Lu stagnare
Quelli che ricordo io avevano la bottega e lavoravano in via XX Settembre, cioè di fronte alla Collegiata. D'inverno lavoravano sempre dentro, all'interno della bottega, sempre ingombra di caldaie vecchie e sfondate, di pentole di rame che aspettavano il loro turno per essere riparate e stagnate. Ma, appena arrivava la primavera, con il primo sole caldo, uscivano fuori con la fornace per lavorare.
Le pentole vecchie erano nere di fuliggine e i calderai, di conseguenza, non potevano non sporcarsi le mani e con esse il naso, la fronte e il fazzoletto.
Nelle abitazioni di allora c'era immancabilmente il camino dove si ardeva la legna per cuocere i cibi, a quei tempi fatti essenzialmente di patate, verdura, legumi. C'era anche la pasta di casa (recchielle, strascenate, laine). Non mancava mai il classico pasto dei nostri contadini, caratteristico dell'intero paese, e cioè lu panecotte, che, sembra, oggi alle nuove generazioni non va proprio a genio. Quel pasto che ha fatto crescere intere generazioni veniva consumato molto spesso perché economico e per gli ingredienti facilmente disponibili: patate, verdura e pane raffermo affettato, con poco olio e un po' più di sale per stimolare la sete e riempire lo stomaco.
Mentre i legumi si cuocevano a fuoco lento in un recipiente di terracotta in un angolo del camino, le patate, la verdura e il pane si cuocevano nella pentola che era appesa alla camastra (una catena a grossi anelli di ferro, a sua volta appesa a un ferro messo di traverso nella canna fumaria).
La superficie interna era rivestita di uno strato leggero di stagno allo scopo di tenere isolato il rame dal cibo in cottura. Era risaputo da tutti, anche dai contadini, che il rame a contatto con il cibo provocava intossicazioni e conseguenti dolori allo stomaco e all'addome, spesso con esiti letali.
Lo stagno veniva passato sulla superficie interna della pentola, del piatto e di tutti gli altri recipienti che si usavano in casa e che servivano per l'alimentazione. Quando questi erano arroventati sul fuoco della fornace, con una paletta si stendeva lo stagno su tutta la superficie senza lasciare scoperto alcun punto. Qualche artigiano, per risparmiare fatica e materia prima, lo stendeva con la spugna. In questo modo sprecava poco stagno, ma metteva a repentaglio il buon nome della bottega.
Lo stagnino riparava non solo le pentole d'uso quotidiano, ma ancheli quacquie (grossi recipienti alti almeno mezzo metro dentro cui i pastori scaldavano il latte per fare ricotta, mozzarelle, caciocavalli, ecc.). Allora questa produzione di latticini era molto sviluppata e i prodotti nostrani arrivavano fino a Foggia perché in paese, all'infuori dei professionisti, non c'erano molti acquirenti. Ancora oggi durante le feste patronali si vendono quelle grosse pentole in rame stagnato.
Attualmente c'è ancora qualche stagnare che si limita a piccole riparazioni o alla produzione di oggetti di piccole dimensioni.
Il calderaio
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