La Repubblica, 17 maggio 1996
La profezia di Bobbio
di Nello Ajello

Da Epoca n. 141 del 1953
Da Epoca n. 141 del 1953
Norberto Bobbio vide l´alba della prima Repubblica.Cinquant' anni più tardi, assiste al suo tramonto. Nel 1945-46 visse „con grandi speranze“ il ritorno della normalità costituzionale dopo quel „lamentabile regime“ che era stato il fascismo. Oggi, nel maggio del 1996, registra „con grande timore“ i travagli del „nuovo che stenta a nascere“.
A tante generazioni di distanza, attraverso disinganni, dure repliche della Storia, speranze che rinascono, „rivoluzioni“ contraddette da repentine frenate, le idee-forza del suo insegnamento sono rimaste intatte. Lo dimostra iI volume intitolato Fra due Repubbliche -Alle origini della democrazia italiana, che l'editore Donzelli manderà domani in libreria (pagg. 160, lire 16.000).
Curato da un giovane studioso dell'opera di Bobbio, Tommaso Greco, il libro consta di due parti distinte. La prima comprende quindici articoli che  l'autore pubblicò mezzo secolo fa, quasi tutti su GL, il quotidiano azionista che ebbe breve vita nella Torino dell'immediato dopoguerra. La seconda registra un confronto, alla luce dell'esperienza, delle tesi di allora con le realtà e le prospettive attuali.
Da Epoca n. 141 del 1953
Da Epoca n. 141 del  1953
Il lettore può dunque seguire gli stati d'animo di uno studioso che rilegge se stesso e riflette in    pubblico. Gli scritti antichi conservano un loro vigore profetico che, nel commento odierno dell' autore, diventa naturale impegno di coerenza. Alle ultime quaranta pagine, quelle che aggiornano Fra due Repubbliche, Bobbio ha lavorato in prevalenza dopo le elezioni del 21 aprile. Due settimane fa, il 3 maggio, ha licenziato le bozze, con una fretta editoriale che lo ha visto dubbioso, ma che alla fine risulta vincente. Si tratta di una serie di interventi „a caldo“ su certi nodi permanenti della politica italiana. Vi si trova un Bobbio militante, a tratti pungentemente giornalistico. Un filosofo della politica che commisura i concetti alla cronaca e ai suoi attori.
Assai vivace, nella sua severità, è il ritratto di Silvio Berlusconi, in parte pubblicato in questa stessa pagina. Di un'attualità sorprendente sono due interventi che Bobbio, fedele al culto del Risorgimento, dedicò nel '45 al federalismo italiano, inscindibile da quello europeo. Quando l'autore in quel lontano dopoguerra scriveva „oggi“, sembrava paradossalmente anticipare una risposta a certe intemperanze leghiste. II richiamo alle ardite parole d'ordine di Carlo Cattaneo, quello fra i padri dell'Unità cui lo studioso torinese guarderà sempre con la più entusiastica attenzione, è una sorta di promemoria da segnare nei diari politici di questo 1996. Anche se non c'è federalista che sappia oggi enunciare i propri ideali con una nettezza pari a quella del Cattaneo amato da Bobbio: „La libertà è repubblica; e la repubblica è pluralità, ossia federazione“. Oppure in certe sue invettive contro i prefetti, riprese più tardi con pari lucidità da Luigi Einaudi. O infine quando proclama che “ Stati Uniti è una gran parola che puo´sciogliere molti problemi e in Italia e in tutta Europa“.
Da questo gioco delle somiglianze emergono taluni idola ricorrenti nel dibattito politico italiano. Diagnosticando queste cicliche epidemie, la pacatezza di Bobbio sembra incrinarsi di fronte a un surplus di emotività. Sono tanti i temi che si potrebbero stralciare, in questo senso, da La due Repubbliche.
Ma il più ampio, che suscita nel saggista un’allergia in grado di scavalcare i decenni, è quello dell'“Apoliticismo“. Ecco un argomento per il quale il gioco dei contrappunti (passato, presente) s'esprime con un'eloquenza desolata. Emerge che già mezzo secolo fa, agli esordi del partito d'Azione, Bobbio non ne poteva più degli astensionisti, degli „indifferenti“, di quelli che politicamente “non la bevono”, “se ne lavano le mani”, si chiamano fuori, vogliono restare lontani o al di sopra della mischia che agita i „politici di professione“. E oggi, al tempo dell'Ulivo, ecco riaffaciarsi con scarse varianti d'umore la stessa consorteria.
In entrambi i casi storici, l'avversione alla partitocrazia si tramuta in odio ai partiti in quanto tali, tralasciando il fatto che essi sono comunque, come I' Inghilterra dimostra, „il motore principale della vita democratica“. E ogni volta l'apatia o diserzione dalla politica ha un approdo rituale: la glorificazione dei tecnici, quella pretesa di una tecnica apolitica che, nota Bobbio già nel '45, „vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone“ e tale da ridursi a una „cattiva politica“. Da un lato i politicanti, che abbassano il loro servizio nella cosa pubblica „a strumento dei propri buoni o cattivi affari personali“.
Da Epoca n. 141 del 1953
Da Epoca n. 141 del 1953
Dall'altro gli indifferenti, i caustici disertori, che disprezzano ogni pubblica attività in nome dell´imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé“. I due bersagli in successione - ci si domanda - non sono i politici della prima Repubblica strangolata da Mani Pulite, e quegli affaristi scesi in campo subito dopo, benché riluttanti, per prendersi cura dello Stato? Una data in calce a questo scritto ci sorprende: giugno 1945. Ecco un perfetto trompe-l'oeil, che la dice lunga sulla vischiosità della nostra psicologia politica.
Le due Repubbliche, la prima che ha inciampato e la seconda che stenta a reggersi in piedi, procedono dunque parallele, come su un binario. Nel suo attivismo venato di retorica, che cosa produce la conclamata indifferenza per la politica? Ecco affacciarsi (leggiamo pagine di cinquant'anni fa) l´unico partito di massa del popolo italiano: “il partito dei senza partito", „inetto a formare nuove idee, ma capace di combattere tutte le idee, solo perché sono idee“.
All'epoca, Silvio Berlusconi ha nove anni, ma crescerà. Forza Italia combacia infatti a meraviglia con quell'antico stereotipo. E' un „partito personale di massa“, „non si sa se più azienda, o foot-ball club o tutti e due insieme“. Un mostro, implora Bobbio (siamo, è ovvio, nel '96), da dimenticare al più presto. Anche perché lo slogan sul quale ha edificato le sue fortune („Un capo, un popolo“), riecheggia da lontano certi ritornelli totalitari. „E' incredibile“, osserva lo scrittore, „quanta strada abbia fatto quest’idea“. Bobbio conclude il suo libro sotto i nostri occhi: fa in tempo a intravedere in Prodi un „anti-Berlusconi“. Può darsi che quelle antiche sindromi italiane trovino la giusta cura.
Per il momento, le novità non entusiasmano. Pur non rimpiangendo la prima Repubblica, e senza entrare nel labirinto delle riforme costituzionali - annunciate, abbozzate, sospese a metà, promesse di continuo per subito - Bobbio osserva sbigottito il prodigio compiuto in Italia, dove un volenteroso sistema maggioritario ha moltiplicato i partiti, facendone „spuntare una trentina, senza storia e senza avvenire, destinati a scomparire presto o forse già scomparsi“. L'anziano testimone non sembra però incline a un pessimismo senza remissione. Non si illude che la salvezza del nostro paese dipenda dalle riforme costituzionali, ma resta convinto che „più delle istituzioni valgano i costumi“. E la democrazia - Bobbio lo sostiene da tempo - s'è imposta fra gli italiani se non peraltro per abitudine. Per assuefazione quotidiana. Per contagio collettivo.
Se un profeta come lui non si dispera, è il caso di credergli.