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Aspirina n. 1
Aspirina n. 1
Né si è mai avuta la ventura di incrociarne copia nei cataloghi nazionali dei libri antichi nel corso di un quarantennale spoglio trimestrale.
Si tratta ormai di un vero e proprio cimelio bibliografico da proporre ai lettori di oggi in una nuova veste tipografica per comprendere quali interessi o quali curiosità può destare, in una società così radicalmente e profondamente diversa da quella a cui si rivolgeva il Giuliani, la circolazione di una storia locale scritta 150 anni or sono. Nella più deludente delle ipotesi si tratterà pur sempre del recupero di un frammento di memoria per quanti non desiderano che la grande storia continui impunemente a passare sulla loro testa.
Aspirina n. 1
Aspirina n. 1
Come tutte le umane cose anche questa "Storia" mostra ben chiari i segni del tempo sui quali si potrebbe a lungo discettare: non un'azione di restauro, se pur auspicabile, essa invoca ma una civile attestazione di gratitudine per chi ha tentato, tra molteplici condizionamenti ambientali, di trarre "dalle oscure tenebre della notte" il "luogo ove nacque" tramandando "ai più tardi nepoti l'origine dei loro avi, ritesserne le vicende e farti quasi presente ai secoli in cui vissero".
E' divisa in quattro parti cui seguono, in appendice, sei "note".
Il borgo trae le sue origini, a parere del Nostro, in epoca medievale e deve il suo sviluppo alla presenza, su di uno sperone di Monte Celano, della Badia di San Giovanni in Lamis che catapani bizantini e principi normanni dotarono di numerosi privilegi.
Questi gli argomenti trattati nella prima parte.
Nella seconda si discute sulle vicissitudini cui la badia andò soggetta nei secoli seguenti, come dall'ordine benedettino passò al cistercense e da questo dato in commenda alla S.Sede e, in pari tempo, del come il monastero venne affidato ai minori francescani col novello titolo di San Matteo. Nella terza si analizzano le ragioni per le quali San Marco in Lamis divenne città; come sorsero le proprietà private, quali i suoi demani, le sue rendite patrimoniali, le confraternite laicali e lo stato civile. Nella quarta si propongono i mezzi per migliorare "col patrio suolo le proprietà private onde non abbiasi un giorno ad emigrare, o pure mal vivere per la mancanza dei boschi, di pascoli e per la deteriorata coltura".
Nella prima nota dell'appendice il Giuliani sostiene d'aver visto, nell'archivio di Cava dei Tirreni, in originale, la concessione territoriale del 1095 fatta dal Conte Errico a Benedetto, abate del monastero di San Giovanni in Lamis, mentre le copie erano conservate nel primo e quarto ufficio del Grande Archivio di Napoli.
Va necessariamente chiarito che negli inventari, compilati con estrema cura, dell'archivio cavese non v'è traccia del nostro archetipo né di tutti gli altri sigilla bizantini di cui esistono copie manoscritte in latino e non in greco, come doveva essere, nella sezione diplomatica napoletana. E' da queste copie dunque che il Giuliani ha tratto le sue, parzialmente utilizzate poi nell'appendice.
In occasione della traslazione del corpo di San Bonifacio martire da Roma a San Marco scrisse, senza firmarla, una Relazione istorica che vide la luce nel 1854. Fu stampata, a spese della confraternita di Santa Maria del Carmine, dalla tipografìa di Raffaello Migliaccio. Due anni dopo approntò Poche parole sopra la natura della Chiesa Colleggiale [sic] di San Marco in Lamis, di Badia insigne e di Regio Patronato.
L'indagine consiste in un tentativo di ricostruzione storica condotta in maniera assai schematica, quasi un arido elenco di fatti e circostanze senza alcun nesso o rapporto di causalità tra loro.
Venne presentata nel settembre del 1856 al primo Vescovo di Foggia, mons. Berardino Frascolla, in una delle sue visite pastorali dall'arciprete Francesco Paolo Spagnoli con il manifesto desiderio di vederla pubblicata.
I tempi però stavano volgendo al peggio e già nell'aria si avvertiva odore di tempesta che inesorabilmente si sarebbe abbattuta, travolgendo uomini e cose, sul vecchio Regno delle Due Sicilie.
Con la tardiva concessione della carta costituzionale l'imbelle re Francesco II tentò di salvare il salvabile facendo tornare in patria esuli e perseguitati politici e favorendo al governo delle pubbliche amministrazioni uomini moderati con sia pur vaghi orientamenti liberali.
Per la quarta volta"con disapprovazione dei figli" accettò di sostituire l'arciprete Spagnoli "nel difficile incarico di sindaco".
Intanto il 19 agosto 1860 Garibaldi sbarcava in Calabria e il 7 settembre, tra entusiastiche manifestazioni popolari, entrava in Napoli. Un mese dopo, in un tripudio di tricolori, Vittorio Emanuele II salutava la folla plaudente dalla balconata di Palazzo Reale.
Ai due protagonisti del riscatto meridionale, anche dagli angoli più remoti del regno, giungevano reboanti attestati di riconoscimento e di fedeltà, tra i quali quello sottoscritto il 10 ottobre 1860 dal sindaco, dai decurioni e dai capi della guardia nazionale.

"Sire
il Municipio del Comune di Sammarco in Lamis per l'organo del Sindaco sin dal giorno 10 scorso settembre dichiarava riconoscere il nuovo Governo della Maestà Vostra, Dio feliciti, e pel supremo Dittatore Giuseppe Garibaldi.
Adesso che ricolmo di gioia ha inteso il felice arrivo in questi domini, indirizzo di gaudio che esce da un cuore riconoscente si affretta a far giungere nelle reali mani della Maestà Vostra e far voti al cielo per la prosperità Sua e dell'Invitto Generale, nonché dell'Italia una sotto lo stendardo avventuroso delle Reali Armi di Savoia, dalle quali venticinque milioni di abitanti come vessillo di redenzione saranno ricolmi di ogni felicità, onde il municipio istesso con tutti gli amministrati grida coll'arma cittadina Viva il Re Galantuomo, Viva Garibaldi, Viva l'Italia una".

Diversamente da quanto scriveva il Giuliani, gli "amministrati", 17.526, nella quasi totalità, avevano già minacciosamente inneggiato a Francesco II e a Pio IX, convinti che il giovane re borbonico, strenuo difensore della religione, minacciata dai "garibaldesi", sarebbe ritornato nella capitale e che un fratello del re, Luigi, conte di Trani, sarebbe uscito dal convento di San Matteo, dove si era rifugiato, per liberare il paese dalla "tabe liberalesca".
Il clero, ad eccezione di un paio di sacerdoti, "antichi settari rivoluzionari", soffiando dai pergami e dai confessionali sul fuoco della ribellione al nuovo regime, così come esplicitamente ordinava il Frascolla, minacciava pene infernali e scomuniche a chi manifestasse sentimenti unitari: "del filibustiere Garibaldi e dello scomunicato Savoiardo occorreva ridurre in pezzi le immagini" che avevano sostituito nel quartiere della guardia nazionale quelle di Maria Sofìa e di Francesco II.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?