Il secondo mezzo o modo di prevenire e impedire il no e le occasioni che renderebbero necessario il pronunciarlo, è
che il Principe sia in tutte le pratiche e in tutte le sue risoluzioni integro, giusto e retto, e riconosciuto per tale.
Il più giusto, retto, integro e costante uomo che visse a Roma, fu Marco Porcio Catone. E che ottenne con questa integrità e costanza della sua inflessibile giustizia? Ottenne che - come ci riferisce Plinio - durante il suo consolato nessuno ardì chiedergli qualcosa che non fosse giusta. Così ci dice con ammirazione l'eloquenza di Tullio: O te felicem Marce Porci, a quo rem improbam potere nemo audet! Felice: infatti Questo sarà il rispetto che verrà tributato al Governo, e questa la felicità del Re che in tutte le sue risoluzioni e decisioni osserverà costantemente la giustizia.
La giustizia, secondo la definizione che ne danno i teologi e i giuristi, non è altro che una perpetua e costante volontà di dare a ciascuno ciò che merita. Se questa volontà (che generalmente è così mutevole negli affetti umani) sarà costante e perpetua nel Principe, tutti si renderanno conto che non potranno ottenere da lui se non ciò che è giusto e proporzionato ai loro servizi e ai loro meriti. E per mezzo di questa chiarificazione seguirà la felicità, che nessuno si arrischierà a chiedere se non il giusto. O te felicem, a quo rem improbam potere nemo audet! Felice: infatti non richiedendo nessuno se non il giusto, saranno molte meno le richieste e le pretese. Felice: infatti essendo le pretese e le richieste giustificate, il Principe concederà sempre ciò che gli verrà chiesto e non dovrà mai dire no. Non è meglio, più dignitoso, più rapido e più utile che dicano il no a se stessi coloro che hanno intenzione di chiedere qualcosa, piuttosto che lo debba dire il Principe dopo che gli sono state presentate le richieste? Bene, questo succederà se nessuno si azzarderà a chiedere se non quello che si merita.
doIsaia disse al re Acab che, a riprova di quanto gli aveva annunciato, chiedesse pure il segno che più desiderasse: Pete tibi signum a Domino in profundum inferni, sive in excelsum supra (Nota 13). Che rispose Acab? Non petam: non chiederò niente. Questa fu la sua decisa risposta, ed egli mantenne fede a questo suo proposito. Ma perché? Se il profeta lo incitava e lo esortava a chiedere quella prova dandogli anche una possibilità di scelta così vasta (dal centro della terra al cielo), perché Acab non volle chiedere niente? Egli stesso ci dice la ragione: Non petam et non tentabo Dominum (Nota 14). Non chiederò questa prova perché non voglio tentare Dio. Tentare Dio è desiderare che Dio faccia ciò che non deve, così come il demonio ci tenta affinché facciamo quello che non dobbiamo. E Acab fece questo discorso: Dio è giusto e giustissimo, anzi è la giustizia in persona: io non Gli ho reso alcun servizio (perché servo ad altri dei) per il quale meriti i compensi che Lui mi dà; e come potrei dunque io ardire di chiederGli ciò che mi promette Isaia?
Questo sarebbe tentare Dio e volere che il Giustissimo faccia ciò che non deve; così io decido di non chiedere: Non petam.
Sia dunque il Principe giusto e tanto giusto da non concedere a nessuno per nessun altro motivo o considerazione di più di quello che si sia guadagnato col suo merito; come conseguenza i vassalli non si esporranno a chiedere cose insensate ed esagerate come vediamo chiedere ora, e si terranno lontani dal chiedere come dalle tentazioni : Non petam et non tentabo Dominum.
Oh, se i Re tante volte e tanto ingiuriosamente tentati almeno non inducessero nelle tentazioni! Non dico che dovrebbero castigare alcune richieste, per quanto in questo imiterebbero Salomone, che per una richiestina (così la chiamò la mediatrice: Petitionem parvulam) fece tagliare la testa ad Adonia.
Ebbene, io dico che potrà conseguire questo fine solo applicando il no anche a se stesso, anzi a se stesso ancora prima che ai sudditi. La frase che abbiamo già visto è un grande insegnamento del nostro Testo, e merita che ci si soffermi molto sopra: Non est meum dare vobis. Il Signore dice che il dare non è prerogativa sua; e il no cade prima sopra Lui stesso che sopra i due cui negò ciò che chiedevano; prima sopra il meum, e dopo sopra il vobis. Così deve comportarsi il Re che vuole essere giusto e riconosciuto come tale.
I Re generalmente pensano che il dare sia loro prerogativa; e il Re dei Re dice che non è suo il dare: Non est meum dare. Ma allora Cristo in quanto Dio e in quanto Uomo non è Signore di tutto? Sì, lo è.
Ma, allora, non può dare tutto a chi vuole e come vuole? Distinguo. Con giustizia sì, senza giustizia no. Dice Sant'Ambrogio: Non est meum qui justitiam servo, non gratiam: io dò per giustizia, non per grazia; il dare per giustizia è mia prerogativa; ma il dare per grazia, come voi desiderate, non lo è: Non est meum dare vobis. E la ragione di questo è data dal fatto che Cristo fondò e ordinò il Suo regno in forma tale, che in esso non si desse nessuna cosa gratuitamente, ma solo per merito e per giustizia. Per questo S. Paolo chiamò la corona che lo attendeva Corona di Giustizia e disse che gliel'avrebbe data il Signore, non come Signore, ma come giusto giudice: Reposita est mihi corona, justitiae, quam reddet mihi Dominus justus judex (Nota 16). I due posti al lato destro e al lato sinistro pretesi dai due fratelli erano i posti a lato del trono del Regno di Cristo: Ad dexteram et sinistram in regno tuo (Nota 17). Essi li richiedevano non in base ai loro meriti e in nome della Giustizia, ma in grazia del favore che godevano e dalla parentela che li legava a Cristo: Dic ut sedeant hi duo filii mei.
Per questa ragione il Signore rispose, che non era sua prerogativa il dare, perché è sua prerogativa il dare per giustizia, non il dare per favore e simpatia: Non est meum dare, qui justitiam servo, non gratiam.
Il Re può sì tutto, ma tutto ciò che è giusto;
per tutto quanto è ingiusto, il Re non ha nessun potere. Ecco, questa è la sincera e maggior lusinga che possa esser detta ai Re, perché li rende potenti come Dio. Dio è onnipotente; ma potrà Dio compiere una ingiustizia? Assolutamente no. Così dunque devono intendere la loro potenza i Re. E se i sudditi si persuaderanno che il Re la intende così e si comporta di conseguenza, non chiederanno cose ingiuste. Né il Re, importunato inutilmente, avrà più occasione di dire di no.