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Isidoro Reggio, Gli intellettuali - Storia della grande guerra d’Italia, Vol. VII, Istituto Editoriale Italiano S. D., pp. 35-38

Giuseppe Antonio Borgese
Giuseppe Antonio Borgese
Della viva partecipazione del prof. G. A. Borgese alla campagna in favore dell'intervento, è stato fatto cenno quando fu rilevata l'azione del Corriere della Sera.
Ma egli non si limitò agli articoli pubblicati nel giornale milanese, e diede espressione al suo pensiero in altri scritti e in conferenze pubbliche.
Nel suo volumetto intitolato Guerra di redenzione, il Borgese scriveva che il punto tipico del dissenso fra neutralisti ed interventisti era determinato da un episodio che diventava l'essenzialità della discussione: gli intervenzionisti credono nell'Italia, i neutralisti non ci credono; gli intervenzionisti amano l'Italia, e la stimano, nel suo difficile presente, nella considerazione della strada ch’essa miracolosamente ha percorsa fra tanti ostacoli, nella contemplazione del suo passato e del suo futuro; i neutralisti ne hanno disistima o anche disprezzo, e pretendono che si possa amare la patria o la madre senza stimarla...
Si può dire - osservava il Borgese - che mentre nessuno può stabilire in quale momento ci spetti di intervenire, tutti noi sentiamo che accettare o respingere l'idea dell'intervento significa risolvere la questione dell'esistenza dell'Italia. Non si tratta di decidere se l'Italia debba volgersi verso destra o verso sinistra, ma se debba essere o non essere; e la questione essenziale, per noi che non siamo chiamati a decidere del momento e del come, è una questione di etica nazionale, quasi altrettanto che una questione di potenza. In un'Europa di domani, nella quale tutte le nazioni combattenti di oggi saranno rinsaldate, divenute eroiche, irrobustite da una forza sociale non sospettata finora, l'Italia neutrale, anche se ci dovessero regalare una massa di territori e di danaro, sarebbe una sentina, perfin peggiore di quello che fu nel 600, un paese putrido, un vero pericolo per la sanità spirituale dell'Europa.
Il problema politico ed etico era certo spaventevole.
Per noi si trattava di fare la prima affermazione della nostra esistenza. Quando si diceva che questa sarebbe una nuova guerra di indipendenza, si diceva una cosa soltanto in parte vera; bisognava dire: la nostra prima effettiva guerra di indipendenza. Le guerre dell'Indipendenza le abbiamo in parte inventate pei libri scolastici: abbiamo avuto un colpo di mano di una minoranza, un successo di genio politico più che di forza.
Gabriele D'Annunzio
Gabriele D'Annunzio
Una prova vera di tutta la nazione non v'era stata mai finora. Abbiamo avuto delle piccole guerre in cui gli italiani non si sono mai sentiti soli ed autonomi, e non vi è una sola battaglia di cui si possa dire che fu vinta dall’esercito italiano. Abbiamo anzi provato - diceva G. A. Borgese - uno dei più singolari casi di terrore davanti alla vita: gli italiani hanno avuto paura della vittoria. Si può dire che la storia della seconda battaglia di Custoza, come della battaglia di Lissa, come della battaglia di Adua, si riduca alla storia di un esercito che non osa vincere, quasi sentendo dietro di sé un paese che repugna da una grande prova e si ritrae, e non ritenta il colpo. L'inseguimento della flotta austriaca dopo Lissa sarebbe stato la prova che l'Italia si sentiva viva; ma questa prova non ha potuto dare a se stessa e, inerte, fiacca, ha dovuto sentirsi sconfitta quasi prima dii combattere...
Dovendo tornare a rappresentare un alto principio di ragione nel mondo - concludeva il Borgese - l'Italia entrerà nella sua nuova età virile con una guerra non di furore ma di convinzione. Il termine con cui furono contrassegnate le Provincie italiane che l'Italia chiama a se: irredente, ci appare oggi grandemente arricchito di senso. La nostra patria si arma veramente per un combattimento nel quale non solo questa equella provincia, ma l'intera coscienza nazionale troverà la sua redenzione.
In una sua conferenza, che a Milano e a Firenze ebbe notevole successo, G. A. Borgese spiegò il suo atteggiamento favorevole all'intervento, mentre in altri tempi era stato triplicista e contrario all'irredentismo.
Si poteva essere ieri - egli disse - triplicisti, benché con certe cautele e con pensieri piuttosto palesi, perché l'alleanza con gli austro-tedeschi ci era imposta da una dura necessità; perché nessuno poteva prevedere che la Triplice sarebbe diventata fatalmente una delle grandi forze sommovitrici dell'ordine in Europa;.e perché infine era lecito credere che la Germania trovasse in sé degli uomini di tanto acume da comprendere quale sarebbe stata per il loro paese l'importanza della neutralità o dell'intervento italiani.
Ugo Ojetti
Ugo Ojetti
Né potevamo essere accesamente irredentisti - soggiungeva il Borgese - quando l'irredentismo come programma nazionale era proclamato da coloro che volevano raggiungere gli scopi della nostra nazione deprimendo l'esercito e credendo che i nostri più gravi problemi si sarebbero risolti in base a contrattazioni ideali.
Ma il Borgese intervenzionista non negò, anzi ammise, con una affermazione in apparenza paradossale e contraddittoria, ma ampiamente spiegata nel corso della sua conferenza, che coloro i quali avevano effettivamente rappresentato gl’interessi della nazione, erano stati coloro i quali, al principio della guerra, avevano dichiarata la neutralità. Le nostre modeste forze erano tali da far tracollare forse in breve tempo la bilancia; ma né luna, né l'altra parte, alla quale noi avessimo dato il nostro aiuto, avrebbe mai riconosciuto l'importanza del nostro intervento...
I propagandisti - secondo il Borgese - non hanno né devono aver la pretesa di sostituirsi al governo. Essi sono dei pessimi politici, se pur veggono lontano e guardano addentro nelle cose. Lo Stato non può essere guidato dai chiaroveggenti e dai pensatori, ma dai miopi.
Mazzini, che era un chiaroveggente, non avrebbe mai fatta l'Italia. Cavour, che vedeva gli scopi a portata della sua mano, l'ha fatta.
Ma il nostro scopo - notava il Borgese - è di preparare al governo, che deve decidere secondo punti diversi da quelli con cui noi sogliamo considerare la storia, un paese pronto a battersi, e a tal fine bisogna predicare la guerra come se questa dovesse avvenire domani. L'errore dei neutralisti, secondo i quali noi abbiamo un governo che decide e un paese che esegue, è una mostruosità odiosa, poiché non è mai avvenuto nella storia d'Europa che una decisione si sia formata in Consiglio di ministri. Chi prepara lo stato d'animo della nazione prepara uno degli elementi più essenziali di cui il governo possa aver bisogno.
Sem Benelli
Sem Benelli
Il Borgese entrò quindi nella parte più viva del suo tema, chiarendo i motivi che inducono l’élite intellettuale italiana a tendere per la guerra contro gli imperi centrali. Abbiamo, egli disse, da un lato una coalizione, dall'altro una nazione; da un lato la Francia, l'Inghilterra e la Russia, che sono tre fortissime individualità storiche, unite in una intesa transitoria, in una alleanza precaria, che non può durare oltre la guerra; dall'altro un popolo, il tedesco. La vittoria di questo secondo gruppo sarebbe dunque la vittoria di un popolo, il quale per necessità storica dovrebbe esser leone, e imporre il suo dominio agli altri, ritenendosi agli altri superiore.
Guglielmo Marconi
Guglielmo Marconi
Le nazioni del primo gruppo, invece, dopo la guerra, riprenderanno la loro individualità, garantendo, se vittoriose, la libertà delle altre nazioni. Stando con esse, saremmo in quattro a trattare, una volta deposte le armi, mentre se ci mettessimo a fianco della Germania, noi dovremmo trattare soltanto con la Germania. Contro i pericoli della vittoria dell'Intesa, che sono di poco minori a quelli d'una vittoria tedesca, che cosa si può far di meglio se non diventare partecipi della vittoria, essere uno dei quattro?
Il Borgese esaminò quindi la situazione interna e le condizioni che dovevano determinare inevitabilmente l’Italia alla guerra, ponendo come determinante massima la questione etnico-sentimentale, quella di Trento e Trieste, diventata urgentissima. Quando la guerra sarà finita, affermava il conferenziere, o noi avremo Trento e Trieste o avremo la rivoluzione, la quale trionferà certamente, e questa volta ci trascinerà alla guerra per forza; che se la Francia sarà uscita vittoriosa dall'attuale conflitto senza che la vittoria sia attribuibile alle armi francesi, sentirà il bisogno di riprovare i suoi muscoli, e di riprovarli naturalmente con noi; e un'Austria vinta, ma di 40 milioni di uomini, con una tradizione militare da rifare, con un'autorità interna da consolidare, cercherà anch'essa in una guerra contro di noi il modo di rifarsi e di consolidarsi.
L'oratore ribatté tutte le obiezioni che tentavano i neutralisti contro le ragioni degli intervenzionisti, ad esempio il timore d'una sconfitta. Anche le sconfitte, disse il Borgese, significano qualche cosa nella storia del mondo, poiché se non vi fossero state, nella storia, delle disfatte, non vi sarebbero state alcune fra le più grandi esplosioni di civiltà.
Siamo nati nella nuova Europa - concluse G. A. Borgese - con l'idea che la vita fosse una cosa facile: oggi è appunto il momento in cui l'Italia si deve accorgere che non è facile vivere, e che la vita delle nazioni è una cosa tremenda, come le grandi vite degli individui.

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