Giuseppe Antonio Borgese, Goliath La marcia del Fascismo, Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1949
La nazione italiana ebbe origine, come tutte le altre nazioni europee, verso la fine del Medio Evo; ma nacque in modo diverso. L'Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. Gli stranieri che identificano l'Italia con Dante hanno in sostanza ragione. Il suo temperamento e la sua opera ebbero una influenza decisiva, aumentata col passare dei secoli, finché divenne essenziale nelle classi dirigenti del popolo italiano. Non è un'esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele.
La sua biografia, com'è spesso accaduto ai fondatori di religioni e di nazioni, è nettamente spartita in due dal fallimento della carriera naturale e dall'inizio delle peregrinazioni. Dante fu cacciato in esilio nel 12, quando aveva trentasette anni; e fu la sua Egira.
Alla morte di Beatrice, Dante compose un libriccino in memoria, intitolato la Vita nuova, dove sollevò la donna della sua fantasia, della quale non aveva sfiorato le dita, così alta in Paradiso da venire seconda soltanto alla Vergine; e lo chiuse con la promessa di celebrare la stessa donna in un'opera maggiore, anzi di vivere e di morire soltanto nella luce della sua gloria. Fu tuttavia dopo quella mistica evasione dalle delusioni della giovinezza che egli ebbe le sole esperienze di vita reale di tutta resistenza.
Negli anni dal 1295 al 1301 entrò nella vita politica della sua città; fu più volte chiamato a tener pubblici uffici e a partecipare ad ambascerie; ebbe anche famiglia con moglie e figli.
Ma d'un tratto quella breve oasi nel deserto della sua vita svanì. Egli s'era gettato all'attività politica, in apparenza la meno adatta fra tutte all'autore della Vita nuova, con la stessa veemenza fantastica e la stessa assenza di realismo con le quali s'era lanciato nel vuoto della sua avventura d'amore. Dante fraintese il tempo suo, ne mancò le occasioni e non riusci a penetrare il futuro.
La moglie non ne condivise l'esilio.
Disfatta e rovina erano ormai chiaramente il destino di tutta la sua vita. Non salvò neppure l'onore, poiché l'accusa pubblica era di baratteria: imputazione che, quand'anche calunniosa, molti potevano ritenere attendibile per via delle sue difficoltà finanziarie e della fama che gli "amici" gli avevano fatto nelle loro satire.
Quel crollo era il frutto di un temperamento nel quale emozioni e fantasia erano tanto tese quanto debole pareva la sua resistenza organica. Nel suo romanzo d'amore c'erano sospiri, tremori e svenimenti senza fine, ed anche fuor della passione amorosa sembrava facile preda della malinconia e della paura. Per quanto la storia ch'egli "divenne amico dell'uomo che lo aveva battuto" possa essere opera di un bugiardo, sarebbe stato impossibile inventarla se il nome di Dante giovane fosse stato circondato da quell'aura di coraggio e di sdegno che fu poi chiamata dantesca. Ad ogni modo, l'inclinazione e disposizione del suo spirito era conformista; egli aveva fatto sua senza difficoltà la condotta suggerita dalla tradizione e dalla legge; e se la sua vita politica si era rivolta in un insuccesso, questo non rappresentava la sanzione ad una trasgressione rivoluzionaria, ma, al contrario, la conseguenza di un errato conservatorismo, che lo aveva fatto zelatore della sovranità fiorentina e oppositore d'ogni mutamento in
Se, da un lato, la sua semplicità era morbida e la sua intelligenza ristretta dinanzi alla tentazione di un pensiero ribelle e inventivo, dall'altro il fondamentale equilibrio della personalità di Dante riposa nella sua propensione per le proporzioni assolute dell'intelligenza e della bellezza, nel suo amore per la simmetria e l'unità; in altre parole, nel suo genio di classico costruttore. Ora che si trovava privato di quanto aveva posseduto nei cinque o sei anni di vita reale, si trovò spinto, se voleva sfuggire alla rovina totale, a sprofondarsi in se stesso e ad aggrapparsi alla sostanza immateriale del suo genio.
Nessun esule moderno può misurare lo strazio dell'esiliato medievale. La città del Medio Evo, sonora e crudele come un alveare, aveva sviluppato nel breve gioco delle sue azioni e passioni un sistema di autosufficienza psichica, che s'avvicinava alla completezza di un istinto animale. L'alveare, con tutta la sua crudeltà, è il solo modo di vita offerto all'ape; così era la società medievale, rappresentata dal comune italiano, rispetto ai suoi figli. L'espulsione era una maledizione, l'esilio un'agonia.
Nei primi anni dell'esilio, Dante nutrì ancora qualche speranza di riconquistare la madrepatria, sia per mutamenti di fortuna o per forza delle anni. Poi, anche quella speranza svanì, e Dante fu solo con l'opera sua.
Ma i fragili materiali con i quali aveva creato La vita nuova non potevano servire al disegno di quest'altra impresa. I primi sette canti dell'Inferno, nonostante qualche preludio ad una musica assai più potente, erano ancora pieni di morbide risonanze, di smarrimenti e lacrime e timori e disperata compassione. Sembra lecito ritenere ch'egli interruppe l'opera e la riprese solo dopo una lunga pausa, quand'era un uomo ormai diverso, compiuto, Quant'era rimasto degli elementi giovanili, morbidità e debolezza, era pareggiato ora da un'aggiunta di furore, odio, orgoglio, vendetta: tutti motivi che il lettore de La vita nuova non si sarebbe atteso dallo stesso uomo. Così completato, Dante divenne un eroe e poté creare un mondo.Mondo di perfezione e di unità.
L'ispirazione di Dante è simmetria. Nell'armonia delle parti, congiunta con l'assolutezza e l'eternità dell'insieme, egli trova la vendetta alla miseria e dispersione della sua esistenza particolare.
Si può interpretare la potenza ora acquistata da Dante come il risultato di uno sforzo volontaristico contro le inclinazioni naturali dello spirito. Ma più esattamente è un ritorno alla vera e profonda natura nascosta del suo spirito: come se avesse rotto il ghiaccio dell'infanzia e della giovinezza repressa, e avesse visto gonfiarsi all'improvviso il torrente della sua forza creatrice. Se avesse seguito senza freni l'impulso della sua violenza innata o acquisita, sarebbe diventato un eretico o un ribelle, un nemico dichiarato di tutte le istituzioni stabilite, dello Stato e della Chiesa. Se fosse stato un vero uomo d'azione, la sua vera vocazione sarebbe stata quella di fondare una nuova setta e una libera comunità, o di unirsi, ad esempio, ai Fratelli Apostolici e al loro capo, Fra Dolcino, che predicava e praticava nell'Italia settentrionale un comunismo evangelico integrale, molto più rivoluzionario di tutte le altre sette rivoluzionarie che si susseguirono nei secoli successivi.
Non era effetto di ipocrisia o di timore. L'ortodossia e il conformismo, quei due primi compagni del suo io intellettuale, lo accompagnarono nell'esilio ed egli mai li abbandonò; soltanto essi divennero un richiamo diverso e più profondo. Era ormai privato di tutto, non poteva abbandonare la sola speranza di salvezza che gli restasse, che era il suo genio per la simmetria, la compattezza della sua vita ulteriore. Se avesse abbracciato l'eresia di Fra Dolcino o di qualunque altro riformatore, si sarebbe frantumato di dentro. Eresia, scisma, significano letteralmente separazione e a Dante era invece necessaria l'unità, l'umanità.In un luogo dell'Inferno
Dante seppe creare quel mito, e seppe anche rappresentare una mezza dozzina di esseri infernali che sdegnano Cielo e Inferno pure frammezzo alle loro torture, e sollevano il capo, e agitano i pugni contro il creduto onnipotente; minacciando la piena validità dell'universo altrimenti riconosciuta. Ma egli non piegava a simili tentazioni; egli non intendeva vivere e morire a somiglianza del suo titanico Ulisse. La furia del suo incatenato Titano rimane come un basso gemito echeggiante nelle viscere della terra, non propriamente pericoloso. Dante può anche dimenticarsene, e non sentirsene scosso nell'aereo castello che costruisce a se stesso fra terra e cielo.
La stabilità di quel castello è adamantina, fondata com'è su quattro pilastri che pongono un limite assai più delle colonne d'Ercole. Uno dei pilastri è Amore; il secondo Ragione; il terzo Autorità; il quarto Fede.
La sintesi della personalità e dell'esperienza di Dante è una fuga insuperata per dirittura e risolutezza, dall'assoluto fallimento nella vita reale all'assoluto compimento nel sogno.
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