Sulla confinazione e titolazione dei territori di San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo il Giuliani scrisse nel 1838 un'articolata memoria che, due anni dopo, gli avvocati Francesco Gamboa, Francesco Storace e Francesco Maria Avellino riproposero, sia pure con una più organica documentazione storico-giuridica, al giudizio di appello della Gran Corte dei Conti che raccolse con "decisione del 21 febbraio 1840".
Una sentenza del tutto platonica in quanto sulla
"fluttuante linea di demarcazione dei due Comuni si verifìcò il maggior numero di usurpazioni ... Solo nel marzo 1907 i rappresentanti delle due cittadine sottoscrissero un accordo sulla definitiva divisione territoriale che chiudeva così la vexata quaestio" .

Non c'è stata località o contrada dal Calderoso a Zazzano, da Piscina del Re a Pontone del Santolo, da Chiancata della Ferola a Vado dell'Occhio, da Cardinale a Malmisir, da Valle Majuri al Sambuchello, da Santa Loja a Maria Longa, da Pidocchia a Coppaferrara, da Forno Vecchio a Cicerone, da Valle Santa Lucia a Pietra Petriccolo, da San Bartolomeo a Foresta, su cui la piovra delle usurpazioni non abbia esteso i suoi tentacoli impossessandosi di superfìci territoriali soggette, ab antiquo, agli usi civici, al diritto cioè dei "comunisti" di "pascere, acquare, legnare et ghiandare".
E' documentato, invece, il rigore mostrato dal sindaco contro "miseri cenciosi" dissodatori di fazzoletti di terra in contrada Coppe (il toponimo trae origine dalle microscopiche usurpazioni di terreno estese quanto l'ampiezza di una coppola) verbalizzati quali "delinquenti" ai quali si sequestravano zappe e picconi, antichi strumenti di duro lavoro.
Segnalati dai giudici alle superiori autorità giudiziarie i contraccolpi che simili fatti avevano sullo "spirito pubblico", fu inviato a San Marco, con funzioni ispettive, il sottintendente Francesco Ceva Grimaldi per l'accertamento delle responsabilità singole e collettive denunziate.
Per il marchese di Pietracatella, ad eccezione di qualche sporadico episodio, non v'era nulla di preoccupante in quanto nel paese tutto era tranquillo e che, tutto sommato, si trattava di aria fritta, di polveroni sollevati dai soliti allarmisti.
Il sequestro degli attrezzi agricoli non frenò il diffondersi della "lebbra" demaniale che raggiunse livelli tali da spingere l'intendente Raffaele Guerra a notificare ai giudici dei vari circondari nell'ottobre del 1855, il seguente dispaccio:
"Alla occasione che immense dissodazioni avvenivano in San Marco in Lamis mi faceva a proporre ai Signori Direttori dei Reali Ministeri dell'Interno e della Polizia Generale l'adozione di talune misure di rigore a carico dei contravventori; fra le quali quelle di farli arrestare nella flagranza, o quasi per misura di polizia, detenerli per giorni 29 e quindi abbandonarli al potere giudiziario ... Per siffatte proposizioni mi viene comunicato dal Direttore dell'Interno l'approvazione delle misure adottate".


Si trattò della riappropriazione di ben 160 versure di ottimo pascolo, con piscine per l'estivo abbeveraggio di armenti provenienti dalle infuocate poste del Tavoliere.
E sempre a proposito di armenti, nei mesi estivi si riproponeva all'attenzione degli amministratori il problema della statonica, fonte di violenti contrasti tra i proprietari di bestiame e i censuari delle Poste Difensola e Montegranaro, site nella "locazione di Candelaro."
A 37.491 ascendeva, nel 1839, il numero degli animali iscritti nel ruolo di fìda dei quali 2.513 vacche, 596 giumente, 21.171 pecore, 10.327 capre e 2.284 neri (porci).
Nell'indagine del 1812 condotta da Raffaele Mazzilli, regio agrimensore, risultava che San Marco aveva 750 carra di terreni a pascolo dei quali 3/5 di sua propietà e 2/5 invece gestiti dall'Amministrazione dei Regi Demani.