Luigi Tonelli (*), Alla ricerca della personalità, 1923
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G. A. Borgese
Che il suo nome è legato a una memoranda campagna di critica letteraria, la quale dopo aver dato molti buoni frutti e qualcuno cattivo, fu oltrepassata e messa in oblìo dall'enorme avvenimento della guerra; ad un'altra non meno celebre campagna di politica estera, culminante nel famoso patto di Roma, che, nonostante gli strascichi irritanti, sembra ormai antico di cent'anni.
La storia s'è fatta vertiginosa. Ma se l'azione individuale si fonde con l'opera del tempo, epperò con questa diventa storica, ossia lontana e quasi estranea per noi, assillati dal presente precipite; resta l'individuo con le sue energie, logore da una parte e dall'altra ritemprate e rinnovate, con le sue immediate e mediate possibilità; il quale, come influì nel passato, influirà, in modi problematici, in futuro. E dunque dev'essere studiato nel suo passato, non come una curiosità archeologica, alla quale basti applicare un cartellino con un'arida e fredda leggenda; ma come cosa viva, dalla quale tutto può aspettarsi, il bene e il male, la verità e l'errore ...
L'uomo del passato sarà probabilmente l'uomo dell'avvenire.
"Mi sento pronto a dare di me tutto quello che posso, e in questo senso mi sento maturo, uomo, cioè mezzo morto, mentre l'insoddisfazione di quel che ho sin'ora fatto, mi relega ancora per un po' nella bolgia dei giovani".
Questo diceva, un giorno, lo stesso Borgese, accompagnando le parole romanticamente pittoresche con quei suoi gesti di siciliano così caratteristici. E nell'ombra del suo gabinetto di redazione, gli oc- chi gli sfavillavano stranamente nella faccia emaciata e febbrile, quasi volessero dire l'orgoglio del- l'opera compiuta, il tormento di chi ancora cerca se stesso, l'ambizione e la speranza di cose più alte e durature. Bisogna credere nelle inesauribili energie di G. A. Borgese. Si potrà dissentire dal suo modo d'intendere l'arte, dal suo metodo critico, dal suo atteggiamento, fino a qualche tempo fa, costantemente polemico, e più ancora dalla sua politica e dalla sua attività giornalistica. Ma tutti poi ci ritroveremo d'accordo nel riconoscere che dal Borgese è legittimo aspettare ancora moltissimo, e precisamente ... l'inaspettato.
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Precocità e passione giornalistica appaiono le caratteristiche del giovine Borgese. Caratteristiche esteriori. Ciò ch'è veramente notevole in questo giovine è l'ammirazione o culto pel D'Annunzio, che s'espresse nel 1903 in un bellissimo articolo sulle Laudi; e l'accostamento sempre più intimo al pensiero e alla personalità del Croce, culminante in quella Storia della Critica romantica, scritta nel 1903, stampata nel 1905, che quest'anno si pubbhca tale e quale, con aggiuntavi una prefazione importantissima, della quale più oltre parleremo.
L'ingegno borgcsiano s'era dunque immediatamente orizzontato verso il più grande poeta, e il più grande filosofo dell'Italia contemporanea. Li aveva riconosciuti ed amati maestri. Se domani se ne distaccherà con atteggiamento di ribelle, non potrà mai rinnegare tutto il bene che gli venne da quell'ammirazione.
Il Borgese parte dunque per la Germania nel 1907, d'annunziano e crociano. Rimane due anni a. Berlino, studiando e inviando corrispondenze, dense di fatti, d'idee e di vedute nuove, raccolte poi in volume nella Nuova Germania (1909). Ammira l'energia, la potenza, la ricchezza, il lavoro del colosso germanico; dubita del valore di questa nuova civiltà americanizzata. Ma alcune amicizie con tedeschi d'alto intelletto e coscienza, e più ancora lo studio approfondito del secolo aureo della cultura tedesca, lasciano impronte indelebili nello spirito del giovine. Quando egli torna in Italia e inizia la campagna critica contro la scioperataggine letteraria contemporanea, non è più lo spregiudicato ammiratore del bello di prima, ma, un po' alla maniera tedesca, lo psicologo, il moralista, il cultore della personalità, il giudice e missionario non privo di pathos. Vuol essere un nuovo Aristarco Scannabue, ma anche un po' il Lessing della letteratura italiana. E la sua missione la prende tanto sul serio, che non dubita d'attaccare gli stessi maestri di ieri. Dopo aver scritto un libro su Gabriele d'Annunzio (1909), nel quale l'entusiasmo di alcuni anni prima è di molto attenuato e limitato, fino a sembrare rinnegato; si sfoga a demolire, una per una, tutte le opere che il poeta va pubblicando. E, per non parlare delle aspre critiche contro i poemetti pascoliani dell'ultima ora, e della limitazione del genio carducciano, fatta in una conferenza rimasta inedita; si va a poco a poco delineando quello che sarà il famoso dissenso Croce-Borgese, iniziato con l'articolo sul Vico (1911) e culminante nel saggio sul Metodo nella storia dell'arte (1914).
Il Borgese divenne in breve spazio di tempo, il più letto e discusso critico letterario d'Italia, e ciò che non guasta, professore di letteratura tedesca all'Università di Roma. Quando scoppiò la guerra europea, egli aveva già pubblicati tre volumi presso Bocca (La vita e il libro: 1910-13), un altro presso i Treves (Studi di letteratra moderna, 1914) ed era collaboratore ordinario del Corriere della Sera. La guerra lo fece scrittore esclusivamente politico. Il critico letterario divenne l'interprete dell'idea germanica e italiana (L'Italia e la Germania, 1915; La guerra delle idee, 1916); lo psicologo della storia diventò lo scrittore della; politica estera del più grande organo dell'opinione pubblica italiana.
Borgese era stato interventista, non contro lo spirito tedesco, che aveva dato Goethe e Schiller, Wagner e Nietzsche, ma contro la "barbarie" tedesca, rivelatasi nella terribile realtà della guerra. Divenne wilsoniano, quando Wilson sembrava il realizzatore ed il simbolo dell'ideale, per cui molti avevano accettato con entusiasmo la dura necessità della guerra. Ed al wilsonismo rimase tenacemente fedele, anche quando il Presidente americano non significò più che l'arbitrio dell'onnipotenza. Molteplicità d'attitudini, mutabilità d'indirizzi …
Infatti, la critica positivista e carducciana tramontando malinconicamente, Borgese avvertì la necessità di restaurare il culto desanctisiano; e neodesanctisiano egli fu, accettando le tesi critico- estetiche del Croce, diventando crociano.
Certamente, tutto ciò si presta a qualche ironia e malignità: si può cioè ammettere nel Borgese una buona dose d'ambizione per influire sui contemporanei, far proseliti, e trovarsi sempre e dappertutto in prima fila.
Ma l'ambizione non è una colpa, e nel caso particolare, s'accompagna con un temperamento così impetuoso ed impulsivo, da giustificare forse, di per se stesso, siffatte mutazioni.
Non cercate nelle opere borgesiane l'equilibrio e la serenità; in esse sono l'inquietudine, l'impazienza, la mobilità, e soprattutto una forza di difesa e d'attacco, che non si dà mai per vinta, ma vincere vorrebbe, sempre e dappertutto.
Borgese bisogna prenderlo com'è, con le sue esagerazioni, contraddizioni, impetuosità; magari come un apparecchio sismografico, sensibile ad ogni pur lieve moto, entro le viscere del tempo.
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Mentre la scienza mira a conoscere l'assoluto e la volontà pratica a raggiungerlo, l'arte lo suppone e lo rappresenta. L'arte è la rappresentazione per simboli dell'assoluto. Di qui la tendenza a considerare l'opera d'arte sotto la specie dell'organicità, dell'unità, dell'obbiettività dei rapporti ritmici ed architettonici". (Nuova prefazione alla Storia della critica romantica).
Il Borgese insomma, sentendosi oggi classicista alla maniera - notate bene - rosminiano-manzoniana, crede d'esser stato sempre tale, e che non sia difficile provarlo, esaminando le sue pur svariatissime manifestazioni.
A Firenze il giovane studente ebbe rapporti col romanticismo gnoseologico del gruppo leonardesco; ma rimase fedele alla tradizione classica e carducciana, mantenuta dai professori dell'Istituto. Scomunicava ogni cosa che paresse infetta di romanticismo, e se gli piaceva la dottrina filosofica e storica bandita dal Leonardo, la quale "rompeva la specializzazione e rimetteva il letterato italiano in comunione con la totalità del sentire e del sapere", se ne distingueva tuttavia "pel desiderio di trattare il fatto estetico come per sé stante, e di non dedurlo dalla biografia dell'artista né di o- scurarlo in nozioni accessorie ed estrinseche".
Aveva nutrito entusiasmi pel Pascoli e il D'Annunzio; ma aveva cercato nell'uno "un classico, un costruttore", dell'altro aveva celebrata la liricità, dal Canto Novo alle Laudi, come "una quadrangolare e, per così dire, definitiva restaurazione di classicità depurata da ogni classicheggiamento degenere e da quasi ogni residuo romantico".
S'era accostato al Croce, ma non senza diffidenza, e mantenendo pur sempre quelle differenziazioni, che apparvero nettamente già nel 1908, nelle brevi pagine sulla Critica del concetto d'originalità dell'arte, dove rimetteva in valore i concetti di tradizione, organicità e soprattutto di stile, e insomma aderiva all'indirizzo umanistico contro l'individualismo: differenziazioni, che andarono sempre più accentuandosi nella polemica, e lo condussero a riconoscere infine la sua intima classicità di fronte all'autentico romanticismo crociano.
Cosicché, mentre il Croce precisava il suo metodo critico, negando ogni continuità di sviluppo nella storia dell'arte, cercando in ogni poeta l'opera fondamentale e genuina, leggendo ogni poeta ed ogni opera di poesia come un'antologia ; il Borgese formulava il suo, affermando, in un saggio sul Pascoli (1913), che "la vera poesia non è in quella o in questa poesia, in questa o in quella strofe ... ; è nello spirito del poeta, e di là si irradia in tutte le sue opere" ; e che "amare e intendere classicamente l'opera d'arte vuol dire amarla e intenderla nella sua organicità costruttiva e non razzolarvi in mezzo per trarne fuori qualche prezioso chicco di lirica".
Tale l'interpretazione che ha data il Borgese stesso della sua opera.
Con tutto il rispetto che abbiamo per l'ingegno e la sincerità del critico, dobbiamo confessare che la dimostrazione non ci persuade. Il Borgese giovinetto adorava De Sanctis. Ora, in De Santis, sintesi e culmine supremo del movimento critico romantico, egli non può dire d'aver visto il classicista travestito.
Non disprezzava la critica classicista, e interpretava classicamente la critica romantica italiana? Ma si potrebbe piuttosto dire che egli interpretava romanticamente la critica classicista, e perciò l’apprezzava! Cercava l'organicità nel Pascoli, e rapporti ritmici e architettonici nel D'Annunzio: - ciò non toglie ch'egli sentisse e gustasse fino all'entusiasmo l'impreusionismo pascoliano e il sensualismo e il panismo d'annunziani.
S'accostò con diffidenza al Croce; ma il suo bergsonismo giovanile, ch'egli non nega, non era certamente di natura classicista. Si distacca sempre più dal Croce, ch'egli giudica un vero romantico, anzi un ultra-romantico; e tuttavia il suo classicismo del 1908 (Critica del concetto di originalità) non gli vieta d'affermare che il capolavoro "consiste nel punto critico, ove l'ansia verso il simbolo non distrugge la realtà né soggiace alla realtà", verità che il De Sanctis aveva più volte affermata, e quel che più importa, fatta vitale ed agente ne' suoi saggi.
Infine, polemizzando nel 1914 col Croce, dichiara di accettare quella soluzione del problema estetico. che "ammette una piena e integrale storia dell'arte in tutto simile alle altre storie, svolgentesi in un unico processo dialettico, e nella quale hanno una loro funzione, logicamente deducibile, l'erudizione e il gusto, la prova esterna e l'analisi intima, il contenuto e la forma, l'ispirazione e la tecnica, la tradizione e il genio".
Siamo lontani dal Croce; ma non meno lontani dal Boileau e dal Carducci. Il Borgese può ricordarci che il suo è un neoclassicismo, ossia un classicismo alla maniera del Rosmini e del Manzoni, che si dissero e furono considerati romantici. In tal caso, diremmo che il suo classicismo vale il suo romanticismo, e se l'uno e l'altro si contraddicono, entrambi si uniscono in qualche cosa che non li trascenda, ma li implica riluttanti. Onde, se è lecito parlare di neo-classicismo, è altrettanto lecito parlare di neo-romanticismo.
Tutto sommato, ci sembra che l'intelletto e il temperamento borgesiani si sieno fino a ieri dimostrati prevalentemente romantici, l'uno considerando la storia come movimento ed Entwicklung, e però immaginando continui drammi di cultura e tragedie spirituali d'individui; l'altro, amando il problematico, il violento, l'acceso, il caotico; ed entrambi preferendo l'analisi e la valutazione del contenuto, nella sua essenza assoluta e nella sua relatività, piuttosto che la contemplazione delle belle forme e l'assaporamento delle cose fragili e squisite.
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Al Borgese infatti non mancano il senso dello stile, l'intelligenza delle squisitezze formali, l'amore della poesia. Ma è certo che egli, dinanzi all'opera d'arte, ha ben altre preoccupazioni spirituali, che non sia quella di stabilire e determinare semplicemente se l'opera sia bella o no, e in quale senso, e in quali limiti precisi.
Nell'introduzione alla prima serie della Vita e il Libro, il Borgese stesso, dopo aver caratterizzato il primo dei critici e l'ultimo dei critici, concludeva che "nel nostro paese, e negli anni che viviamo, varrebbe assai meglio un granello di verità che molti sacchi d'ingegno", e ch'era venuta l'ora "d'instaurare la libertà contro la licenza maldicente e l'ossequiosa servitù, che poi sono sintomi di un male istesso, della mancanza di dignità".
Non dunque egli stesso caratterizzava la sua opera per morale o moralista?
Ma nel congedo alla terza serie, pur riconoscendo il senso romantico del titolo, ispirato appunto a una sentenza desanctisiana, pur affermando sua intenzione esser stata di "acquistar coscienza, spregiudicata e chiara, del nostro svolgimento letterario dacché fummo composti in nazione, tenendo bene in mente che il corso della storia è unico e che ogni mutamento dell'atmosfera spirituale permea anche dentro le torri d'avorio ove fantasticano i poeti", negava recisamente d'essere critico moralista, e tanto meno di tipo romantico, giacché egli credeva che "la storia letteraria s'ha da fare con mezzi puramente letterari e che la coscienza di essa con la civile e la filosofica non ha da essere un punto di partenza, un presupposto; ma, se mai, un punto di arrivo".
Senonchè De Sanctis, il grande modello, aveva fatta la storia letteraria appunto coi semplici mezzi letterari, oltrepassando, in questo, i romantici tutti; e il Borgese deve finire col riconoscere ch'egli, rifacendosi dall'ultima pagina della Storia desanctisiana, s'era chiesto "quale compito abbia assolto lo spirito italiano dopo la ricostruzione della patria". Compito insomma di psicologia e non d'estetica, di pensiero logico e storico e non di contemplazione, di moralità e non d'indifferentismo . Del resto, è inutile discutere sulle intenzioni confessate dallo scrittore, quando abbiamo dinanzi la sua opera effettiva. La quale s'occupa spesso di questioni di cultura, e spessissimo sostituisce abilmente questioni morali ad estetiche; nell'un caso e nell'altro, dando ragione a coloro che s'ostinano a vedere nel Borgese prevalentemente un impostatore di problemi.
La disfatta di Mefistofele è l'ansioso tentativo di dimostrare la struttura unitaria e la volontà occulta del poema goethiano in entrambe le sue parti: poesia e filosofia s'incontrerebbero nel vertice supremo ch'è la religione, e l'amore sarebbe esaltato sulla potenza, e lo spirito sulla materia …
"Certo l'opera del critico non finisce qui, riconosceva lo stesso Borgese, concludendo: “consiste anche nel compito, da noi oggi trascurato, d'illuminare e di proiettare nell'anima del lettore la bellezza espressiva del poema".
Il saggio sul Fogazzaro è l'analisi delle idee, piuttosto che dell'arte dello scrittore; tanto è vero che il critico termina l'articolo, affermando che "sopravviveranno, quell'opera e quella persona, come il rimorso di una letteratura che, nella sua nuova gloria formale, andava dimenticando l'antico e immortale dovere delle idee".
Il lungo studio sul Rapisardi illustra il pensiero, il temperamento, i pregiudizi e gli anacronismi del poeta catanese; non ci dimostra in che cosa precisamente consista la bellezza del capolavoro - Giobbe -, né appare molto precisa la definizione del suo stile, che sarebbe il "sacro artigianato delle muse classiche, per cui non c'è separazione netta tra l'arte e il mestiere, tra l'originalità e la scuola, tra l'imparato e il nuovo, e la creazione sboccia timida e occulta dal tronco dell'annosa e reverente imitazione".
Infine, l'importante saggio pascoliano è il tentativo di trovar la formula definitiva, caratterizzante lo spirito totale, e però la poesia integrale, del Pascoli, di là dalle singole poesie e dalle forme particolari. Onde la sostanza spirituale e la forma stilistica della poesia di G. Pascoli sarebbero nella trepida nostalgia verso una divinità ignota, nell'accorato pudore davanti alla vita incompresa, nel querulo sentimento di incompiutezza …Sempre e dappertutto, insomma, il Borgese dà come dimostrata e pacifica l'importanza o magari la grandezza estetica dell'opera d'arte, e s'adopra a indicare quale sia il punto di vista più acconcio per abbracciare d'un sol colpo il panorama e intenderlo e valutarlo. Spirito eminentemente sintetico, s'acconcia solo di malavoglia e di passaggio all'analisi, e poi che ha disegnate le linee generali, abbandona il lavoro, rimettendo ad altro tempo, che non viene mai, la cura dei particolari, delle sfumature, delle colorazioni.
Spirito dialettico, non ama indugiarsi nella contemplazione della bellezza perfetta, ma preferisce seguire le vicende drammatiche dello spirito in lotta con la materia, della schietta ispirazione in dissidio con la tradizione, i pregiudizi d'ambiente, le ottusità del temperamento. Spirito impaziente, passa da un autore all'altro, senza prima avere esaurito tutto quello che di nuovo e profondo avrebbe potuto e saputo dire …
Di qui l'insoddisfazione che si prova leggendo i saggi borgesiani, riguardanti i nostri grandi scrittori e poeti. Insoddisfazione che non può esservi per gli studi riguardanti autori, notevoli per significato psicologico-storico, trascurabili per valore letterario; tanto meno per quelli, che esaminano fenomeni culturali, di politica e di religione.
Se domandate al Borgese che cosa pensi delle sue opere di critica letteraria, vi risponderà che le considera soltanto come saggi, nel vero e proprio senso della parola, di ciò che crede di dover fare nella sua maturità. Si dichiarerà invece tenacemente affezionato alla sua opera e alla sua prosa politica. Ora è forza riconoscere che lo stile dello scrittore politico è assai più preciso, energico, muscoloso, di quello del critico letterario; e che, tutto sommato, l'attività politica del Borgese fu più efficace e certamente apprezzata da un pubblico più vasto, che non la campagna letteraria.
Oso anche dire che i due volumi in cui gli articoli politici furono raccolti, sono più sostanziosi e resistenti dei tre della Vita e il libro. Il che non è strano. Non aveva il Borgese mostrato sempre una spiccata predilezione pei problemi morali di cultura? Non s'era egli interessato, il più delle volte, all'opera d'arte, non tanto come espressione di bellezza, quanto come documento spirituale? Non aveva iniziata la sua carriera giornalistica con corrispondenze sulla Germania intellettuale e morale? ...
La politica non fu dunque un'improvvisazione, ma direi una necessità, non solo imposta dai tempi, ma voluta dalla stessa forma mentale borgesiana. Il Borgese ha avuto più volte occasione di chiarire il suo pensiero, di fronte al Germanesimo. Nella Nuova Germania aveva messe in evidenza alcune linee involutive della mente tedesca contemporanea, e sostenuto che lo slancio idealistico della vecchia Germania, oltrepassando il segno, aveva esaurito e rinnegato se stesso, realizzandosi in un gonfio materialismo, e la funzione egemonica voluta dai patriottardi, o attribuita ad essi dai nemici, era sproporzionata ai valori interni e alla capacità di saggezza del gigantesco ma torbido organismo tedesco. Egli dunque poteva dire, nella prefazione alla Guerra delle Idee, che non aveva attesa la guerra per assumere un atteggiamento scettico e analitico verso le pretese egemoniche della cultura tedesca; e che, d'altro canto, non era bastata la guerra a far bollire in lui un'astiosa furia negatrice di tutta l'energia creatrice di cui furono e saranno capaci i Tedeschi.
Nell’Italia e Germania lo scrittore riconosceva che, dall'epoca di Federico II a quella di Guglielmo II, il gcrmanesimo era stato, idealmente e politicamente, il perno della storia; ma constatava, ancora una volta, che la decadenza tedesca, già iniziata lentamente e impercettibilmente fra il '48 e il '70, era divenuta sempre più rapida e costante fra il '70 e il '914; e, d'altra parte, sosteneva che il germanesimo, nella sua essenza, fosse anarcoide e particolaristico.
Il mondo s'era ribellato, nella grande crisi di guerra, contro l'immanentismo tedesco, degenerante in materialismo; contro l'individualismo tedesco-cristiano, decadente in neo-pagana ferinità. E in questa ribellione il mondo era sulla grande via del pensiero stesso tedesco ed europeo.
La guerra delle idee si collega infine direttamente al volume precedente, interpretando, esplicitamente e definitivamente, il conflitto, soprattutto come una lotta ideale e religiosa. E già nel '916 l'autore, con grande acutezza, vedeva profilarsi la sconfitta tedesca nel campo delle idee, constatando come la Germania andasse sempre più accostandosi alle idee della nazione, del diritto, dell'etica cristiana. Che il pensiero borgesiano di fronte al germanesimo non abbia affatto mutato in una sì lunga serie d'anni, nessuno vorrà sinceramente sostenere.
Ma sarebbe ingenuo, specie in un periodo storico estremamente agitato, pretendere che un pensiero vivente rimanga sempre uguale a se stesso. E del resto, nel caso specifico, la identificazione di germanesimo e romanticismo ò un ritorno a tesi antiche, sostenute dal critico ancora adolescente; e l'aspirazione verso un'arte, corrispondente alla nostra pura natura, non impeciata dunque di germanesimo, è preannunzio esplicito di quel neoclassicismo, di cui si fa esplicito banditore l'autore della Nuova prefazione alla Critica romantica.
La verità probabile è che, come il Borgese andò sempre più orientandosi dal romanticismo verso il classicismo, così dall'ideale e dalla cultura germanica andò gradatamente accostandosi all'ideale e alla cultura latina. Le tappe dei due cammini coincidono, o quasi. E questo è un segno, mi pare, di sincerità intellettuale e morale. Militante fu G. A. Borgese nella critica; battagliero fu ed è ancora nella politica. Avvicinandosi ora alla quarantina, l'uomo di lettere sente ch'è venuto il tempo della calma contemplazione. E mentre invita i colleghi, giovani e vecchi, ad avere un poco più di rispetto pei grandi e pei capolavori, si prepara ad opere serene, profonde, costruttive, donde lo spirito polemico esuli del tutto.
G. A. Borgese è uomo dalle molte possibilità, pel quale è estremamente difficile fare previsioni.
Diamo dunque tempo al tempo.
(1920)
* Luigi Tonelli, scrittore ammirevole, critico acuto, nato a Teramo nel 1890, residente a Parma. Gli dobbiamo: La tragedia di G. D' Annunzio; L'evoluzione del teatro contemporaneo in Italia; La critica letteraria italiana negli ultimi 50 anni; Lo spirito francese contemporaneo; La critica, guida ICS 1921; L'Anima e il Tempo (stazioni spirituali d'un combattente) documento di vita vissuta da un' anima sincera e serena; Crepuscolo, commedia in 3 atti, rappresentata nel marzo 1920 al Teatro Manzoni di Milano, ecc. Attende ora ai seguenti lavori: Il teatro italiano dalle origini ad oggi; La poesia moderna tedesca; Il giornale di Eugenia de Guerin, traduzione con introduzione. Collaboratore pregiato di Nuova Antologia, Rivista d'Italia, Rassegna Nazionale, Rivista di Cultura, Rassegna Moderna, Resto del Carlino, Piccolo (di Trieste); Libri del giorno, L'Italia che scrive; critico letterario per "romanzi e novelle" del Marzocco di Firenze, per "letteratura" della Rivista di Milano. Prof. di lettere; medaglia d'argento al valor militare. (da Teodoro Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei, 1922).