L’Espresso, 26 febbraio 1998
Giustizia. L’adunata degli ultrà anti-procure
I Garantisti un tanto a chilo
di Anonimo Fiorentino

Da Epoca n. 141 del 1953
Da Epoca n. 141 del 1953
Il titolo del convegno, "L'interesse comune della destra e della sinistra a un rigoroso Stato di diritto" sembra uscito da un film di Lina Wertmüller. Il convegno anche. L'appuntamento dei ragazzi dello Zoo di Giuliano, che ora si fanno chiamare Convenzione per la giustizia (confraternita fondata dal duo Boato-Pera per scroccare qualche miliardo pubblico a favore del Foglio di Veronica Berlusconi), è per l'11 febbraio a Firenze, nella sala del Gonfalone del consiglio regionale toscano. Data e luogo tutt'altro che casuali: da quelle parti l´indomani si apre il Cosa 2 show, e quella che L'Espresso ha ribattezzato Donna Barbuta del Mugello si è messa in testa di dettare la linea pure alla sinistra. “Anche D'Alema”, dice Ferrara, “ha interesse a un rigoroso Stato di diritto, visto quel che potrebbe riservargli l'inchiesta sulle Ferrovie. E stato lui a commentare: "Non mi lascio intimidire". Ora, non tocca a noi dire "Giù le mani dal compagno D'Alema", ma quasi...”.
Raymond Burr-Perry Mason, scelto suo malgrado come testimonial della Convenzione, veglia sui convegnisti e indaga invano sulle troppe defezioni. Non si fanno vedere il segretario popolare Franco Marini, l'editrice sofrista Elvira Sellerio, il peon forzista Roberto Tortoli, l'ex comunista ed ex socialista Sergio Scalpelli, ora assessore ferrarista a Milano. Francesco Cossiga, fra le star più attese, si dà malato (“L'avevamo invitato”, spiega Ferrara, “perché è un garantista della prima ora, fin dalla sua nobile difesa del presidente Corrado Carnevale”). Marco Boato e Pietro Folena, trattenuti a Roma da nobili impegni bicamerali, sono presenti in spirito, sotto forma di videocassetta. Delusione tra i cronisti presenti in sala, catapultati da Roma a Firenze dai direttori di giornale amici di Ferrara (quasi tutti): “Dov'è la notizia, qui?”. Ma il pubblico è di bocca buona, ed è contento ugualmente: italoforzuti, ricconi, avvocati, massoni, tardone biondotinte, insomma il fior fiore del Polo alla fiorentina, tutti li per riabbracciare la valorosa Donna Barbuta tre mesi dopo il fiasco mugellano.
Giuliano si presenta addobbato nella solita mantella nera e scortato dal resto della famiglia: la moglie Anselma Dall'Olio e la bassotta Giustina. Baci, abbracci, strizzate d'occhio. Commozione generale all'arrivo di Sandro Curzi, altro eroe della zona: “O Sandro, io so' consigliere di AN, ma ti stimo tanto!”. E lui: “Ahò, sempre a disposizzione, er dibbattito è er sale de la democrazzia”. In rappresentanza del fronte Andreotti-Previti-Dell'Utri sopraggiungono Lino Jannuzzi e Ruggero Guarini, civettando come due vecchie zie. Chiudono la carovana Massimo Pini, ex marito di Margherita Boniver, ex boiardo craxiano dell'Iri e della Rai, ora vicino ad An, e l'abbronzatissimo Jas Gawronski, reduce dalle isole Lampados: ha scoperto il garantismo in età avanzata, nel novembre '94, quando diventò portavoce di Berlusconi e una settimana dopo arrivò il primo avviso di garanzia. Ora la compagnia è al gran completo, si può cominciare.
Da Epoca n. 249 del 1955
Da Epoca n. 249 del 1955
Apre i lavori il senatore Marcello Pera, epistemologo forzista con l'aria del becchino e la vocazione del giureconsulto, sbarcato da Roma con una mezza dozzina di consiglieri e portavoce: “I giudici attentano alla Costituzione, minacciano la democrazia, fanno rastrellamenti”. Roba da Stato etico, gentaglia che osò perfino criticare l´ottimo decreto Biondi: ma ora, per fortuna, c'è la Convenzione per la giustizia. “Il nostro”, dice il Pera, “non è uno Stato di diritto, ma di polizia. Con questa giustizia non entreremo mai in Europa. Ci vuole una grande alleanza trasversale tra destra e sinistra. L'alternativa è questa: o la Bicamerale o la malasorte”. Ovazioni anche dalla saletta attigua, collegata in videoconferenza. Ogni tanto trilla un telefonino. E’ del popolare irpino Giuseppe Gargani, giurista personale di Ciriaco De Mita, che briga via Telecom per una poltrona nell'Authority delle telecomunicazioni: mezzo Ulivo non lo vuole e lui tempesta Roma di chiamate, con la testa nascosta sotto la sedia per non farsi sentire.
Intanto parte la videocassetta di Marco Boato. Mezz'ora di telecomizio a difesa della bozza sulla giustizia, che ovviamente “rafforza l'autonomia e l'indipendenza della magistratura”. Alla fine, il pubblico superstite accoglie con un applauso l'arrivo di Fausto Bertinotti: a Firenze di passaggio, è diretto a Piombino dove lo attendono le maestranze in agitazione. “Vi ringrazio per avermi invitato, non siamo d'accordo su nulla, ma l'importante è discutere sulla base delle nostre diversità”. Gigioneggia, paraculeggia, s'inerpica sullo Stato sociale e sull'economia globale, si avventura in un parallelo fra tribunali e ospedali, si intorcina in un gomitolo di erre mosce e sociologismi da bignamino, attacca “le classi dirigenti italiane, fondamentalmente eversive, che aspirano all'impunità”. Gargani lo interrompe dalla seconda fila: “Ma allora che ci stai a fare al governo?”. Fausto lo fulmina: “Al governo ci stai tu, non io. E non è mica obbligatorio, una volta andati al governo, diventare stupidi!”. Peppino incassa e riprende le consultazioni senza fili.
Tocca a Marco Travaglio, giornalista di Micromega e del Borghese. Prende per i fondelli i promotori (“Garantisti all'italiana”). Dice che “la vera emergenza giustizia è la troppa criminalità, non i pm che indagano troppo”. Ricorda che “le leggi non le hanno scritte i giudici, ma gli stessi politici che poi sistematicamente le violavano”. In sala urli, fischi, interruzioni, qualche insulto. Ferrara placa i bollenti spiriti dei fan: “Lasciatelo parlare, siate tolleranti!”. Travaglio tira diritto: “Le vostre riforme non affrontano nessuno dei veri problemi della giustizia. La gente non vi segue, capisce soltanto che pretendete l'impunità per qualcuno. Più voi parlate, più l'opinione pubblica diventa forcaiola. Voi non lavorate per le garanzie, ma per le forche”. Nuove contestazioni, un solo applauso: quello del procuratore di Firenze Francesco Fleury, presente in incognito. Se ne andrà subito dopo.
Gargani finalmente spegne il telefonino: la nomina all'Authority è cosa fatta, può dedicarsi allo Stato di diritto. “Purtroppo la sinistra ha rinunciato alla battaglia per le garanzie, la destra non è attrezzata, dobbiamo pensarci noi del centro.
Da Epoca n. 249 del 1955
Da Epoca n. 249 del 1955
I procuratori giustizialisti vorrebbero debellare la corruzione, ma non ci riuscì nemmeno Gesù Cristo … “. Ora in sala sono tutti più tranquilli, e si danno di gomito. Parla Curzi, che si crede ancora al Mugello: “E’ pazzesco che D'Alema abbia bisogno di uno come Di Pietro per fare politica”. Entusiasmo fra il pubblico. Poi tocca a Giulio Maceratini, capogruppo di An alla Camera: ammette sgomento che “molta gente, purtroppo, la pensa come Travaglio”, e se la prende con i giudici milanesi che indagano sulle stragi: “Dopo trent'anni, si può dare la colpa a chiunque. Dobbiamo batterci contro questa giustizia cieca e brutale, che tiene in galera perfino Carlo Maria Maggi” (presunto organizzatore dell'attentato di piazza Fontana).
Da destra a sinistra, il copione non cambia. Trionfo anche per Francesco Misiani, che sarà pure una toga rossa, ma è stato trasferito e indagato per favoreggiamento di Renato Squillante: tanto basta a farne un idolo dei Ferrara boys. In un bizzarro idioma calabro-ciociaro, Ciccio sparacchia contro il “giustizialismo di Bertinotti” e perfino contro i “maxiprocessi a Cosa Nostra”, che calpesterebbero i diritti dei mafiosi. Propone di “abolire l’obbligatorietà dell'azione penale” e “una depenalizzazione immensa, anche dello spaccio di droga”.
Poi confessa: “Io, quando Di Pietro arrestava i tangentisti, esultavo: finalmente li mettono in galera. Ma, da garantista, non riuscivo proprio a fare altrettanto”. La sala, ormai in visibilio, ascolta l'avvocato e senatore pannelliano Pietro Millio, che spiega come “il mio cliente Bruno Contrada è stato giustiziato” dalla procura di Palermo. Anche Lanfranco Pace, già alter ego di Franco Piperno in Potere operaio e nella rivista Metropoli, fa la sua figura. L'ex sindaco socialista Giorgio Morales elenca orgoglioso i 15 provvedimenti subiti di fronte alla Corte dei Conti, che provvidenzialmente la Bicamerale vuol abolire. Poi parla Alfredo Mantovano, coordinatore di An: non insulta i pm, ed è un ex magistrato. Atroce sospetto nell'uditorio: che sia un giustizialista infiltrato? Maceratini rassicura i fedelissimi: “No, no, è uno tosto pure lui”. Ci sarebbe ancora il videoclip di Folena, ma resterà inedito. “Il suo intervento è troppo lungo”, spiega Ferrara, “le videocassette fanno scemare l'attenzione. Comunque Radio Radicale ci ha assicurato di trasmetterlo integralmente”.
I giornalisti, distratti, non si accorgono che la Donna Barbuta sta ufficializzando la sua nuova missione: aspirante consigliere di Massimo D'Alema. “Se vuole fondare un partito socialista europeo”, intima, “deve ripristinare lo Stato di diritto, contro questa giustizia pre-borbonica”. Contro i magistrati che, essi, “rubano, sequestrano e ricattano ai danni della politica”. “Si potrebbe cominciare”, butta lì il direttore del Foglio, “abolendo il reato contestato a Dell'Utri, Andreotti e Carnevale: il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste, fa schifo”. Ed eccolo, finalmente, il motto della Convenzione per la giustizia: “Meglio una Repubblica corrotta che una Repub­blica delle Procure”. Perry Mason forse vorrebbe dimettersi da testimonial. Ma, nell’euforia generale, non se lo fila nessuno.