Continua ...
Le imposte sono socchiuse, un urto: eccola che si apre. Che oscurità vi regna, che quiete: che puzzo è mai questo? Non temere, fa cuore amico, e stringiti al mio fianco ed entriamo.
Una lunga stanza fiocamente illuminata da tre aperture quadrate, munite a doppie spranghe di ferro: questo è un carcere!
Un fetido vapore non ci fa discernere i molti oggetti che ci circondano. Aspettiamo, aspettiamo che la vista si equilibri a queste tenebre di morte! Ma perché più non meni innanzi i tuoi passi? Un umore viscoso ti infanga e te li rende difficili?
Mettiti a me vicino: ecco che la vista si equilibra e gli oggetti si incominciano a distinguere.
Amico, vedi là un monticchio di cose, e là un altro gruppo, guarda quell'altro gruppetto di tre oggetti? Tremi? Già comprendi che ti trovi in mezzo ad un lago di sangue umano, sangue innocente, e quei non sono altro che cadaveri!
Serra agli affetti il tuo cuore, renditi per poco insensibile, impietoso. Osserva: questi sono i cadaveri di quei che si imprigionavano e che io per nome qui sopra ti ho notati: il fiore di questo barbaro e crudo paese tu vedi qui estinto e seviziato, immerso nel proprio sangue: quei tre che vedi buttati stramazzoni, son dessi … oh Dio! Sono tre miei cari compari, tre giovani d’oro ... Passiamo innanzi.
In questo gruppo distingui, distingui, questo è un mio paesano ... Macché?! Tu taci e guardi sogghignando questa terra fratricida! Tu sei giusto, il tuo tacere mi conforta. Che sono quelle macchie che vedi sul muro?
Questi son fossi e spruzzi di sangue prodotti come da proiettili di archibugio.
Non guardiamo più: tutto è sangue! Guanciali, coverte, paglioni, cadaveri, sangue …
Usciamone da questo orroroso luogo, che né le memorie di Caino, né le leggende dei cannibali, né tutt'altro di atroce, mi può destare tanto dolore, tanta pena.
Vedesti la scena tremenda, lettore mio? Hai letto sì nera pagina in qualche altra storia? Adesso ti lascio a sapere come siano avvenuti questi esecrandi eccessi: eccomi a spiegarteli.
Dopo che gli sventurati, strappati dal seno delle non meno sventurate famiglie furono menati in carcere, venivano dai rivoltosi guardati e custoditi, senza permettere ad alcuno di avvicinarsi per arrecarli il minimo sollievo. Solo nel seguente mattino se li prestò un sicaro ed un caffè.
Ivi adunque tutto era spavento e disordine ed i pacifici non potendo più soffrire, prevedendo guai maggiori, e temendo che ancor per essi fusse serbata l'istessa sorte, incominciarono ad uscire di nascosto dal paese fratricida, recandosi nei convicini paesi per mettersi in salvo con le proprie famiglie.
In questo mentre una forza armata si spediva da Foggia di che, avvedutisi i rivoltosi, un buon numero di essi corsero armati a guardare la strada consolare, per dove la truppa avrebbe dovuto passare, schierandosi nel punto più culminante della montagna sporgente alla sottoposta Puglia proprio ove dicesi il castello, e per ove si scende nelle pedaie le Mattine. Onde poi impedire il passaggio alla forza, pensarono rompere il ponte di Livello, come venne in un baleno eseguito.
Perciò che varie persone erano alla vedetta nel detto luogo il Castello quando, circa le ore sedici del giorno ventitré, si vide venire dalle Mattine, a spron battuto, un tale Nicolantonio Sabatelli, il quale, giunto tra la insorta plebe, proruppe in queste sediziose voci: "Siamo rovinati, uccideteli tutti perché viene la forza da sotto".
A tale infernale incitamento chi può descrivere il furore della masnada? Non la ruota al declivo lasciata, non la freccia scoccata dell'arco ebbero mai celerilà quanta quella ne ebbe.
Un chiudere di porte, un fuggire incerto, un uragano di rivolta preoccupò tutte le menti; una voce tremenda usciva dalla voragine infernale: "si uccidano i carcerati, si fucilino!".
Si correva a cercare pietà, si genuflettevano i buoni innanzi ai tristi, si pregava, si scongiurava: inflessibili, specialmente i sbandati al comando dello scellerato Antini loro capo, e resi feroci come le tigri affamate, una scarica di fucilale fratricide bastò per sacrificare le vittime, che erano nel carcere detenute, e se qualcuno non avesse esalato lo spirilo o leggermente ferito fusse, apertosi il carcere allagato di tiepido sangue, un altro scempio vi succedeva.
Due ebbero sì anima perfida e perduta: Vincenzo Antini e Nicola Siena che, dopo azione sì nefanda e detestabile, saccheggiarono le vittime del loro furore e si appropriarono quanto trovarono sopra quelli infelici, non risparmiando neanche i cappotti.
Solo don Vincenzo Irace non fu colpito e quando si aprì la carcere per finire lo scempio, ebbe la fortuna di fuggire.
Ma oh tre volte infelice! quanto sarebbe stato meglio per te morire con gli altri!
Datosi a precipitosa fuga, si imbattè in un suo compare ed amico di casa, Andrea Taronno, che stava armato di accetta, e l'infelice, credendo aver trovato chi poteva salvarlo, gli chiese l'arma per potersi difendere in caso di altra aggressione ed invece il mostro ne la diede sulla testa e lo rese cadavere.Ed il cuore dell'uomo di tanto è capace? E come senza causa poté cotanto avere di ferocia? La giustizia di Dio irritata non tarderà a farne vendetta. Attendetela, o perfidi e spietati carnefici di tanti vostri benefattori, compaesani ed amici.
Voi avete spenti i luminari della vostra Patria, che rendete esecranda ed abominevole. Sì, la pagherete cara!
La pubblica indignazione richiede il vostro esterminio: attendetelo.
E voi, povere monache, colombe di Dio, chiuse tra quattro mura, e genuflesse pregavate per ... Deh! Non pregate per un popolo vostro inimico, per un popolo che vi ha tolti tanto barbaramente i vostri più cari, i parenti. Pregate che lo sdegno del giusto Giudice scagli i fulmini dell'ira sua sui perversi.
Una nera caligine copriva l'atmosfera del paese fratricida, e le lacrime ed i sospiri dei superstiti provocavano sopra di esso l'ira di Dio.
Lasciammo la forza a vista dei ribelli la quale, pure sorpresa da spavento, pare che indietreggiasse non fidandosi a cedere sul luogo del delitto.
Quei buoni padri che intesero picchiare alla porta del convento, la quale stava chiusa, perché già era scesa la notte, all'avviso che erano garibaldini, scesero dal luogo di preghiera e diedero alla truppa quel ricovero che per loro meglio si poté, tra un popolo ivi pure accorso a prendere asilo, le di cui donne, soffocate dal pianto, pregavano.
Non tutta la forza poté ritirarsi nel convento a causa che quando dalle falde si videro sulla vetta della montagna schierati i rivoltosi, si divise in due ali, la prima di circa cinquanta garibaldini prendeva la direzione a destra, diretta da don Vincenzo D'Errico e da Nicola Cascavilla, ed in questa eravi il sig. Governatore della Provincia, e che salì sui monti per la via delle Castelle; l'altra a sinistra accompagnata da don Antonio Lisa, che la faceva salire alla direzione del convento dei padri cappuccini, ed era al numero di duecento circa.
Questa seconda forza, adunque, prese ivi asilo e tutti i soldati ebbero da mangiare, apprestandosi loro fave e patate, unica provvista in dispensa. Dopo di che si dispersero per riposare chi nei corridoi, chi nella cucina e chi in altri luoghi del monastero.
Non così per la forza diretta dai signori D'Errico e Cascavilla, nella quale rattrovavasi il sig. Governatore.
Questa veniva dalla parte orientale del paese, al quale si avvicinava con cassa battente verso le ore due della notte. Ma quale fu la sorpresa quando nell'avvicinarsi si sentì un "chi vive" dato dai paesani ribelli ivi appostati ed alla risposta "garibaldini" gli insorti dalle feritoie delle barricate fecero piovere sui militi una grandine di palle, innanzi alla quale la forza retrocedé fuggendo e nello spavento rimase la bandiera tricolore che, raccolta dal popolo vincitore, fu posta in mano della statua di S. Giovanni Battista che ivi in campagna, fuori l'abitato, erasi recata all'adorazione.
Continua ...
02-Reazione in S. Giovanni Rotondo
powered by social2s