G. A. Borgese, Gabriele D’Annunzio, pagg. 4-11, Napoli 1909
Che cos’è il dannunzianesimo
Nel marzo del 1879 si pubblicava a Prato un opuscolo, ove “i giovani Vittorio Garbaglia e Gabriele d'Annunzio” facevano “augurii e voti” “all'augusto Sovrano d'Italia Umberto I di Savoia nel ... suo giorno natalizio”, e vedeva la luce il primo endecasillabo del nuovo poeta: Lungo i declivi del romuleo Tebro.
Nel febbraio del 1909 si propagava lungo i fili telegrafici e telefonici il lieto annunzio di nascita della tragedia ultimogenita, della Fedra. Durante quest'ampio intervallo di tempo, nel quale l'Italia vide sorgere e tramontare fortune politiche e partiti, scorrere di sangue le strade cittadine e rifiorire una pace carica di speranze, balzare da una cupidigia ignorante e perire nel pianto della disfatta il sogno di un impero coloniale; durante questo lentissimo spegnersi d'un secolo vecchio e questo lento albeggiare d'un secolo e d'una generazione nuova, che andava seppellendo lentamente i superstiti delle guerre e delle congiure tra le quali si fondò l'unità e la libertà della patria; attraverso tanto imperversare di questioni e di passioni ondeggianti in una rapidissima successione di crisi che mescevano infaticabilmente il passato al futuro; attraverso tanta irrequieta vicenda di uomini e di cose, un sol uomo è rimasto inamovibile dal primo piano di questa cronaca molteplice, che non si fondeva nell'unità della storia. E quell’uomo era Gabriele d'Annunzio.
Una sola questione, una sola passione, un solo interesse tornava a rifluire nell'anima italiana, non appena si fosse placata l'e[f]fimera commozione d'una campagna elettorale, d'uno sciopero agrario, d'un regicidio. E quella inesauribile questione s'aggirava intorno a Gabriele d'Annunzio.
È Gabriele d'Annunzio o non è un grande poeta? e la sua arte una gloria, che bisogna iscrivere nel libro aureo della nazione, o una macchia da cancellare, una vergogna da espellere?
Sono ora passati trent' anni. Non un anno s'è chiuso, senza che questo idolatrato ed esecrato nome tornasse a squillare sulla folla semianomina dei frontispizi allineati nelle vetrine dei librai.
Non un mese, talvolta non una settimana, è scivolata nel gurgite del tempo, senza che agli orecchi ed alla fantasia dei contemporanei non giungesse l'eco fragorosa dell'ultima avventura spirituale di Gabriele d'Annunzio.
Oggi la trama ed il titolo di un'opera che non sarà scritta giammai, domani un duello; ieri un discorso elettorale, il teatro d'Albano, la ricetta d'un nuovo profumo, un'amante licenziata.
Non un solo istante, durante tre volte dieci anni, di concentrazione pudica, di semplice silenzio, di muta elaborazione interiore. Pur nei rari e brevi intervalli, nei quali della vita intima ed estrinseca di Gabriele d'Annunzio non si propalarono primizie invereconde e ciarlataneschi inventarii, pareva quasi ch'egli fosse riuscito a rendere pubblicità la segretezza, fragoroso il silenzio.
La sua casa fu come una casa di cristallo illuminata da un riflettore elettrico. Chi volle e chi non volle dove apprendere a memoria come dorma e come si svegli il più grande poeta dell'Italia contemporanea, in che ora del mattino faccia le sue abluzioni, perché stimi opportuno astenersi dalle sigarette e dal vino, con che foga faccia all'amore, e dove compri le sue cravatte e quanti levrieri mantenga.
Alcune diecine di migliaia sono le persone che l'hanno conosciuto da vicino; parecchie centinaia quelle che gli dettero del tu, che banchettarono con lui in affettuosa dimestichezza, e udirono dalla sua viva bocca proteste di fraterna amicizia e di singolare ammirazione.
Ciascheduno di questi eletti fu, durante il suo quarto d'ora di beatitudine, circondato da un nugolo di tributarii, che, non potendo attingere alla fonte, chiedevano alla succursale, con un fremito di appassionata cupidigia, i beneficii dell'intimità.
Ma quelli, che rimasero fuori dai cerchi concentrici delle relazioni personali, nutrirono la loro curiosità nei quotidiani e nelle riviste, percorsero interviste e biografie, esplorarono lungamente i suoi cento e cento ritratti, donde il suo sguardo vitreo sfuggiva con l'enimmatica glacialità della Sfinge.
Chi era dunque? angelo o demonio? artista o ciurmatore? avventuriero o vate?
Tutti poi lessero e rilessero i suoi romanzi, mandarono a mente le sue liriche, applaudirono o fischiarono i suoi drammi. È raro che un pregiudizio o un errore si sia fatto strada nell’anima di un solo italiano per difetto di conoscenza, perché non mai è avvenuto in Italia che un artista fosse così largamente ed esattamente conosciuto come d'Annunzio.
Le molte migliaia di copie, nelle quali ciascun libro suo fu diffuso, rappresentano quasi un milione di lettori; e lettori, in massima parte, non distratti o fugaci, ma fervidamente curiosi, ardentemente indagatori, usi a tornare sul libro dannunziano già letto con vigorose discussioni da strada o da caffè, con epistole agli amici, con riletture ed urti ed antitesi e sintesi d'impressioni cozzanti. Uscivano articoli e opuscoli, si pronunciavano conferenze e discorsi sul poeta e sull'uomo. Critici di specchiata imparzialità e d'inesorabile acume pubblicarono saggi, ch'ebbero volta per volta l'aspetto di un giudizio definitivo. E taluno raggiunse, per conto suo, il giudizio definitivo, ma senza riuscire nel compito d'imporlo alla pubblica coscienza.
La quale vagola ancora in una selva di punti interrogativi. Né si rassegna all'incertezza, sbadigliando e rimettendo ai posteri la decisione; ma s'affanna vanamente a districarsi dal dubbio, riposando ad ora ad ora in un giudizio enunciato con solennità che non ammette repliche, salvo a riprendere il cammino, passando dall'errore superato ad un errore da superare.
Non sono dannunziani quei quattro o cinque giovincelli, che, dipartendosi da ogni generazione di studenti ed abbandonando il tempio di Minerva diplomata, approdano allo scoglio sirenico di Settignano, imparano a parlare con voce nasale e con giusta dizione, colluttano coi fischiatori al lubbione del teatro d'opera dove nasce con grande frastuono la decima musa, e rimano i Paralipomeni delle Città del Silenzio, e imparano a memoria la Prefazione a Più che l'amore ove s'afferma che dopo Dante Alighieri non c'è che Gabriele d'Annunzio.
Bisogna mitigare l'iniquo disprezzo, che grava su questo famigerato dannunziano, il quale pare biondiccio e pelato anche quand'ha la pelle d'un creolo e la zazzera d'un Assalonne, e pare impubere anche quand'è padre di figli, e, giunto sul limitare dei quarant'anni, procrea nella solitudine del suo spirito il progenitore dei superuomini, sfaccettando per un editore, ignoto come il nume di Delfo, le strofe d'un novello Isotteo.
Bisogna perdonare a costui, perché sono dannunziani anche quelli che lo deridono e l'oltraggiano. Sono dannunziani i direttori di giornali che galoppano a briglia sciolta dietro la primizia del nuovo capolavoro; sono dannunziani i poveri diavoli che pagano con un biglietto di medio taglio la poltrona di prima rappresentazione; dannunziani i critici che lanciano una catapulta di cinque colonne ad ogni nuovo miracolo dell'idolo da infrangere, i moralisti che lo scomunicano, gli amici trascurati che lo diffamano.
Sono insomma dannunziani i denigratori non meno che gl'idolatri, i pappagalli orgogliosi né più né meno che i pappagalli ipocriti, definiti esattamente dal medesimo d'Annunzio, quando disse che “non sapendo averlo per maestro, l'hanno per padrone, e recano in fronte il suo marchio rosso, e cercano invano di graffiarlo rompendosi le unghie”.
Dannunziani i coetanei, soffocati dall'incubo di una gloria fragorosa troppo altamente squillante sulle loro vite stentate, che, non sapendo proseguire per un libero cammino, si contorcevano in una grottesca rivalità; e dannunziana la nuova generazione, più pura di spirito e più acuta d'intelletto, ma fiacca, inoperosa e triste, che spera demolire con una rispettabile ma impotente smorfia di disgusto un edificio di celebrità e di grandezza che fu costrutto con gran fatica di schiena e con grand'impeto di petto.
Dannunziani quelli che bociano in una servile frenesia e dannunziani quelli che strillarono di dispetto e d'ira, non escluso il povero Panzacchi, non escluso il poverissimo Chiarini, primo a dar fiato alla tromba dell'elogio (2 maggio 1880) e colto dalla Morte con la frusta del vituperio nel pugno; e dannunziani quelli che consacrano al Gloriosissimo il primo pensiero mattutino e l'ultimo pensiero serale; e dannunziano il Cesareo, che, scrivendo una storia della letterarura italiana, non lo nomina neppure.
Giacché essere dannunziano non significa ripetere d'Annunzio e nemmeno adorarlo in una resupina passività. Significa ingigantire l’importanza del caso d'Annunzio, pensare per lui o contro di lui, senza tregua e senza dimenticanza, farsi dell'arte sua e della sua persona una specie di manìa, d'idea fissa, di luogo comune, dove si rifugia lo spirito nei suoi intervalli di pigrizia.
Perché, se non fosse dannunziana, si sarebbe già formato un giudizio medio ed equanime dell'uomo e dell'opera; giudizio, per il quale non le mancava né il tempo - trent'anni - né i documenti - tutta la vita privata di d'Annunzio, ed in più la leggenda di questa vita; e tutte le opere, essendo più che sicuro che non un solo rigo vergato dalla penna d'oca patisce la clorosi dell'inedito; ed, oltre a tutte le opere vere, quell’altre innumerevoli, non mai scritte né pensate, che 1'autore ha narrate ai reporters dei giornali.
Ma è propria delle passioni l'irragionevolezza: sia poi la passione amore o sdegno, tenerezza od ira, ansioso interesse o vuota e dissennata curiosità. Quindi l'uno e l'altro accesso: la nausea per un atto od un libro dell'individuo d'Annunzio trasportata a tutto l'uomo e a tutta 1'opera; 1'entusiasmo per una sua lirica dolce o solenne generalizzato a tutta l'opera e a tutto l'uomo.
La passione non esita nel giudizio, non contrappesa i sì ed i ma; tumultua orgiasticamente da una perentoria affermazione ad una negazione furibonda.
Tale è dunque il fenomeno dannunziano: nuovo pure in una terra, come la nostra, che fu sempre dilacerata dalle contese letterarie. Non ha nulla di simile col marinismo, transitoria effervescenza d'un entusiasmo irragionevole ma concorde; ha poche affinità con la celebre disputa sul Tasso, aggiratasi intorno a cavillosi problemi retorici e alla fittizia rivalità fra un grande morto ed un malvivo.
Forse siamo vicini ad una soluzione della crisi trentenne; forse va preparandosi quello stato di pensosa indifferenza e di equanime placidità, in cui la giovine Italia metterà l'immagine del non più giovine d'Annunzio al posto che le compete, senz'inazzurrarla d'incenso né coronarla di spine.
Ma, proprio mentre il dannunzianesimo accenna ad esaurirsi, appare più viva e più tormentosa all'osservatore la complicata difficoltà del fatto storico che si chiude.
Come spiegarlo? basta darne la colpa all' inverecondo “reclamismo” del poeta, che s'è fatto commesso viaggiatore della sua poesia, adulando e blandendo, fustigando i sensi ed eccitando i nervi, esibendosi e disparendo al momento opportuno, coronando di sonetti e di drammi la vanità delle città morte e delle città vive, usurpando a suo profitto la commozione per l'ultimo funerale od il subbuglio generato dal più recente oltraggio austriaco? Altri han tentato d'imitarlo, altri l'avevano preceduto nel metodo; e non rimasero a lungo sulla superficie del pubblico interesse. O basterà darne il merito alla sua potenza d'artista? Altri poeti, non meno grandi e potenti di lui, o languirono nell'oscurità, o fecero tranquillamente la loro via, senza occupare il posto vuoto, come la larva di Banquo, alla colazione ed al pranzo dei suoi contemporanei.
Ci dev'essere nel suo temperamento qualche cosa di più alto che non sia l'impostura e qualche cosa di men puro che non sia l'arte; ci dev'essere un nodo assai più intimo e meno banale che non siano le solite ricette del successo.
Sciogliere questo nodo significa giustificare, superandolo, il dannunzianesimo, e significa collocare, interpretandolo, Gabriele d'Annunzio nella storia dello spirito moderno.
1909 - G. A. Borgese - Che cos'è il dannunzianesimo
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