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Dell'accaduto il sig. Governatore ne faceva rapporto al Ministero dell'Interno e Polizia con la data del 24 ottobre.
In tutta la notte i buoni frati con le donne che erano in chiesa per la pace pregavano.
Era già fatto giorno ed il comandante della forza, pieghevole a scendere in paese con la pace, interessava alquanti di quei buoni padri, calati in S. Giovanni Rotondo, mettersi di accordo con quelle autorità, far deporre le armi ai ribelli, inalberarsi la bandiera tricolore e prepararsi per la truppa alloggi e trattamenti.
Si unirono perciò in deputazione il Vicario con tre altri padri più influenti, ed uniti scesero in paese circa le ore quattordici con la croce inalberata e sventolando bianchi lini in segno di pace, portando delle lettere dirette al sindaco, R. Giudice e capo della guardia nazionale.
Nel giungere la deputazione così raccolta e lacrimante in paese, si imbattè nei rivoltosi comandati da Antini e Cascavilla i quali imperiosamente chiesero la spiegazione della loro inaspettata comparsa.
Si disse loro che la truppa giunta la notte in convento voleva entrare con la pace, ed essi erano portatori di lettere alle autorità locali per stabilirsene col popolo le condizioni.
I poveri padri, a tali detti, calati i loro cappucci ed esortati i rivoltosi a rimanere tranquilli, ritornarono al convento.
Fatti appena due terzi di strada, sentirono colpi di fucile e, spaventati, girarono gli occhi da ove quello sparo partiva e si avvidero che alle spalle del convento e sopra i colli dominanti verso borea vi era una moltitudine di uomini armati, diversi da quelli rimasti in paese e che nella precedente notte eransi raccolti in campagna.
Costoro appiattati e vigili si accorsero della forza nel vicino convento ed incominciarono il fuoco contro di essa.
Il comandante che si credé tradito dalla deputazione, senza attendere il suo ritorno, chiamò allarmi e così si ingaggiò una viva guerra ed i poveri padri della deputazione, che trovavansi tra due fuochi, si buttarono carponi e raccomandando le anime loro a Dio, sentivano sulle loro teste il sibilo delle palle.
La posizione per i perversi era vantaggiosa perché dominava il luogo della pugna, e facevan fuoco da dietro le macerie che erano di barricata, per cui i garibaldini, sopraffatti ancora dal numero, vistisi in pericolo, cercarono lo scampo con la fuga prendendo la direzione di Pozzo Cavo che era a vista di S. Giovanni.
In allora i rivoltosi che qui erano, a cui si unì buona parte del popolo, corsero ancor essi a perseguitare i soldati che incontrarono maggiori pericoli ed ebbero maggiori ostacoli da superare.
In quel conflitto rimasero morti il luogotenente Amico Orofino e il sottotenente Francesco Baronia; il furiere Francesco Cassano e il caporale Cataldo Marlata ebbero delle ferite pericolose di vita e, perché garibaldini, furono fatti e messi in quel carcere ove ancora erano gli infelici massacrati.
Gli sgraziati, a discrezione della furibonda plebe, pregavano e supplicavano, specialmente il malcapitato Cassano, il quale asseriva essere un promesso sposo, e che si rattrovava in Foggia per acquistare gli abiti della sposa, da ove, partendo la truppa, fu obbligato a seguirla.
Convinti a tali detti, i rivoltosi liberarono i prigionieri. Iddio li volle salvi! Nel fuggire la truppa dal convento, alcuni di essi, perché infermi, non poterono seguirla e si rimasero.
Uno di essi però perì per mano della sanguinaria plebe che se ne avvide e due altri furono salvi perché due giovani novizi li fecero nascondere nell'orto del Convento.
Nelle vicinanze si trovarono altri due soldati uccisi.
Ritornata in paese la masnada furibonda, e come tutti i proprietari erano fuggiti prendendo ricovero chi in S. Marco in Lamis, chi in Monte Sant'Angelo, le loro case furono saccheggiate.
Trascorsa adunque la tremenda notte del ventiquattro, al far del giorno i pietosi popolani, mossi da carità cristiana, pensarono di rilevare dal carcere le vittime sacrificate, i veri martiri della libertà, e menare i loro cadaveri nel camposanto, come venne caritatevolmente eseguito, rimanendo semplicemente ivi custoditi dai reazionari i due sventurati garibaldini, che erano sempre più incerti del futuro loro destino e che poi, come si è detto, furono restituiti alla libertà ed alle famiglie.
Lasciamo per poco così il paese ribelle, il paese fratricida, per riprendere la narrazione dei fatti che, dopo la fuga della truppa e della ritirata in Foggia del sig. Governatore Del Giudice, avvennero.
Gli eventi tumultuosi e tremendi che si succedevano in S. Giovanni Rotondo spaventarono l'intiera Provincia e sempre più richiamarono l'attenzione dei superiori, che perciò nel giorno di giovedì venticinque una forza di garibaldini, al comando del generale Romano, in numero sopra mille, altra volta usciva da Foggia, e non più direttamente per l'infame paese si dirigeva, ma prese la volta di Rignano, ove giunse alle ore tardi della sera.
I naturali di quel paese, quasi tutti avevano abbandonate le proprie case per la tema che i sammarchesi fussero ivi andati per rovinarli, poggiando fede a quello che si vociferava.
Giuntavi la truppa, onde alloggiarla si dovettero aprire le case rimaste per lo più incustodite, per cui ne seguirono quei soprusi che qui non è lecito ricordare.
Per l'arrivo della truppa in Rignano i proletari sammarchesi, uniti a non pochi sangiovannesi, fecero ritomo a ciò che succedeva nel mattino del giorno otto.
Voci allarmanti uscivano dalla moltitudine che arrecavano l'universale spavento. La forza, dicevano, aggredirà il paese; le nostre donne saranno disonorate e tutto sarà posto a sacco e fuoco. Allarmi, adunque.
Oh cecità, oh insania! Tutti corsero alle armi e, per armarsi chi di armi era privo, il popolo in rivolta assaliva le case dei proprietari richiedendo fucili e munizioni, e chi poté prestarsi dové contentarli.
Si chiassava e si tumultuava in modo inesprimibile in tutta quella terribile notte nella quale non si prese cibo né sonno.
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03-Reazione in S. Giovanni Rotondo
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