La Lettura, Il mare, 1922
di G. A. Borgese
(Giuseppe Antonio Borgese, all’epoca, era uno scrittore di punta del Corriere della sera. Le illustrazioni sono di A. Ferraguti - NdR)
Alla fine di quella primavera ero così malandato che una mattina decisi improvvisamente di partire per la montagna avvertendo per lettera il capufficio. La lettera che sapevo a memoria prima di scriverne una parola diceva esattamente così:
“Ill.mo sig. Ingegnere,
il medico dott. Ferri, via Broletto 9, riscontra in me sintomi di deperimento grave, e mi prescrive quindici giorni di immediato ed assoluto riposo in alta montagna. Parto oggi stesso in cerca di conveniente alloggio in Val d'Aosta. Conto di ritornare in ufficio il 20 c. m. Dolente che le mie condizioni di spirito e di corpo mi impediscano di presentarmi alla S. V. prima della partenza.
La prego di gradire i sensi del mio rammarico e del mio ossequio”.
E lo stesso ingegnere Sironi, pochi giorni prima, accorgendosi d'una mia smemoratezza, m'aveva detto: - Lei è un po' stanco. Dovrebbe fumar meno e prendere gli ipofosfiti di Fellows.
Insomma c'era quanto bastava perché la mia evasione non fosse giudicata una seria infrazione disciplinare.
Io però, mentre formulavo la lettera, sapevo già che il biglietto di carta sarebbe rimasto bianco. Cose di questo genere
Il respiro, specie alla mattina, era corto, e, un paio di volte, uno qualunque aveva dovuto tirarmi pel braccio, al crocicchio di via dell'Orso, per non farmi andare sotto un tram o un'automobile. Press'a poco era stato cosi tutti gli anni, in primavera, e poi via via che avanzava l'estate m'assuefacevo di nuovo alla vita. Ma viene un momento che non si pensa più: - L'anno venturo starò certo meglio E si pensa invece: -L'anno venturo starò forse peggio. Invecchio, passando giornate intere senza desiderio di nulla.
Allora viene una gran voglia di mettersi a sedere, e di guardare lontano. Perciò avevo pensato alla montagna, e se quella mattina avessi osato sarei stato felice.
In giugno i rododendri sono ancora in fiore e gli alberghi quasi vuoti. Ma in agosto sapevo che perfin sui ghiacciai si trovano le bucce di pere; e se infila il cattivo tempo non si vede una stella. Questa delle stelle è stata sempre la mia smania, e le ore libere le ho sempre dedicate allo studio dell'astronomia, ragion per cui l'ingegnere Sironi mi suol dire: - Già, si sa, lei è mezzo poeta.
Ma rivederlo finalmente un gran cielo stellato, e non stare a spiare le costellazioni fra gli abbaini e i comignoli del casamento di rimpetto.
Con l’immaginazione vissi tanto in montagna, quelle prime settimane di giugno, da sentirmene quasi sazio. Non c'era valle del Piemonte o dell'Alto Adige di cui, compulsando le guide, non conoscessi vantaggi e svantaggi, fauna e flora ed angoli visuali verso terra e verso cielo.
Fu dunque una piacevole sorpresa, come se mi preparassi a una seconda villeggiatura, quando invece che per la montagna combinai per il mare.
Avevo letto nella piccola pubblicità della Gazzetta un'offerta di questo tenore: “Casetta sul mare, lontana abitato, due letti, affittasi prezzo modicissimo”. Avevo quasi vacillato, vedendomi sfavillare davanti agli occhi tutti i mari d'Italia. E che immensità di cielo sull'acque divenute violacee a sera! Altro che le strisce di azzurro ritagliate fra i picchi! A ripensarlo, il paesaggio di montagna mi pareva un po' ridicolo coi costoni dei monti come lame per sforbiciare il cielo. Invece questo cielo su tutti i mari me lo figuravo così grande che il Padre Eterno, con un po' di buona volontà, ci avrebbe potuto alloggiare anche la Croce del Sud.
E fin dal primo momento ero stato sicuro che questo era il mio destino e che l'affare si sarebbe concluso senza difficoltà. Due giorni dopo vennero a trovarmi i proprietari della casetta. Io avevo dato ordine a Cesira di non girar per casa cogli zoccoli, e m'ero predisposto a riceverli degnamente, seduto allo scrittoio, coi baffi ben curati e il mio globo celeste a sinistra e un artistico disordine di atlanti e di libri davanti a me. Mi accorsi che l'insieme fece buona impressione sui visitatori. Erano un vecchietto ed una vecchietta, e entrarono titubanti, quasi in punta di piedi, ed esitarono un poco prima di mettersi a sedere, come se fosse tropp'onore.
- Noi - cominciò dopo un poco il marito - non vogliamo ingannare nessuno. E lei, egregio signore ...
- La casetta - interruppe la moglie che aveva gli occhi neri ancora scintillanti e che certo temeva un esordio maritale un po' prolisso - è modesta ma graziosa. Nessuno dei due mostrava gran piacere di sentir discorrere l'altro, e spesso, per rubarsi la parola di bocca, vennero a cortesi battibecchi. Lui si chiamava Cesario, lei Renata. E questi nomi venivano fuori ad ogni tratto, in un'ora e più di conversazione esplicativa.
“No, Cesario, lasciami dire un momento ... “
“Ma, Renata, bisogna spiegare più esattamente al signore ... “
Lui, che si vantava galantuomo di stampo antico, pareva non mirasse che a deprezzare la sua proprietà; lei, non potendo altro, ne esaltava la salubrità e la bellezza poetica. Io, qualunque cosa dicesse 1'uno o l'altro, mi sentivo sempre più invogliato a concludere. La casetta non aveva che quattro vani, due a terreno e due sopra; con due letti uniti che volendo si potevano dividere (uno per me, e uno, nella stanza accanto, per la donna di servizio); era intonacata di quasi bianco; senza luce elettrica; senza altra suppellettile che quei due letti, una tavola quadrata, alcune seggiole, le indispensabili stoviglie di cucina. L'abitazione più vicina era a circa un chilometro, e tutto intorno non c'era che pineta, tutto innanzi, presso a poco a un tiro di schioppo, non c'era che mare.
Per arrivarci dalla stazione si faceva un bel po' di strada rotabile, un paio d'ore; poi un sentiero lunghetto fra sterpi e macchie. Queste cose mi diceva Cesario quasi scusandosi dell'audacia di offrire un simile ricovero; e io sgranavo gli occhi pensando che il paradiso l'avrei fatto così.
Renata se n'accorse, e intervenne:
“Per un signore solo che vuole davvero rimettersi non c'è nulla di meglio. Mancano i divertimenti, i balli, i bagnanti; ma bello è bello. Cielo e mar”.
Io, udendo vantare il cielo sul mare, mi sentii letteralmente torcere le viscere. Mi struggevo come un sepolto vivo che ricordi la luce ed ebbi una gran fretta di firmare il contratto, di prendere in consegna le chiavi e di pagare tutta la pigione anticipata perchè non restasse ombra di dubbio sul mio diritto.
Ma si! mi toccò ancora forse un quarto d'ora di disputa fra marito e moglie sulla strada più conveniente per arrivare alla casuccia. Lui mi voleva fare scendere a Sarzana, lei preferiva "senza discussione" la stazione di Carrara. Cesario squadernava una carta topografica meticolosamente disegnata con inchiotro di China, e Renata scoteva la testa e si voltava dall'altra parte compassionando quella testardaggine di bambino. Io ormai non sentivo che un ronzio incomprensibile, ed ero affatto svagato immaginando la solitudine sul Tirreno.
Quando ne ebbi abbastanza e vidi venuta l'ora di tornare in ufficio dissi: - René. Mi pare che la carta del sig. Cesario sia fatta con molta accuratezza. Me n'intendo io un poco. Quando sarà il momento esaminerò il prò e il contro e sceglierò fra Sarzana e Carrara.
- Sa? - disse con mitezza Cesario, un po' lusingato, mentre finalmente mi porgeva contratto e chiave e si accingeva a firmare una ricevuta per 750 lire - questa benedetta questione di Sarzana e Carrara s'è ripetuta tutti gli anni fino al momento di scendere dal treno e poi tutto il tempo della villeggiatura fino al momento di ripartire. Così abbiamo deciso piuttosto di affittare. Per non leticare.
- Però - interloquì un po' irritata la moglie - devi riconoscere che alla fin dei conti s'è fatto come consigliavo io.
- Ah questo sì - fece il vecchietto alzando gli occhi verso di me e sorridendo garbatamente.
Di arsura e di stordimento n'ebbi a volontà nelle settimane successive. Via via che il termometro saliva la mia salute scendeva, e presto, disgustato ed afflitto da digestioni tormentose, mi ridussi a nutrirmi di acciughe, d'insalatine, di un po' di mostarda di Cremona: roba che mi solleticava il palato e finiva di mandarmi in malora lo stomaco.
Quando tornavo in ufficio nel dopopranzo mi sentivo un elmetto di ferro tra pelle e cranio e, lungo come sono, mi pareva tante volte di tentennare come un'antenna.
L'ingegnere Sironi non mi parlava più di ipofosfiti, da quando gli avevo annunziato con un certo sussiego: "Sa, quest'anno vado al mare". Alla spicciolata ne informai pure i colleghi.
- Si vede che ha bisogno di riposo - diceva qualcuno.
- Infatti - rispondevo come se nulla fosse - vado al mare. Ho preso una villa in affitto.
- Una villa sul mare? Di questi tempi è un gran lusso.
Devo dire che provavo un certo gusto a soffrire, a sentirmi morire, per pregustare meglio l'allegrezza della resurrezione. Leggevo attentamente i bollettini meteorologici e i capicronaca sull'estate eccezionale, e m'impazientivo vedendo che il solleone indugiava a raggiungere il massimo storico di 38 all'ombra. Non cercavo più di farmi forza quando mi sentivo palpitante e angosciato, col respiro frequente e tremante di un pesce tirato a secco su una spiaggia rovente. Anzi, me li esageravo quei patimenti, me li studiavo bene bene per rendermene conto e potermene ricordare dopo la rinascita. Chi non conosce il piacere perverso di sentirsi straziare dal mal di denti, con una vecchia rivista illustrata sotto gli occhi che non leggono e vedono appena, quando s'è già nell'anticamera del dentista e si aspetta di minuto in minuto il principio della fine.
Tutti, anche senz'avvedersene, fanno questa specie di ragionamento: "è molto bello sofirire atrocemente, quando si sa che fra poco non ce ne resterà che il ricordo ". E fanno pure quest'altra specie di ragionamento: "Si capisce che il dentista si farà pagare salato. Ma se lo merita". Verso sera andavo lungo il Naviglio, e mi sporgevo dal parapetto guardando quell'acqua tepida, morta. La chiamano acqua!, pensavo sardonicamente. Ovvero alzavo gli occhi al cielo, color di lavagna, con le prime stelle come punti di gesso. Lo chiamano cielo! Ma di tutte le immaginazioni m'era diventata più familiare quella del pesce tirato a secco, che affanna e si contrae, tutto un muscolo malato, per vedere se non gli riesca di dare un tuffo nell'acqua.
Supponiamo - almanaccavo oziosamente - che l'azienda dell'ingegnere Sironi sia la rete del pescatore. Cerchiamo una maglia rotta, una porta socchiusa. Trovata. Il pescatore è un po' distratto e affaccendato; sta ammonticchiando nei panieri tanti pesciolini più piccoli di me, tanti pescioni più grossi di me; io ho giusto tanta forza quanta ci vuole per guizzare tre quattro volte. Arcuo la schiena, faccio un balzo lunghetto, un altro più corto. Ahi che la rena mi scotta e ne sento granelli dentro le branchie come punte di spilli abbrustoliti. Ci arrivo? Il mare è a due, tre spanne da me; tre quando l'ondicella si ritira, due quando avanza sciaguattando con la bava del vento. No che non ci arrivo.
Vedo la mano pelosa del pescatore che s'avvicina. Ma ecco uno sbuffetto più robusto di vento. Che cos'è questa piccola frustata sul capo? che cos'è questa parete d'azzurro più fondo, più mobile, che vedo davanti ai miei occhi disseccati? Un altro spruzzo d'acqua salata mi batte la coda. Gran Dio del mare e della libertà! un ultimo sforzo, un'ultima vibrazione. Ci siamo. Tremando, d'improvviso, m'accorgo che tutto il mio corpo, dal muso alla coda, è immerso, è sommerso.
Stupende profondità, scogli coperti di capigliature ricciute, alghe di seta su cui è così voluttuoso strisciare per un attimo col mio ventre lucido e bianco, zone intermedie ove la luce del meriggio diventa delicata come un'alba! E quest'aroma di sale e di generazione che m'invade le branchie e il muso, che mi fa sgranare gli occhi, che m'acumina le squame e me le lustra a una una.
C'è nulla di più insipido e scorante del cosiddetto profumo di rosa? di più cadaverico dell'odore di terra dopo la pioggia? Odore di verminaia.
Se l'ingegnere Sironi avesse potuto leggermi dentro queste mie farneticazioni mentre gli porgevo le carte per la firma, non credo che m'avrebbe più detto: - Già, lei è mezzo poeta. Forse m'avrebbe licenziato.
Sebbene il pesce si vendesse a prezzi proibitivi, verso la metà di luglio dissi a Cesira che non avevo voglia di mangiar altro. Quando avevo tempo bighellonavo nei mercati e mi fermavo davanti alle mostre dei pescivendoli per ammirare quelle felici creature. Ammiravo l'ingegnosità della sogliola che s'è appiattita per farsi toccare dall'acqua sulla superficie più estesa possibile, in modo che solo il minimo possibile del suo corpo resti privo di quel festoso contatto. Si vedeva bene che l’ideale di questa bella creatura consiste nel somigliare alle alghe, verdi, translucide, impregnate d'umidità.
Più ancora mi piacevano gli scrofani, mostruosi, con le teste spropositate, irte d'aculei - fantasticavo - per ferire la massa d'acqua e squarciarla e nuotare più presto, col muso grande, spalancato per ingoiare in furia l'acqua fresca, con gli occhi tondi sbarrati in cima alla testa per vedere, per vedere sempre più l'azzurro del fondo. E le conchiglie ritorte, concave, complicate di labbra color di rosa, di labirinti, di nascondigli per succhiar 1'onda e non lasciarla andar più, per centellinarla come un liquore prezioso, per ruminarla come un fieno fiorito!
L'odore che veniva da quei banchi era certo un poco avariato, eppure prometteva bene. Io non vedevo il mare da quindici anni, dal tempo della gioventù, e gran nuotatore non ero mai stato. Ma senza dubbi sapevo ancora tenermi a galla, e sbracciare; forse sapevo ancora restare qualche minuto secondo sott'acqua.
Minuti secondi? Minuti interi ci volevo restare, lunghi come eternità, con queir incredibile strepito agli orecchi, con gli occhi sbarrati senza palpebre, e uscirne grondante, coi baffi spioventi, con sapore di sale in gola e col cuore in tumulto, non più per deperimento nervoso ma per eccesso di gioia.
Vado raramente a teatro, che costa troppo e dopo una giornata d'ufficio non sento bisogno di luoghi chinsi. Pure in quel luglio non seppi resistere all'attrattiva di un cartellone che diceva: La donna del mare.
Ci andai per il titolo della commedia, come andavo spesso al mercato del pesce. La sala calda e stipata mi dette un'oppressione insopportabile; la scena era lontana; sentivo poco; vedevo meno e cascavo di stanchezza e di sonno.
A intervalli quasi regolari la celebre attrice si lamentava dell'acqua immobile del fiord e rievocava il mare libero. Allora la mia attenzione si galvanizzava per un poco, poi tornavo a socchiudere gli occhi.
Una volta afferrai tutta una frase cosi: "Io credo che se gli uomini si fossero abituati da principio a vivere sul mare - o forse nel mare - noi saremmo più perfetti. Non solo migliori, ma più felici".
Io mi esaltai per la giustezza e l'audacia di questo pensiero, e dissi a voce alta: bene!
Il teatro era silenzioso. Evidentemente la mia approvazione era stata intempestiva, perchè alcuni spettatori, malgrado il rispetto per la celebre attrice, o forse appunto per questo, mi. Zittirono.
Cosi vennero gli ultimi giorni di luglio, i giorni del programma e dei preparativi. Il programma fu presto fatto; dormire finché ne avessi voglia, mettermi in costume e babbucce, buttarmi nell'acqua e asciugarmi al sole, ributtarmi nell'acqua e riasciugarmi al sole. Siesta meridiana; altri bagni ed altro sole. Che potesse venire il cattivo tempo non mi passava nemmeno per la mente. Passeggiata vespertina, in accappatoio, nella pineta. Pesca all'amo. Cibo leggero e sostanzioso, con prevalenza di pesce. La sera studio d'astronomia all'aperto. Perciò acquistai una bella lampada elettrica tascabile, nichelata, molto potente; per consultare l'atlante sulla spiaggia. Mi procurai alcune pubblicazioni su Einstein per vedere se, rimesso in forze, mi riuscisse di raccapezzarmi in codesta benedetta teoria della relatività.
Il programma semplice di vita comportava un baule molto leggero, ove poteva trovare posto anche la poca roba di Cesira. Alla quale, mentre andava facendo il baule, sconsigliai recisamente i bagni di mare, che sono pregiudizievoli alle persone reumatiche. In realtà non volevo vedermela fra i piedi lungo il Tirreno, di cui mi consideravo solo ed esclusivo signore.
Essa rise a più riprese - tanto le parve ridicola l'idea di farsi vedere in costume da bagno - e, rifattasi seria, mi disse: - Badi lei piuttosto a non aggiustare la pignatta di coccio col martello di ferro. Intendeva dire che il mare è controindicato ai nervosi e che ero un bel tipo, io che andavo in villeggiatura al mare giusto perché il dottor Ferri m'aveva prescritto di passar quindici giorni in montagna. Sarei diventato furioso come un demonio, pretendeva, (io che sono la pazienza in persona), e i nervi m'avrebbero ballato la tarantella. Queste rimostranze me le ripeteva quasi quotidianamente dal giorno del contratto, e non me le risparmiò nemmeno il 31 luglio, quando m'ero già congedato dall'ingegner Sironi e dai colleghi e mancavano appena alcune ore alla partenza.
- Dia retta a me - brontolava con la testa dentro il baule.
- Non c'è meglio riposo che in casa propria fra i propri comodi. Quest'uso di villeggiare l'hanno inventato gli affittacamere.
- Almeno - soggiunse quand'ebbe finito, e si fu persuasa ch'ero irremovibile - non si scordi le chiavi.
- Sicuro - pensai - la chiave e la pianta topografica.
E pensai sorridendo che ora mi toccava di dar ragione a Cesario o a Renata e di scegliere fra il biglietto per Sarzana e quello per Carrara. Né la cliiave né il contratto erano nel cassetto della scrivania, come mi pareva sicurisimo. Avevo certo nascosto la chiave dietro una fila di libri e il contratto in mezzo a un atlante, come facevo spesso per le carte di valore e i biglietti di banca, da quando avevo letto, non so dove, che questi ripostigli sono più sicuri dei cassetti.
Nemmeno li. Mi strinsi la testa fra le mani, cacciai Cesira di stanza, e dopo travagliose riflessioni mi ramme
tai d'aver chiuso accuratamente il contratto in una busta gialla, prima ancora che Cesario e Renata se ne andassero. Era poco. Corsi in ufficio, e vuotai tutta la scrivania. Nulla.
I giorni che seguirono preferisco non raccontarli, tanto quella memoria mi accascia. Fu disfatto il baule, furono buttati all'aria armadio e cassettone, si frugò in ogni piega, invocai un'ispirazione, credetti in Dio.
- Dia retta a me - diceva Cesira un po' commossa. - Non c'è meglio riposo che in casa propria, fra i propri comodi.
La odiai, la sospettai, fui sul punto di licenziarla. Le proibii severissimamente di ripetere quella stolta giaculatoria. Alla fine del settimo giorno mi detti per vinto. Che potevo fare? partire per Sarzana o per Carrara e mettermi ad esplorare a piedi tutta la regione finché non avessi scoperto e individuato la casetta? E se non vi fossi riuscito, poiché la casetta, come sapevo dai padroni, era un po' discosta dal mare e nascosta fra i pini? E, riuscito che fossi, quale fabbro m'avrebbe fatto la chiave senza alcun documento che comprovasse il mio diritto? E come sopportare il ridicolo di andar girando per città e villaggi domandando indicazioni di certa casuccia appartenente a certi Cesario e Renata?
In tutti quei giorni non ero mai uscito di casa, anzi avevo lasciato chiuse le persiane di strada perché nessun conoscente dubitasse della mia partenza; non avevo, posso dire, toccato cibo né preso sonno. Ero ridotto come una larva, con le guanfossate da cui emergeva il profilo tagliente delle mascelle; e ogni sforzo mi pareva inumano; perfino l'ultima speranza mi pesava come una croce.
L'ultima speranza era che all'amministrazione della Gazzetta avessero il cognome e l'indirizzo di Cesario e di Renata. Lo trattenni per scrupolo, quest' ultimo filo, sino al giorno seguente, e nell'ora della più fiera canicola, facendo un percorso paradossale in cui contavo di non incontrare nessuno, mi recai, male in gambe, a quel giornale, per consultare la collezione e rivolgere a un impiegato la domanda.
Di un tratto - a un angolo ombroso che rivedrò sempre davanti ai miei occhi - mi accorsi con indicibile stupore di aver un solo desiderio vivo e superstite dentro di me: che quell'ultima ricerca fosse vana e che la sera io potessi giacere, totalmente e definitivamente sconfitto.
Ripresa la via, vidi pochi passi più in là una bottega di pescivendolo da cui veniva un puzzo acuto, sto per dire strillante, di roba marcia: da tapparsi il naso.
Il mio desiderio fu facilmente soddisfatto. Non avevano più, o non trovavano più, il cognome e l'indirizzo di Cesario e di Renata. Rientrai a casa quasi svenuto. Cesira fu molto amorevole e pronta. Mi fece frizioni e impacchi, mi preparò un cordiale, m'aiutò a mettermi a letto.
Dormii dodici ore, e a mattina altissima mi svegliai per il fetore che avevo sentito sognando di sogliole marce, di scrofani orribili e mortuari, di conchiglie piene di sudiciume. Da dieci a dodici ore dormii anche nelle notti successive. Giorno per giorno mi tornava la calma, e respiravo con meno affanno. Non facevo nulla. Rimettevo stoicamente in ordine le carte e i libri scompigliati pel tanto cercare.
Sull'imbrunire uscivo quatto quatto, e andavo un po' a spasso sui bastioni. Il tempo era spietatamente sereno, e il lastrico scottava. Mi piaceva vedere ingiallire lentamente ai margini le foglie degli ippocastani, e contavo, senza rincrescimento, i giorni di vacanza che erano già finiti e quelli che mi separavano ancora dalla ripresa del lavoro. Era passato da poco Ferragosto, quando una sera incontrai l'ingegner Sironi.
- To' - mi disse - lei è rimasto in città?
- Io sono al mare – risposi, Dio sa perché, con un certo fare spavaldo.
Egli restò interdetto; e io, temendo d'averlo oft'eso o di parergli matto e licenziabile, aggiunsi, sorridendo come potei: - Io sono al mare. O il mare non esiste. Tutto è relativo, signor ingegnere.
Anche lui sorrise per convenienza, e mi di.sse ancora: - Se crede di riprendere servizio prima del tempo ... Lavoro ce n'è. Faccia come crede. Io, quella sera, a Ietto, piansi come un bambino. Inghiottivo le mie lacrime, che erano amare e salate. Amare e salate come l'acqua del mare. Dicevo - singhiozzando piano perché Cesira non sentisse - ch'ero un disgraziato, buono a nulla, un povero diavolo solo al mondo, e che non mi restava se non invecchiare e morire.
La mattina dopo tornai in ufficio. Ai colleghi dissi ch'ero stato al mare sino a Ferragosto, ma l'aria di mare mi faceva più male che bene e avevo interrotto a mezzo la villeggiatura. Essi rispondevano: - Meglio così - ma, francamente, mi trovavano troppo poco abbronzato per aver passato quindici giorni al mare. Il caldo a poco a poco si mitigò. La sera, al Parco, si respirava.
Ai primi di settembre io stavo già quasi bene, come sempre mi avviene sul finire dell'estate. A settembre avanzato cadde finalmente qualche goccia di pioggia. Allora il mio sarto si ricordò di riportarmi il vecchio impermeabile che gli avevo dato a riparare in giugno. Lo feci passare. Sul braccio destro portava l'impermeabile, e dalla mano sinistra mi porgeva, col decoroso orgoglio del galantuomo che non s'appropria la roba altrui, una busta gialla, chiusa, gonfia, senza soprascritta. L'aveva trovata in tasca il giorno avanti. Io la riconobbi a prima vista, e non l'ho aperta mai.
Quella che non m'è più capitata fra mano è la chiave.
Più tardi mi scrisse da Genova Renata, che si chiama Aimonino, pregandomi di mandargliela come campione senza valore all'indirizzo così e così. Risposi narrando brevemente e lealmente l'accaduto e offrendo, com'era giusto, di rimborsare la spesa per la nuova chiave e la nuova serratura.
Ne ebbi una lettera firmata da tutti e due. Si condolevano ampiamente del disgraziato contrattempo, e rifiutavano l'indennizzo. Ci sono al mondo più persone buone e gentili che generalmente non si creda.
Sebbene i miei conoscenti, e forse anche l'ingegner Sironi, pretendano ch'io sia un uomo un po' strambo, questa è in fin dei conti l'avventura più bizzarra che mi sia toccata in vita mia.
Per il resto i miei giorni somigliano l'uno all'altro, e sempre somigliarono. Riconosco che la prima settimana d'agosto, quando cercavo, tempestando e gemendo, il contratto e la chiave, fu proprio sciagurata e miserabile. Ma in luglio, quando mi pareva d'essere piatto come una sogliola e imbevuto d'acqua salata come un'alga, in luglio, con tutti gli spasimi veri e immaginari che mi davano i nervi, ho goduto il mare, sono stato nel mare come nessuna creatura terrestre.
Se ripenso a me stesso, non ho nulla in contrario ad ammettere che mi faccio un po' di pietà; ma quelli che passano l'estate a Viareggio o al Lido, nel modo che sappiamo, quelli mi fanno schifo.
G A. Borghese