Come eravamo. Veduta del convento di san Matteo e di S. Marco in Lamis.
Come eravamo. Veduta del convento di san Matteo e di S. Marco in Lamis.
Prima che arrivasse dalle nostre parti il pibigas (fornelli a gas) per fare da mangiare e il gasolio per il riscaldamento domestico, vi erano due categorie di lavoratori, i boscaioli e i mulattieri, che, alle dipendenze di imprese o in proprio, provvedevano a rifornire il paese del combustibile necessario: la legna, che si tagliava nei boschi, che alimentava soprattutto i forni per la cottura del pane e che, trasformata in carbone, aiutava a vincere il freddo dell'inverno.
Come eravamo. S. Marco in Lamis. Veduta di Borgo Celano.
Come eravamo. S. Marco in Lamis. Veduta di Borgo Celano.
La zona destinata al taglio della legna non era sempre la stessa. Erano le guardie forestali che indicavano il posto. Quando il taglio capitava vicino al paese era un vantaggio per tutti, impresa e operai, perché si poteva facilmente far ritorno a casa. Altre volte, anzi il più delle volte, il taglio si faceva in zone molto lontane e per questo non tutti i lavoratori ce la facevano a tornare la sera in paese dopo una giornata di duro lavoro. Lo potevano fare i giovani che avevano forza ed energie da vendere soprattutto se spinti dalla voglia di vedere la zetaredda (fidanzata). Il resto, i meno giovani, restavano in campagna a dormire in qualche pagghiare su dei pagliericci.
Gli alberi si abbattevano sia con l'accetta che con lu strunche (sega lunga un metro e trenta e, persino, un metro e cinquanta).
Come eravamo. Alberi nella Difesa San Matteo a S. Marco in Lamis.
Come eravamo. Alberi nella Difesa San Matteo a S. Marco in Lamis.
Per ogni sega lavoravano due operai. Per alberi di venti, trenta, quaranta centimetri di diametro si adoperava la scure, ma, quando il tronco era grande, la cosa si complicava perché l'accetta si adoperava soltanto per incidere da una sola parte l'albero al fine di indebolirlo, mentre la sega entrava in azione dalla parte opposta. Lavoravano di gran lena, in special modo se lo facevano a cottimo, vale a dire: prima finisco e prima vado via. I due operai si sedevano per terra, oppure in ginocchio, e via: avanti e indietro fin oltre la metà del tronco. A questo punto prendevano un pezzo di legno, lo sfaccettavano da una parte e dall'altra fino ad appuntirlo e, picchiandoci sopra, cercavano di conficcarlo nella fessura, dove era passata la sega, allo scopo di allargarla. Poi riprendevano a segare. Quando l'albero cominciava a scricchiolare perché non aveva più la forza di stare in piedi da solo, si picchiava sulla zeppa- quel pezzo di legno che dicevo prima - e l'albero, in balia di se stesso, cominciava ad ondeggiare: bastava uno spintone dei due operai e, con un frastuono assordante, veniva giù. Con seghe più piccole, poi, venivano tagliati i rami, tutta la legna era ridotta a pezzi di un metro circa e accatastata, acquartata, per essere misurata a canne (cubiche), misura locale dei boscaioli corrispondente all'incirca a un metro cubo.
Veduta di Borgo Celano, una frazione di S. Marco in Lamis.
Veduta di Borgo Celano, una frazione di S. Marco in Lamis.
Quando si faceva una gran quantità di canne, per portare la legna in paese, entravano in azione i mulattieri. Questi potevano essere padroni dei muli oppure essere dipendenti dell'impresa che eseguiva il taglio, che disponeva anche di una grossa stalla con i suddetti quadrupedi. Quei lavoratori, finché durava, facevano sempre avanti e indietro, dal bosco a Sammarco, verso il deposito della legna, che stava nelle adiacenze del paese.
Con il carico seguivano il mulo a piedi; al ritorno, invece, montavano su uno di essi: i mulattieri erano sempre in movimento e riposavano poco. La mattina, prima dell'aurora, erano già in viaggio verso il bosco e, seduti sul basto, venivano tentati prepotentemente dal sonno col rischio di perdere l'equilibrio e cadere sotto le zampe delle bestie. Per evitarlo, l'unico rimedio era quello di intonare vecchie canzoni del passato, che più che canzoni sembravano nenie. Soltanto a sera, dopo aver messo a riposo le bestie e dato loro da mangiare paglia e biada, chiudevano la stalla e si concedevano un po' di svago con gli amici nella cantina tra una partita a carte e un bicchiere di vino.
I muli, come si sa, sono tendenzialmente indomiti, nervosi, scalciano e mordono di santa ragione e molti di quei lavoratori, magari meno esperti, sono rimasti segnati da qualche calcio o da qualche morso. I più esperti del mestiere, però, imparavano ad essere più testardi di loro e, dopo non molto tempo, riuscivano, a forza di frustate e sovraccarico, a renderli buoni, calmi: gli facevano passare la boria che frullava per la testa. Era gente, quella, più cocciuta dei muli.
Quelle bestie portavano sul dorso non meno di un quintale di legna, carbone, sacchi di grano ed altro. Tuttavia il mulo, nonostante la durezza del lavoro, non era mai domo: in un modo o nell'altro, doveva sprigionare la sua forza e guai a chi non usava la prudenza e il polso duro.
I sentieri che percorrevano i muli sono scomparsi sotto le erbacce: non esistono più le stradine che videro passare generazioni e generazioni di muli e di uomini.