Epoca, n. 144 del 5 luglio1953
Per salvargli la vita gli hanno tolto la luce
Condannato da una rarissima forma di tumore all'occhio, il piccolo Jean Marie è diventato cieco e non lo sa.
"Domani" dice alla mamma "mi togli la benda".
Di Nantas Salvalaggio
Parigi, luglio
Quando nacque, un venerdì mattina, Jean Marie pesava più di quattro chili e aveva parecchi capelli. I capelli erano scuri, e anche gli occhi; poi, col passare dei mesi, diventarono più chiari. I capelli di un biondo pannocchia e gli occhi di un grigio luminoso.
Jean Marie aveva poco più di quattro mesi quando sua madre si accorse che presentava una macchia rossa nell’occhio sinistro. In un primo momento non ci fece caso, poi ne parlò al marito. Si decise di far vedere il bambino da un medico, e il medico disse che non era niente. Ma la macchia diventava più larga, e l’occhio sembrava fermo, come se non vedesse più. Allora Jean Marie fu accompagnato all'ospedale; si fecero i raggi, gli esami, eccetera. Il direttore del reparto cancrologico mandò a chiamare il padre di Jean Marie, e la madre aspettò in anticamera. “E’ cancro” disse il medico, bisogna operare l’occhio, bisogna toglierlo. Il 23 marzo 1949 Jean Marie entrò in sala operatoria e gli tolsero l'occhio sinistro. Era un occhio ancora troppo fresco, per vedere distintamente le cose: un occhio di quattro mesi. Lo sostituirono con un occhio di vetro.
Pareva che l’incubo del cancro fosse definitivamente scomparso dalla vita di Jean Marie. Cresceva sano, bello, intelligente. “La malattia”, dicevano i medici, “è stata debellata”. I medici sapevano che in casi rarissimi il male poteva annidarsi anche nell’altro occhio, ma non si azzardavano neppure a prospettare l’ipotesi ai genitori di Jean Marie. Solo si limitavano a dir loro: “Ogni tanto, portateci il ragazzo per una piccola visita”.
Le visite si susseguirono regolarmente. Jean Marie non sapeva di essere un infelice, e trovava che i medici erano dopotutto dei simpatici signori vestiti di bianco. Ma quindici giorni fa il dottor Quentin, della clinica Foch, a Reims, non riuscì a scherzare col bambino. Una macchia rossa, la temuta piccolissima macchia era comparsa nell'occhio destro. Il medico e il padre di Jean Marie scomparvero in una stanza accanto, e restarono a lungo. Poi il padre tornò da Jean Marie. Che stava giocando con un’infermiera; se lo prese in braccio, e uscì senza dire una parola.
Un giorno e una notte i genitori di Jean Marie piansero e discussero sulla vita del loro bambino; perché il dilemma era atroce: o si toglieva anche l'altro occhio, e la vita di Jean Marie era salva, oppure non si interveniva e il cancro sarebbe diventato mortale in poche settimane.
Jean Marie continuava a giocare e a ridere, con gli amici del palazzo, nel piccolo giardino di Courey (Marna). Certe volte sua madre lo prendeva in braccio e gli domandava: “Jean, dimmi, mi vedi? Mi vedi bene?”. E lui rispondeva: “ sì mamie, ti vedo; ma lasciami giocare”.
Sabato mattina i genitori di Jean Marie scelsero la sola cosa possibile: salvare la vita del loro figliolo. Lo accompagnarono in clinica, gli stettero accanto fino all'ultimo momento, fino al momento in cui il carrello scivolò nella camera operatoria.
Qualche attimo prima che addormentassero il bambino con l’etere, la signora Cierco gettò un grido e tentò di penetrare nella camera operatoria. Ma ormai era troppo tardi, due infermieri la immobilizzarono; lei si rassegnò, diventò quieta, e pianse a lungo.
Quattro anni terribili
Abbiamo visto il bambino cieco mangiare una grossa fetta di dolce, nella sua casa di Courey. Poi sua madre ci ha preso da una parte, e ci ha detto: “Dimenticheremo tutto quello che abbiamo sofferto, e quello che soffriremo ancora, pur che Jean Marie sia salvo, purché viva. A me basta che il sacrificio della sua vista non sia inutile”.
La signora Cierco ci ha raccontato la sua vita di questi quattro terribili anni. Dopo la prima operazione all'occhio sinistro, il medico aveva detto che non c’era più pericolo; ma che per essere ben sicuri bisognava aspettare diciotto mesi. “Furono diciotto mesi di inferno. Mi svegliavo la notte e andavo a vedere se Jean Marie dormiva tranquillo, se gli faceva male l'altro occhio. Poi i diciotto mesi passarono, poi venti, poi ventiquattro. Io pensavo: Jean Marie è fuori pericolo. Non dovrà più passare “sotto i ferri". Cercavo di non fargli sospettare che soffrivo per lui; ma ogni suo gesto, ogni sua parola erano per me dei morsi nel cuore. Un giorno, mi disse: "Maman, tu non ti togli mai il tuo occhio, tu, per lavarti. Perché?”. Egli si era abituato abbastanza facilmente al suo occhio di vetro, ma non riusciva a capire perché fosse lui solo, di tutta la famiglia, a doversi togliere ogni sera l’occhio dall’orbita e a farlo disinfettare.
Gli amici aviatori
“Jean Marie, il giorno dell’operazione, si alzò molto allegro”, continuò la signora Cierco. “Egli era condannato a non vedere più il giorno, né sua madre, né le sue sorelle.
Ma con lo sapeva. Verso le nove del mattino scese al piccolo bar che è vicino alla nostra casa e andò a giocare coi due gatti del padrone”.
Ad un certo punto dovemmo lasciare la signora Cierco, perché non faceva che piangere. Ci sembrava crudele restare. E così scendemmo in strada e andammo a prendere qualcosa al bar. Un tale che stava bevendo una birra, e ci aveva visto uscire dalla casa dei Cierco, volle sapere se eravamo mandati da qualche giornale. “La vigilia dell'operazione”, ci mi disse, io mi trovavo all’Albergo dei Mughetti, e c'erano una diecina d'aviatori dell'aeroporto di Courey, che sta dall’altra parte della strada. Erano tutti amici di Jean Marie, l'avevano fatto “mascotte" del campo. Tutti sapevano che Jean Marie sarebbe diventato cieco. E allora lo andarono a prendere a casa, e lo portarono nella sala dell’albergo.
Vollero restare un pò con lui, ed “essere visti", per l'ultima volta. “Tu non mi dimenticherai" gli diceva qualcuno dei piloti "se io parto per l’Indocina e per il Canada?" Poi giocarono, uno alla volta, con Jean Marie al biliardino”.
“Quella sera tutto il paese fu triste”, ci disse l'uomo del bar; ci era impossibile vivere.
Poi l'uomo se ne andò. Una delle cameriere del bar, che aveva ascoltato il racconto, disse: “Io l'ho accompagnato a Reims, con sua madre e suo padre. Prima di entrare in clinica, Jean Marie ha guardato da tutte le parti il giardino, gli alberi e i muri della clinica. Poi, senza la minima resistenza, si è lasciato portare in sala operatoria. Gli hanno detto che gli volevano fare solo una iniezione. Ma quando ha visto i ferri nelle mani delle infermiere ha avuto paura e si è messo a piangere. Le ultime cose che ha veduto sono le lampade del letto operatorio, le facce dei dottori.
Finalmente l'etere lo ha calmato, e quando la nebbia è calata sul suo unico occhio, ha chiamato “mamma". Però la parola gli è rimasta a metà nella gola”.
“L’operazione è stata lunga?”, domandammo.
“Non mi ricordo più”, rispose la cameriera, “a me è parsa lunghissima. Si è svegliato nel tardo pomeriggio e sua madre gli ha domandato se sentisse dolori. “No”, ha risposto, "solo mi viene voglia di grattarmi”.
Il giorno dopo, domenica, riportarono Jean Marie a Courcy. I bambini che avevano giocato tante volte con lui non ebbero neanche il coraggio di andargli incontro. A casa, Jean Marie fu messo a letto. Il medico aveva insistito che per un paio di giorni stesse molto tranquillo.
Solo verso sera, Jaan Marie protestò vivacemente con suo padre perché non lo faceva uscire.
“Non mi vuoi più portare al cinema”, egli disse.
Ci ricorderemo per qualche tempo del viso sorridente e triste di questo ragazzo.
Quando entrammo nella sua camera, stava giocando con un cappello da gendarme. Il suo occhio di vetro rifletteva una luce sinistra; l'altra orbita era ricoperta da un panno nero. “Mamma”, disse, “mi piacerebbe andare a giocare coi soldati al biliardino”.
“Adesso è notte, Jean”.
“Non fa niente”, rispose il ragazzo, “aspetto domani mattina. Domani fa giorno e tu mi togli la fascia”.
“Si, Jean, domani, quando fa giorno. Dormi presto, Jean”.
Nantas Salvalaggio
1953 - Per salvargli la vita gli hanno tolto la luce
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