio, non essendo per solito le caratteristiche dei popoli altro che idealizzazioni e caricature disegnate dai vincitori a loro vantaggio ed a scapito dei vinti. Gli uomini interi, gli individui di tempra eroica appartengono ad una medesima stirpe divina, siano essi i greci di Plutarco o i romani di Machiavelli o gli inglesi di Macaulay o i francesi di Michelet. E i popoli decaduti non tendono ad altro che alla restaurazione di questa semidivina dinastia.
Chi, come Cavour, se Cavour avesse perso il tempo a parlar di letteratura, avrebbe potuto vantarsi di realizzare l'uomo di Machiavelli, purificato dalla sua ferina astuzia, e l'uomo di Alfieri, liberato dalla sua nevrosi romantica? l'uomo di Dante, insomma? E sostanzialmente italiano e romano quest'ideale d'umanità matura intellettualmente, risoluta e tranquilla nelle decisioni, in perenne contatto con la realtà quotidiana della vita, ma non mai obliosa di ciò che trascende la realtà e la vita, pietosa e sobria, nemica dell'ozio e delle chimere, senza debolezza e senz'ira, senza incubi vili e senza utopie folli: di un'umanità né puerile, né senile, né donnesca : di un'umanità di uomini quadrati ed armati, con uno strumento d'azione stretto nel pugno ed un unico pensiero fitto in capo. Quanti fratelli di Cavour poteva annoverare il mondo nelle epoche più recenti? Guglielmo il Taciturno, Giorgio Washington e forse Cromwell e forse Federico il Grande. Noi di uomini alla Cavour non ne avevamo da secoli: i suoi esemplari risalivano a Roma repubblicana, alla Chiesa medievale, al Comune primitivo cui già Dante pensava come a bellezza e a grandezza tramontate.
Perciò la sua apparizione abbagliò gli italiani contemporanei ed abbaglia noi posteri. È infinitamente maggiore la distanza morale che corre tra un italiano medio e Cavour di quella che corresse fra un tedesco medio del secolo XIX e il suo Bismarck.
Ammiriamo Cavour, ma non lo sentiamo nostro; rendiamo omaggio alla sua memoria, ma non osiamo viverle accanto. Sappiamo di non somigliargli nemmeno per quel tanto che i piccoli possono avere in comune coi grandi. Fu già tempo che in Italia parve non fosse possibile apprezzare la grandezza di Garibaldi e di Mazzini senza vituperare Cavour. Ora quel tempo è passato e nell'estimazione siamo concordi.
Ma il centenario non è che un principio. Verrà giorno in cui Cavour sarà il più popolare fra gli uomini del Risorgimento: il giorno in cui avremo imparato a valutare quelle umilissime cose che sono la disciplina, il silenzio, il compito quotidiano, la responsabilità precisa, il coraggio senz'urlo, il ragionamento senza fronzoli, l'ideale senza evanescenze, la realtà senza materialismo. Sarà il giorno, per dirlo in poche parole, in cui avremo distrutto in noi quel poco o quel molto che abbiamo di sud-americano e di balcanico e avremo risuscitato dal fondo tutto ciò che vogliamo e dobbiamo avere di romano.
8 agosto 1910.

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