G. Antonio Borgese, Nazionalismo, in La vita e il libro, pp. 305-313, Torino, 1911
Non sono cose degne di un Michelet o di un Plutarco; eppure siamo ridotti a desiderare un Massari o un Guerzoni per Cavour. La vita e il pensiero del meraviglioso edificatore giacciono come materiale grezzo nei preziosi e ponderosi volumi di lettere e documenti raccolti dal Ghiaia, e né uno storico, né un artista è ancor sorto, nutrito di tal midolla leonina da battere col suo scalpello quel masso informe ed enorme per trarne alla luce il monumento degno di lui che ci generò e di noi suoi figli che vorremmo adorarlo come i Romani adorarono Enea. Quanto persiste di Cavour nella coscienza media degli italiani? qualche motto politico come quello sui rapporti fra Chiesa e Stato, qualche raro aneddoto di omeriche dimensioni, come il suo diverbio col re dopo l'armistizio.
Il pensiero torna involontariamente a Bismarck, che insieme a Lutero, a Schiller, a Goethe, è il nume nazionale più popolare fra i tedeschi; a Bismarck, le cui lettere e i cui discorsi fanno testo lassù per gli uomini pratici e gli uomini di pensiero, e sono consultati come gli oracoli sibillini per trarne consiglio e giovamento alla soluzione dei problemi presenti; a Bismarck, la cui fronte s'illumina ogni anno di nuovi raggi per altri ricordi, per altri documenti che integrano il significato del protagonista o delineano ancora un particolare nello sfondo dell'epopea.
Una vaga coscienza di ciò che fosse Cavour tende a farsi strada nell'animo nostro, e, sebbene il nostro poeta nazionale, Carducci, abbia cantato per quasi cinquant'anni il risorgimento d'Italia, inneggiando con voce talvolta sublime ai re, ai condottieri, ai poeti, ma non mai sentendo la necessità di onorare con una sola allusione il ministro, noi siamo ormai tutti d'accordo, tolte l'anime settarie e le menti cieche, nel riconoscere che a Cavour spetta il primo posto, come al fabbro che seppe fondere nella stessa caldaia la cavalleresca ambizione dinastica del re, l'avventurosa santità anarchica di Garibaldi, l'ideale trascendente di Mazzini, le ataviche sentimentalità di Napoleone III, e dal contatto di ingredienti cosi repugnanti e discordi fu capace di generare non già una miscela esplosiva, come dovremmo supporre a priori, ma una miracolosa volontà operante.
Bismarck non salì al potere con la Nemesi di Novara alle calcagna. Bismarck lavorò con un nugolo di forze che gli erano naturalmente e storicamente alleate; Cavour lavorò con le forze avverse: con la Carboneria e con i residui della Santa Alleanza, con l'indisciplina italiana e col clericalismo francese, con l'Europa vogliosa di quiete e tutt'altro che cupida di mutazioni e con l'impaziente democrazia nazionale che credeva di potere sterminare i tiranni col pugnale di Bruto e costituire l'unità coi trecento delle Termopili. Se Cavour potesse mai divenire personaggio da leggenda, non gli si attribuirebbe né una cappa magica, né un corno d'Orlando, né un cavallo volante; gli si metterebbe in mano non so quale misteriosa bacchetta, in virtù della quale, apparendo sui campi ove si decidono i destini delle nazioni, gli avversarii, poco innanzi in armi e in furore, esitano, pencolano, trepidano, finché, attratti da una forza vorticosa, passano con le loro bandiere ai servigi di quello che pochi istanti prima volevano volgere in fuga.
Nell'incessante e tempestoso fluttuare delle innumerevoli forze, che, pur avendo una sola méta: l'Italia nuova, la perseguivano con tendenze contraddittorie ed ostili; fra i repubblicani e i monarchici, tra i federalisti e gli unitarii, tra i giacobini e i moderati, tra i murattisti e i garibaldini, tra i cospiratori e i diplomatici, tra la Francia e la Prussia, Cavour è collocato come un'immobile roccia magnetica la cui invisibile forza si estende tutt'intorno, facendo smarrire a tutte l'altre forze autonome la loro direzione.
Intorno a lui si forma rapidamente un blocco d'attrazione cui nessuno potrà più sfuggire. Egli è il nucleo interiore dell'Italia che nasce e cresce. Se altri, nel Risorgimento, venne fuori al proscenio della storia con una veste più splendida o con un gesto più appariscente, se altri combatté con una sciabola nel pugno e con una canzone sulle labbra fiorenti, se Mazzini fu l'accigliato e nubiloso profeta, se Garibaldi fu il bel cavalier San Giorgio, se Vittorio Emanuele fu il re, in un lirico e canoro significato che questa parola sembra aver perduto, con la morte di lui, in Italia e in Europa, per sempre, a Cavour spettò il compito più aspro, più umile, più terribile, più grandioso: il compito del cuore, che batte anche quando le membra sono sature del veleno del lavoro e il cervello esausto s'abbandona al grave delirio del sonno; il compito d"una lucida, eguale, instancabile volontà ordinatrice, la quale, straziando sé medesima, imprime il moto a tutti gli organi, che, ignari l'uno dell'altro, le obbediscono.
Esser tedesco, disse un giorno Bismarck, significa fare il compito per amore del proprio compito; significa, in altri termini, avere una volontà pura.
Eppure Bismarck, che fu uomo di stupendo equililibrio mentale, non avrebbe avuto l'animo di precorrere alle stolidezze dei pangermanisti e di sostenere che Cavour, esemplare non paragonabile a nessuno, e nemmeno a lui, di volontà pura, disinteressata, interamente sommersa nel fine da raggiungere, fosse schietta progenie d'invasori germanici. Chi volesse, anche a proposito di Cavour, ripetere quelle stolidezze, non mancherebbe di volgere a profitto della sua tesi la scarsa popolarità di cui il creatore d'Italia gode in Italia. Né libri, né poemi, né ritratti, né statue, né vigile tradizione che si volga alla sua ombra gigantesca per ispirazione e consiglio. Come mai? Bisogna proprio concludere che la struttura morale di quest'uomo era in diretta opposizione col carattere degli italiani? Bisogna ancora una volta ripetere la solita storiella, secondo cui questo popolo sensuale adora il gesto largo, lo sguardo rutilante, la parola reboante, il periodo ventoso, l'enfasi che strombazza per i pubblici mercati, e che la virtù povera di gioielli retorici, nuda di truccature tribunizie non trova grazia presso la sua fantasia? Anche a voler mitigare il giudizio, bisognerà dire che una certa rusticità e durezza di atteggiamenti, un non so che di tagliato con fascia, una certa incompostezza di cultura tecnicamente saldissima ma non sfaccettata né polita siano bastate a rendere Cavour quasi straniero fra gli italiani, buongustai, adoratori delle intime e delle esteriori leggiadrie, nutriti con la duplice ambrosia della grecità e del Rinascimento? In fatto di buon gusto, i tedeschi si contenterebbero di assai meno. E, tuttavia, quanta parte della fortuna di Bismarck presso i posteri non è dovuta ai suoi continui rapporti con la poesia e con la filosofia, alla sua asciutta e complessa snellezza di prosatore, alla sua finezza letteraria che talvolta si compiace perfino di caustiche sofisticherie!
Chi, come Cavour, se Cavour avesse perso il tempo a parlar di letteratura, avrebbe potuto vantarsi di realizzare l'uomo di Machiavelli, purificato dalla sua ferina astuzia, e l'uomo di Alfieri, liberato dalla sua nevrosi romantica? l'uomo di Dante, insomma? E sostanzialmente italiano e romano quest'ideale d'umanità matura intellettualmente, risoluta e tranquilla nelle decisioni, in perenne contatto con la realtà quotidiana della vita, ma non mai obliosa di ciò che trascende la realtà e la vita, pietosa e sobria, nemica dell'ozio e delle chimere, senza debolezza e senz'ira, senza incubi vili e senza utopie folli: di un'umanità né puerile, né senile, né donnesca : di un'umanità di uomini quadrati ed armati, con uno strumento d'azione stretto nel pugno ed un unico pensiero fitto in capo. Quanti fratelli di Cavour poteva annoverare il mondo nelle epoche più recenti? Guglielmo il Taciturno, Giorgio Washington e forse Cromwell e forse Federico il Grande. Noi di uomini alla Cavour non ne avevamo da secoli: i suoi esemplari risalivano a Roma repubblicana, alla Chiesa medievale, al Comune primitivo cui già Dante pensava come a bellezza e a grandezza tramontate.
Perciò la sua apparizione abbagliò gli italiani contemporanei ed abbaglia noi posteri. È infinitamente maggiore la distanza morale che corre tra un italiano medio e Cavour di quella che corresse fra un tedesco medio del secolo XIX e il suo Bismarck.
Ammiriamo Cavour, ma non lo sentiamo nostro; rendiamo omaggio alla sua memoria, ma non osiamo viverle accanto. Sappiamo di non somigliargli nemmeno per quel tanto che i piccoli possono avere in comune coi grandi. Fu già tempo che in Italia parve non fosse possibile apprezzare la grandezza di Garibaldi e di Mazzini senza vituperare Cavour. Ora quel tempo è passato e nell'estimazione siamo concordi.
Ma il centenario non è che un principio. Verrà giorno in cui Cavour sarà il più popolare fra gli uomini del Risorgimento: il giorno in cui avremo imparato a valutare quelle umilissime cose che sono la disciplina, il silenzio, il compito quotidiano, la responsabilità precisa, il coraggio senz'urlo, il ragionamento senza fronzoli, l'ideale senza evanescenze, la realtà senza materialismo. Sarà il giorno, per dirlo in poche parole, in cui avremo distrutto in noi quel poco o quel molto che abbiamo di sud-americano e di balcanico e avremo risuscitato dal fondo tutto ciò che vogliamo e dobbiamo avere di romano.
8 agosto 1910.
Cavour e noi
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