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La casa di Garibaldi a Caprera.
La casa di Garibaldi a Caprera.
Le 7 immagini che accompagnano questo testo sono litografie del Rossetti e sono state tratte, e da me ottimizzate per il Web, da Antonio Balbiani, Storia illustrata della vita di Garibaldi, Milano 1860
Testo da G. Antonio Borgese, Garibaldi poeta, in La vita e il libro, pp. 262-272, Torino, 1911
Ferito e prigioniero ad Aspromonte, Garibaldi compie un poema autobiografico. Facit indignatio versum: l'indignazione dell'eroe, non l'arte né il genio del poeta, detta i versi stridenti d'ire contro i preti i moderati e i tiranni, acri di speranze deluse, gonfi di ideali ostinatamente pugnaci contro la necessità del fatto. Quasi cinquant'anni dopo, il dottor Curatolo, possessore dell'autografo, pubblica il poema, aggiungendogli un carme alla morte ed altri versi inediti, e premettendogli una prefazione di commovente fanatismo garibaldino e patriottico, di fresca ingenuità letteraria. Malgrado l'ingenuità, e forse appunto per questa, il dottor Curatolo dice cose di onesto buon senso: “Coloro i quali volessero giudicare del poema di Garibaldi dal punto di vista letterario, e contare nel verso il numero delle sillabe, mostrerebbero di non comprendere tutta l'importanza, che ha dal lato psicologico ed umano il documento, che oggi è consacrato alla Storia. Le anime piccole tacciano!...
Padre Giovanni Pantaleo, cappellano di Garibaldi.
Padre Giovanni Pantaleo, cappellano di Garibaldi.
Ha ragione. La sua colpa - colpa venialissima, per la bella qualità dell'entusiasmo che l'ha generata - comincia quando, con alate parole, invoca l'ombra di Giosuè Carducci e la persona di Giovanni Pascoli.
“Oh grande anima di Giosuè Carducci, giudica tu, dal cielo della gloria, del Poema di Giuseppe Garibaldi! Parlaci tu, per il tramite di colui che degnamente ti successe, del Poema dell'Eroe! Forse non per caso, i fati mi presero per mano e vollero che la Musa del Duce dei Mille fosse consacrata alla Storia nella tua stessa Bologna, da quei medesimi torchi onde fu impressa e tramandata ai posteri l'opera tua!”.
Santa retorica, ma che, come tutte le sante retoriche, perde la santità per istrada. Carducci, che veramente si andò formando una ruggente anima garibaldina, se potesse parlare a proposito del Poema, ripeterebbe quel che altra volta disse con commosso umorismo: Garibaldi aver fatto di tutto per l'Italia ed anche versi. Ma non può parlare, e dal cielo della gloria non può giudicare se non per una metafora del dottor Curatolo; ed, anche se potesse, non giudicherebbe per il tramite di Giovanni Pascoli. Strana e caparbia illusione questa di una tradizione letteraria che si perpetua attraverso vicarii infallibili, i quali ex cathedra, e, nel caso speciale, dalla cattedra di Bologna, proclamino la volontà divina di Dante o di Carducci! Fittissima cataratta questa che annebbia gli occhi dei letterati ortodossi, facendo loro impossibile di vedere che Giovanni Pascoli ha continuato, se mai, sviluppandola, l'opera del Carducci, laddove egli men pensava d'essere carducciano - nel sentimento idillico della natura e nei poemetti georgici e umanitarii - mentre la prosecuzione del Carducci patriotta e partitante è rimasta uno sforzo in massima parte inane, cosi nel Pascoli delle Odi e degli Inni come nel D'Annunzio della Canzone di Garibaldi e del libro di Elettra!
Invitato con tanta foga dal dottor Curatolo, Giovanni Pascoli non ha saputo esimersi dal dovere di manifestare la volontà carducciana intorno al poema di Garibaldi. Ed ha pronunciato dalla cattedra – si direbbe quasi dal trono avito - un discorso molto fine, così fine da parer sofistico: un ricamo a frastagli capricciosi sulla trama del grande discorso garibaldino di Carducci; un parallelo cavilloso e minuzioso tra il poema garibaldino e l'Iliade, ricalcato con imbarazzo e con stento sul parallelo lirico, che Giosuè Carducci tracciò fra le gesta di Garibaldi e i miti degli eroi. “Più viva ..”, fino a questo estremo giunge il Pascoli, “più viva è la somiglianza per chi consideri che il poetare di Garibaldi era durante il profondo e solingo ardore dell'ira... Non gli era stata rapita la schiava dalle belle guancie, sì la terra diletta, la dolce Nizza, che mal volentieri andava alla tenda dell'imperioso Agamennone. E c'era stato come uno scambio, e allora e ora. Allora il sire aveva restituita bensi Cryseide al padre, ma voluta e rapita Criseide ad Achille; ora quest'altro sire inimichevole aveva data la Lombardia e presa Nizza e Savoia.
Onde tanto l'eroe Tessalo quanto l'eroe Italo prorompono in contumelie e presagi di morte ...
Ora questo è scherzoso. Ma è anche pericoloso.
Fra Pantaleo benedice Garibaldi.
Fra Pantaleo benedice Garibaldi.
Perché il comune lettore, trascurando quel tanto di vero che nella prosa pascoliana c'è - una qualche somiglianza tra Garibaldi e Achille, come tra Garibaldi e un altro qualunque eroe, poiché da tutti gli uomini, e, a maggior ragione, da tutti gli eroi emana lo stesso spirito di divinità e si sprigionano le stesse forze di natura - trascurando questo, e dimenticando che dal parallelo all'intelligenza corre quanto corre dalla metafora al ragionamento, potrà credere che il Pascoli abbia voluto ciò che espressamente non volle: paragonare il valore estetico del poema di Claribaldi a quello dei poemi omerici. E, se così fosse, bisognerebbe prestare ascolto a quelli che già si scandolezzano e van borbottando che chi ha pubblicato il poema ha mancato di rispetto a Garibaldi.
Ma no, lasciamo stare l'Iliade e l'anima belluina di Achille. Il poema di Garibaldi è quello che è, senza nessuna possibilità di paragone che non lo svisi: è un canto barbarico, nel piccolo senso e nel sublime senso che può avere la parola barbarie. Che letterariamente Garibaldi non fosse una cima, è cosa troppo facile a notarsi, e non solo da chi, per usar l'espressione del dottor Curatolo, conti le sillabe nel verso.
Se la prosodia è mal sicura, se l'organismo sintattico è squilibrato, tutto, in genere, il colorito dello stile è incongruo. Il guerriero-poeta sapeva a memoria i Sepolcri e l'eco dello scalpitante endecasillabo foscoliano gli occupava l'orecchio, mentre l'infantile semplicità dell'animo suo male si componeva con quella compiutissima tecnica, la quale, come giustamente ha osservato il Pascoli, era quasi l'ultima forma di un'arte perfetta e non s'adattava all'ispirazione di un poeta primitivo. La fronda, già parificata dalle cesoie, s'inselvatichisce; la magra e schietta ghirlanda della poesia dotta s'acuisce di pruni, e si complica d'erbe scapigliate. E come se un centauro calcasse le dita villose sopra un cembalo settecentesco.
E il poema non è un poema. Non solo la imitazione foscoliana, anche l'incapacità, propria all'uomo di azione immediata, di organare il fantasma e di meditare sul fatto, fa si che nei ventinove canti del poema non sia mai narrato evidentemente un episodio o una battaglia. Invano leggiamo titoli come Sant'Antonio, Montevideo, Roma, Ritirata, Anita, Il '59, Calatafimi, Palermo, Milazzo, Battaglia del Volturno, Sarnico, Aspromonte. Non appena un ricordo preciso affiori sulla coscienza del poeta, il gurgite dell'emozione lirica lo ingoia. Il fatto d'armi o la sciagura d'amore non è altro se non la scintilla al cui contatto esplode lo sdegno e la speranza: giusto il contrario dell'arte omerica. Deride ferocemente le turgide e polpute sembianze del Levita,; infuria contro i Moderati:

È sulla faccia della terra sparso
Di traditori il seme; essi sovente
Di Moderati hanno l'assisa, e sempre
Ostentazione di virtude: il volto
Camaleonio mal nasconde il tetro
Dell'alma umor, e per sventura ovunque
Sono la feccia dell'Inferno, il tifo
Divorator della famiglia umana;

denuda sotto il vel del Galant'uom, la pingue, fallace ipocrisia; imperversa contro coloro che barattarono Nizza:

Chi vi vendette non vi vide, o sommi
Baluardi d'Italia, ei di paludi
Limo aveva nell'animo e i codardi
Abitatori di pantani e vili.
Che lo sorresser nella scellerata
Impresa fedifraga, il puro etereo
Aer, che spira dalle imbalsamate
Valli, non respirarono.

Il combattimento di Santa Maria a Capua.
Il combattimento di Santa Maria a Capua.
Il canto segue al canto come un singulto al singulto; la parola divien grido; l'invettiva soffoca il racconto. Sotto un trasparente velame d'epopea tumultua caoticamente il furore di parte e di patria che trovava già o stava per trovare il suo poeta in Giosuè Carducci. Il contenuto dei canti garibaldini coincide perfettamente col contenuto dei Giambi ed Epodi: la spasmodica e virulenta impazienza degli Italiani nel fosco decennio che s'apre con la proclamazione del regno, culmina con Lissa, si chiude con Porta Pia.
Materia d'arte, e non arte, dunque: iraconda confessione dell'eroe piagato, che, pur restando allora ignota, doveva, per invisibili tramiti, propagarsi nel cuore dell'Italia e scuotere dal suo torpore erudito la Musa di Bologna, consegnandole in mano la fiaccola dell'amor patrio e dell'odio civile. Ma, poiché la luce dello spirito ignora le distinzioni schematiche, e, avvolgendo di sé l'eroe, non può negarsi tutta al poeta, anche nei versi di Garibaldi alita non so quale oscura e misteriosa grandezza. Lo sdegno cieco, che colpisce l'avversario senza tener conto della necessità cui anche l'avversario soggiace, l'amore quasi sensuale per la bella Italia schiava, il divino, intransigente orgoglio della missione compiuta, la fremebonda nostalgia della missione da compiere si aprono talvolta impetuosamente uno spiraglio attraverso gli ingorghi dell'espressione stentata, e prorompono in qualche interiezione lirica di smisurata risonanza. “Oh lo sappiamo, Sire!„ grida Garibaldi a Vittorio, “e l'Italia noi serviam, non voi”. “V'è forse”, chiede nell'ebrietà quarantottesca, “v'è forse - altro da fare nella vita, quando - la patria è schiava, che cercar il modo - di liberarla e preparare un ferro - per sterminare i suoi tiranni?”. Ripensando ad Anita, il suo tono diviene istintivamente canoro, e il verso irto si acqueta in una commossa venustà elegiaca:

Morte, io sorrisi al tuo cospetto! e questa
Certamente non fu la prima volta.
…....
Io lo seguia, non conscio della vita,
lei sorreggendo all'ospital dimora.

Ma quasi tutto il sesto canto - il ritorno dall'America - è soffuso di eroica tristezza. La memoria della gesta compiuta, il pensiero della patria opprressa, l'immagine della nave carica di fati ondeggiano in un ritmo ansioso e pur solenne, cui non credevamo che l'arte del rozzo verseggiatore potesse adergersi. Un ferro canta all'Italia:

Un ferro
Noi ti portammo e non tesori, e l'alma
Di chi pugnava in Sant'Antonio.
...
Dondola i fianchi maestosi, e solca
Leggera l'onda inargentata e azzurra,
Bella “Speranza”! Il tuo nocchier non conta
Portar d'Italia la fortuna in seno
De' suoi cantanti passeggier, ed essi
Ben venturosi, Libertà cercando.
Troveranno una tomba.

Entrata di Garibaldi a Napoli.
Entrata di Garibaldi a Napoli.
Anche la poesia non ha potuto resistere a questo affascinatore di destini.
E, tuttavia, il valore letterario dei versi garibaldini non è nei pochi e semplici fiori di bellezza che offre come per caso questo desolato sterpeto; è nella sua significazione di documento per la storia letteraria d'Italia. Noi parliamo di leggenda garibaldina, di epopea dei Mille, di mito del risorgimento; paragoniamo l'impresa di Marsala alla conquista degli Argonauti; rifuggiamo dal renderci conto della sostanza reale di quegli avvenimenti, e preferiamo, con foga lirica che cinquant'anni di retorica utilitaria non son bastati a smagare, travederne le linee in un nimbo iridescente di favola. Chi ha dato l'esempio di questa idealizzazione mitologica del Risorgimento, che è poi la sola religione degli italiani moderni? Forse Carducci nel famoso discorso, ove con pagine di artificio letterario, ma anche con voli di vorticosa poesia, scioglieva i contorni del fatto recente nella nebbia della saga futura? o Cavallotti, paragonando i morti di Mentana ai morti delle Termopile? o Victor Hugo, che, molt'anni prima di Pascoli, scrivendo con quella sua enfasi ruinosa e folgorante di Garibaldi eroepoeta, ripensava ad Achille, a Giuda Maccabeo, al paladino Orlando, a Federico II?
Il Dittatore della Sicilia stringe la mano al re d'Italia.
Il Dittatore della Sicilia stringe la mano al re d'Italia.
Né questi, né altri, e nemmeno il biografo Guerzoni, e nemmeno il popolino di Napoli che vide nel conquistatore un santo o uno stregone. Colui che compì l'impresa ne creò anche il mito, e tutti gli elementi della leggenda garibaldina - quale, in versi e in prosa, fu cantata dall'anno del riscatto fino alla dannunziana Canzone di Garibaldi - erano già maturi nella mente dello stesso eroe. Ricordate colui che porta seco un “sacco di semente”, il nuovo Cincinnato? Ecco Garibaldi che grida, nel canto decimoquarto: Vanga! Vanga! Vanga! Ripensate al donatore di regni? Ecco Garibaldi che nel canto ventiquattresimo sogghigna: A dar battaglia ei viene – a chi del Mondo la prima corona - pose ai suoi piedi.
Vigorosissima è in Garibaldi la tradizione classica della morte per la libertà: E si trafisse all'Utican simile - al servir preferendo inclita morte... - Egli a padron non serve. - E la libertà preferisce alla vita”. Insistente, come l'immagine di Catone, è l'immagine dei Fabii e dei trecento di Leonida: “Ove s'inoltri - del Salto alle spumanti cataratte – udrà de' suoi tai fatti, che le gesta - uguaglian dei trecento di Leonida. Io vidi - fatti da Fabio o Leonida, e turpi - mercati ed infinite codardie”. La gesta americana e la siciliana sono già per Garibaldi simboli sospesi nell'eternità, eventi miracolosi senza connessione di cause, manifestazioni d'una volontà storica quasi soprannaturale. Egli non conosce né comprende i nemici; ove appaia li sbaraglia, e non sa perché; la coscienza della sua missione e del suo diritto divino gli tien luogo d'intelligenza realistica. Simile al guerriero mitico protetto da Pallade Atena egli sfugge alla morte entro una nube. Dall'Adrio all'Appennin, dai monti al lido - Tirreno, io corsi in salvatrice nube - di generosi cittadini. Già compiuta è l'immagine virginea dei giovani guerrieri votati al canto della patria ed alla gloria della morte; già tracciata in tutte le linee essenziali l'immagine del duce, quale poi la ritroviamo nella poesia celebrativa e nella religione degli Italiani:

Dacché le falde dell'amata mia
Impareggiabil genitrice io, baldo,
Lasciai per l'erta perigliosa via
Segnata dal mio cuor, sull'uom caduto
Intenerito m'adagiai, lambendo
Le sue ferite....
Io son plebeo! Sull'incallita destra
Porto l'impronta della marra e il tedio
Delle miserie sulla fronte...
Oh! bello
Io fui in quel momento! e mi sembrai
Dominator della tempesta!

Perfin la consueta rafigurazione dell'eroe sotto specie leonina è già di Garibaldi. Egli fugge dalla perduta Roma;

Tale il Leon che si ritira, spinto
Da numeroso di shakali stormo.
Qualche volta si ferma, acciò nol creda
Timor la ciurma di codardi, e indietro
Respinge la canaglia...

*

Il riposo di Garibaldi dopo la battaglia.
Il riposo di Garibaldi dopo la battaglia.
Cosi, se il valore estetico del poema e dei canti aggiunti è tutt'altro che straordinario, se è minima - mancando ogni tentativo di obbiettività e d'indagine delle cause reali - la loro importanza di documenti storici, enorme in compenso è il loro significato per chi voglia intendere i vincoli fra la civile e la letteraria storia d'Italia. L'anima di Graribaldi era satura di motivi letterari e di reminiscenze classiche; la voga di Ossian, re delle spade e poeta, e l'avventurosa inquietudine romantica avevano tuffato in un flutto di vita quelle reminiscenze e quei motivi, fattisi, col decadere dei tempi, ornamentali. Un temperamento impetuoso e infiammabile, incapace di distinguere tra il sogno e la realtà, un temperamento eroico, insomma, compie il miracolo. L'atmosfera favolosa chi'egli respira, leggendo i suoi poeti e sopratutto i Sepolcri, ove tutta la materia classica, dalla guerra d'Ilio alla battaglia di Maratona, dalla battaglia di Maratona alla servitù d'Italia è fusa in una sintesi ansiosa, lo inebbria e lo acceca. La sua ignoranza dei fatti reali lo aiuta a vincerli: non sapendo vedere le forze avverse le sgomina. La fede nella visione leggendaria di Atene e di Roma crea la realtà leggendaria della nuova Italia; la memoria della nube che circonfonde i semidei suscita la salvatrice nube di generosi cittadini, l'immaginazione genera l'evento, dalla mitologia si sprigiona il mito.
Cosi si compivano i destini del classicismo italiano: Enea e Turno - il veltro dantesco - Ferruccio - Foscolo - Garibaldi. La letteratura diventava vita; la tradizione diventava creazione. Con Giovanni Pascoli che istituisce un parallelo tra il Poema garibaldino e l'Iliade, la vita ridiventa letteratura. Il circolo è chiuso.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?