Vivevano quasi sempre in campagna ed erano, nella quasi totalità, analfabeti, tranne poche eccezioni. Sempre a contatto con la terra e le bestie, conoscevano poco o niente dello sviluppo e del progresso civile che avveniva nella società.
Al contadino, pur essendo un gran lavoratore, che produceva per sé e per la società, nessuno mai perdonò di fare quel mestiere e di condurre quella vita. Quasi un castigo di Dio. Come mai? Scommetto che nessuno al mondo sa spiegarselo e dare una risposta convincente. Il vocabolario Zingarelli così lo definisce: “persona rozza, ignorante, villana, materiale, grossolana...”
In Festa della memoria, libretto scritto dal preside Tommaso Nardella , si legge, riferendosi a don Francesco Potenza, sacerdote e teologo, che
pe arraggiunà nu cozze, non ce vò natu cozze ma lu cozze de l'accetta (Per discutere con un contadino non ci vuole un altro contadino, ma la parte opposta dell'accetta).
In ultima analisi, in quella società, poco ci mancava a dire che era un disonore, una vergogna avere tra i piedi un contadino.
Il contadino, zappando, portava sempre con sé la sderrazza: un piccolo attrezzo, che, molto spesso, durante la giornata di lavoro, gli occorreva per pulire la zappa dalla terra che si incrostava. Era un piccolo arnese, di cui non poteva fare a meno. Era un semplice triangolino di lamiera di cinque, sei centimetri di lato con un manico di una ventina di centimetri che il fabbro ferraio, dopo aver fatto arroventare ben bene, attorcigliava su se stesso tanto da farlo diventare la metà; all'estremità terminava con un occhiello che serviva ad appenderlo ad un uncinetto di filo di ferro che il contadino portava sempre infilato nella cinghia dei pantaloni dalla parte posteriore dell'anca.
Il contadino viveva continuamente in campagna e non conosceva né feste né riposo. Iniziava a lavorare la mattina molto presto e smetteva la sera molto tardi, con il buio. A volte, quando c'era la luna piena, lavorava di zappa anche di notte perché la majesa (il maggese) fosse pronta a tempo debito. Questo lavoro era uno dei più faticosi, scomodi e portatore di malattie reumatiche. L'uomo zappando si immergeva nella terra umida per ore e ore, con il bel tempo e con la pioggia, senza soste, da mane a sera. Dopo una giornata di molte ore di duro lavoro, si preparava la cena consistente in un panecotte. Tutto qui. La stessa cosa faceva la mattina. Non esisteva colazione, pranzo e cena, con primo, secondo e frutta. Il contadino di allora, come del resto gli altri lavoratori, non aveva la preoccupazione di eccedere in fatto di calorie e proteine. Non aveva problemi di pressione o di colesterolo. Il diabete non si sapeva neppure cosa fosse. Ma, allora ci si potrebbe chiedere se quel lavoratore viveva in buona salute e molto più a lungo.
La maggior parte dei contadini lavorava la terra non di sua proprietà. Erano affittuari e pagavano il terraggio a fine raccolto. Se il raccolto era buono, nel senso che permetteva di far fronte agli impegni assunti, tutto bene, altrimenti ci rimetteva l'osso del collo. Il padrone della gesina (appezzamento di terra) lo costringeva a pagare in tutti i modi, anche sequestrandogli le bestie, la casa ed altro. Non per niente i grandi proprietari terrieri sono padroni di molte casupole dei quartieri popolari di Sammarco, come lu Casalotte, li Murgette, ecc. Proprio per evitare questa eventualità il contadino lavorava anche di notte: non voleva fare brutta figura davanti ai paesani e al padrone. La preoccupazione era assillante e non gli dava pace. Se allevava qualche animale
, come pecore, galline, maiali, lo faceva unicamente allo scopo di integrare il magro reddito che riusciva a realizzare nell'arco dell'anno lavorativo. Le poche pecore gli servivano per la lana che si otteneva. La lana grezza veniva cardata, filata e fatta tessere a tela per poi ricavarci camicie, mutande, calze per l'inverno, ecc.
Le uova che producevano le galline erano destinate al mercato come pure la verdura che portava in paese ogni mattina, quando ce n'era. A primavera le chiocce facevano nidiate di pulcini e nell'aia e tutt'intorno non si sentiva che il pigolio di decine e decine di pulcini dai mille colori, sempre in cerca di chicchi da mangiare. Molti di questi pulcini venivano venduti a chi intendeva allevarli. Altri, invece, venivano cresciuti, soprattutto se galli, perché si trovassero col peso ideale per essere venduti a Ferragosto. Il contadino li allevava, li cresceva e difficilmente ne mangiava qualcuno. Quanto ai pochi maiali che allevava, in autunno sceglieva chi più si prestava ad essere ingrassato e dopo averlo fatto sanà (castrare), lo metteva all'ingrasso, perché a Natale arrivasse col peso giusto per essere macellato e venduto per mettere da parte qualche soldo per la famiglia.
Ovviamente non tutti i contadini si trovavano nelle stesse condizioni economiche. C'erano certamente delle diversità sia per la composizione familiare sia per la comodità e fertilità della terra. In certe famiglie, per esempio, c'erano molti uomini, il padre e tre, quattro figli maschi e, quindi, c'era una forza lavoro capace di portare avanti un'azienda agricola di una certa consistenza. Questo permetteva alla famiglia di avere un tenore di vita leggermente superiore agli altri contadini. Inoltre se bastavano solo alcune persone a "tirare avanti la gesina", gli altri andavano a lavorare alle dipendenze di terzi, a fare la majesa dai proprietari della zona oppure a zappare nelle vigne di San Severo dove si lavorava di meno e si guadagnava di più. In primavera tutti andavano a sciuppà fave (estirpare le fave) e in questo periodo guadagnavano quel tanto per poter affrontare con una certa tranquillità le spese per la successiva campagna della mietitura.
Il nostro contadino iniziava i lavori dell'aratura per la semina del grano agli inizi di settembre (a seconda della zona).
Si aveva e si ha un bel dire che lu cozze era ignorante, rozzo, incivile, ecc. Il fatto è che quell'uomo sin da bambino non aveva avuto la minima istruzione e aveva sempre lavorato.
Certamente non aveva la minima cognizione del vivere civile e pertanto il suo comportamento rispecchiava una realtà oggettiva, vale a dire secondo un cliché ricevuto dagli anziani che aveva conosciuto fin dalla più tenera età.
Durante l'inverno, quando la neve (e ne faceva tanta) copriva tutto, si portava al paese, nella sua casa, il mulo, o l'asino, le galline, qualche pecora, il maiale e lui se ne andava a zappare nelle vigne di San Severo. Solo quando il sole della primavera scioglieva la neve se ne tornava allu vosche a seminare le patate, il granoturco e le verdure per l'estate successiva. Infatti sia il granoturco che le patate si raccolgono in estate avanzata.
A fine giugno il contadino della montagna si preparava per la mietitura del suo grano. La mietitura avveniva con la falce (Immagine) , a mano. Anche questo era un lavoro duro perché tutta la giornata, sotto il sole cocente, stava chino, con la nuca e la schiena esposta; lavorava con la falce in una mano mentre con l'altra teneva il grano, protetta dalle cannidde (pezzi di canne infilate alle dita) per evitare infortuni, nel caso in cui le dita inavvertitamente si fossero trovate a contatto con la falce sempre affilata come un rasoio.
La paranza era composta da quattro mietitori e un liante, colui che raccoglieva li iermete (fasci di spighe), una decina delle quali formavano nu manocchie (covone). I covoni venivano adacchiate, cioè messi assieme a gruppi di trenta e più e formavano, appunto, l'acchie. Quando, poi, li si trasportava sull'aia si usavano li cevére, che consistevano in due specie di gabbie montate sul basto del cavallo.
Allora pe pesà lu rane (trebbiare il grano) bisognava spargere sull'aia i covoni ben sciolti. Il contadino, al centro, con una lunga briglia guidava il mulo che girava intorno in continuazione sui covoni, allo scopo di frantumare e sgranare le spighe e, perché questa operazione risultasse più efficace, si legava dietro all'animale una grossa lamiera bucherellata, una specie di ciclopica grattugia con sopra una o più grosse pietre.
Per evitare che il mulo si infastidisse per il continuo girare in tondo, gli si applicavano i paraocchi oppure gli bendavano gli occhi con stracci neri. Il contadino, al centro dell'aia, sempre con la capezza in mano, per ingannare il tempo, cantava nenie paesane o sorpassate canzoni dialettali: ... ascigne Rachelina, ascigne, ascigne, / e cu lu lume mmane / vine a parlareme ...
Pezzo interpretato da Festa Farina e Folk
E ancora: . . la vadda di Stignane chiena da menta / passa lu ninne mia e ce allamenta...
Interpretazione ed arrangiamento di Ciro Iannacone
La prima parte del grano era quella da portare a casa del padrone della terra quale terraggio, secondo gli accordi presi all'atto dell'affitto. Dopo si metteva da parte la quantità necessaria per la semina successiva. Il resto, sempre che l'annata fosse stata abbondante, si vendeva per pagare i debiti accumulati durante l'anno e quello che rimaneva serviva per il consumo della famiglia.
Tuttavia, non sempre il raccolto era soddisfacente. In questo caso il contadino si rifaceva con la vendita di patate, granturco, fagioli e tutto quanto aveva seminato oltre al grano.
Finiva così un anno di lavoro e di speranze, il più delle volte andate deluse. Quel contadino guardava sempre verso l'alto, non per pregare, ma per osservare e leggere il cielo dai cui movimenti dipendeva la sua vita: piove, non piove, nevica, soffia la voria, c'è secceta. Il contadino era sempre perseguitato dalle cattive annate e dai malviventi 'legali e illegali'. Quelli legali erano gli agenti delle tasse, i quali si presentavano alla porta di casa per consegnare le carte, che lasciavano nella famiglia la disperazione e le imprecazioni contro i governanti e tutto il creato. Quelli illegali non potevano che essere i ladri e i vari malfattori. I ladri bisognava tenerli d'occhio sempre, altrimenti sparivano le bestie, il raccolto e quanto di meglio c'era a portata di mano: le patate, per esempio, quando venivano cavate dalla terra. Il contadino, infatti, non avendo il tempo a disposizione per portarle tutte al paese e venderle, le interrava in grandi fosse e poi, un po' alla volta, le cavava e vendeva in paese appunto. Bisognava però stare attenti ai ladri, che, come cani da tartufo, riuscivano a individuare il nascondiglio e, di notte, a portarle via. Quando ciò avveniva la famiglia riceveva un colpo durissimo alla sua economia, anche quando, per morte naturale o per incidente, moriva un mulo, un cavallo o un altro animale importante, questo veniva pianto ad alta voce come si piangeva la morte di un parente stretto.
Quel contadino ora non c'è più. Quel contadino, che zappava la terra, mieteva il grano con la falce, faceva tutti i lavori in tutte le stagioni dell'anno aiutato dalla sua intelligenza e sempre con le sue mani, ora non c'è più. Ha terminato il suo ciclo storico e se n'è andato in punta di piedi, senza rumore e senza disturbare nessuno, come del resto aveva fatto venendo al mondo: niente scuola, niente giochi, niente trastulli infantili.
Per concludere, un cenno all'ambiente in cui viveva. Allu vosche teneva la casetta dove dormiva a fianco del mulo. Inoltre aveva il pollaio con le galline che starnazzavano sull'aia, qualche maiale e qualche capra o pecora. Questo era la media generale.
Viveva consumando molte patate e verdure spontanee, con poco pane e ancor meno condimenti. Una dieta molto povera di sostanze proteiche e calorie. Lu panecotte era il pasto abituate.
Quando trasportava in paese i prodotti da vendere, al ritorno se ne tornava carico di letame per concimare i campi.
Quando era festa veniva in paese di buon'ora. Dopo aver scaricato la bestia, andava alla cantina, dove trovava qualche amico con cui beveva il vino. Facevano una chiacchierata sulle ultime novità e via di nuovo verso la campagna per non arrivare tardi. Sia all'andata che al ritorno in campagna andava sempre a piedi perché il mulo era sempre carico di qualcosa. Se portava una persona, questa era o la moglie o la figlia. La moglie lo seguiva dovunque e comunque. Stava con lui in campagna e qui non se ne stava con le mani in mano, ma lavorava con il suo uomo. Dopo aver messo a posto la piccola dimora, lavata la biancheria, preparato il pranzo, all'occorrenza, non si faceva pregare se doveva prendere la zappa e zappare con il suo uomo fino a sera inoltrata. Fra paziente e comprensiva con il marito e con i figli che a quei tempi erano parecchi. La poveretta doveva districarsi tra mille incombenze familiari e non. Nelle famiglie numerose c'erano molti problemi e, senza una donna paziente, comprensiva e piena d'affetto per i suoi cari, non era possibile farvi fronte.
Tuttavia, non bisogna sottovalutare il compito primario della donna di quella società: molto spesso, contro ogni apparenza, in molte famiglie c'era un vero e proprio sistema matriarcale. Infatti, senza una simile donna, equilibrata e decisa, tutto sarebbe andato a rotoli irrimediabilmente. Oggi è già diverso e nessuno rimpiange il passato pur provando tenerezza e comprensione per quei nostri antenati.
A li iarzune corrispondeva un mensile, a seconda del contratto stipulato all'atto dell'assunzione. Il contratto era sempre annuale per chi s'impegnava in questo senso, altrimenti mensile per coloro che prestavano la loro opera in certe stagioni dell'anno. In tutt'e due i casi il lavoratore doveva mangiare a spese del padrone. Questo in generale, ma c'erano dei casi particolari.
Certo la vita del cafone era dura non soltanto per il lavoro che svolgeva durante il giorno, ma anche per come passava la notte. Sì, anche la notte lavorava perché lu curatele almeno due volte chiamava li iarzune a governare le bestie. Tutto il giorno dietro l'aratro, avanti e indietro, senza mai fermarsi, tranne un pochino a mezzogiorno per dare da mangiare ai cavalli e poi riprendere fino a sera inoltrata. Quando rientravano, mettevano a posto le bestie, davano loro da mangiare e passavano a prepararsi lu panecotte per rifocillarsi.
Il fuoco della masseria non era dato dalla legna, ma dalla paglia delle piante delle fave che veniva ammassata e conservata, appunto, per il fuoco durante tutto l'anno: era lu favarazze. D'inverno quel fuoco riscaldava ben poco, soprattutto se la masseria aveva i locali spaziosi.
In una vita fatta di tante ristrettezze c'era poco da stare allegri. I pasti erano sempre i soliti: pancotto con fagioli, lenticchie, cicerchie, fave, ecc. Mai un piatto di pastasciutta, minestrone e via variando.
Prima a Sammarco la birra la bevevano poche persone e tra queste non mancavano gli agricoltori di cui ci occupiamo. Nell'attuale piazza Gramsci c'era un locale, un bar, gestito da Giuseppe Soccio e denominato la 'birreria'. In questo locale non c'erano altri che loro, li massare. Gli altri non avevano la possibilità di bere la birra perché costava troppo e il quantitativo da bere era poco. Molti di questi agricoltori amavano far vedere che spendevano e, spesso, cadevano nella sbruffoneria.
Li iarzune de li massare erano lavoratori bravi e competenti in fatto di accudire le bestie e di lavorare la terra. Conoscevano alla perfezione il mestiere che avevano appreso fin dalla più tenera età. Fin da bambini, i genitori li mandavano nelle masserie a guardare le pecore oppure a stare attenti alli vicce (tacchini). Quando poi diventavano grandicelli, nelle aziende facevano lu scapele (colui che non aveva un ruolo ben determinato, ma che faceva tutto o quasi). Arrivati poi ad una certa età, più o meno ai diciotto anni, diventavano cafoni nel senso che gli consegnavano la retena (due cavalli) e con questa doveva arare o, sotto un carretto, trasportare paglia, grano e altro. Difficilmente un ragazzo che sapeva fare questo mestiere sapeva leggere e scrivere. Non aveva alcuna istruzione. Molte volte non sapeva fare nemmeno la sua firma. Nessuno mai si curava di loro e della loro condizione economica, sociale e culturale. I genitori gli insegnavano l'amore per il lavoro, a mantenersi sempre onesti e ad essere gelosi dell'amore della propria famiglia, a non mancare mai di rispetto ai padroni e alle persone anziane; soprattutto ad avere timore di Dio che era sopra ogni cosa e prima di ogni cosa, e per rispettarlo concretamente, ogni sera, prima di dormire, bisognava rivolgere un ringraziamento al Signore per la giornata trascorsa nella sua grazia.
Ecco il giovane che cresceva nelle campagne del nostro Tavoliere. Di lui si ricorderà puntualmente lo Stato quando gli farà recapitare la cartolina di precetto per il militare e, all'occorrenza, per mandarlo in guerra a farsi ammazzare da qualche nemico che nella sua vita di stenti e patimenti non aveva mai conosciuto. Questo ragazzo, che un giorno sarà un bravissimo lavoratore, conoscitore di ogni ben minimo particolare del proprio mestiere, deve imparare tutto da solo, con l'esperienza, attraverso i racconti e le descrizioni dei compagni di lavoro.
Con la feleterra doveva imparare a segnare li porche (strisce di terra di quattro passi). I solchi dovevano essere diritti il più possibile in modo da mantenere la distanza tra i solchi sempre uguale. E in ciò consisteva l'abilità de lu 'mpurcatore. Per non sbagliare piantava due pali con degli stracci legati alla punta. Uno lo piantava in fondo al limite e l'altro, in corrispondenza, dalla parte opposta. L'aratore partiva con l'aratro da una parte puntando diritto verso lu smattone, appunto il palo con lo straccio. Quando poi arrivava in fondo contava quattro passi e puntava l'aratro verso l'altro smattone e via così sino alla fine dell'appezzamento. Tutto questo perché, quando la semina veniva fatta a mano, il seminatore doveva lanciare a ventaglio il grano per terra e fare in modo che lo spazio tra un solco e l'altro, andando su e giù, venisse coperto completamente. Questo e altro doveva sapere.
Dopo il raccolto si rompevano le terre con lu bevommere (il bivomere), per preparare la terra per la semina successiva. Gli aratri non dovevano avere il tempo di arrugginire.
Tutte le aziende erano fornite di un pozzo di acqua sorgiva che, purtroppo, era quasi sempre salmastra e quindi non potabile. Però ogni masseria era fornita di una cisterna che raccoglieva l'acqua piovana dai tetti del caseggiato e questa riusciva a dissetare gli uomini.
A quei tempi, nelle masserie c'era sporcizia dappertutto. Innanzitutto, a pochi passi dalla porta c'era una grossa massa di letame che ogni mattina lo scapele raccoglieva dalla stalla e portava, appunto, al mucchio. Con questa mancanza di pulizia, d'insetti ce n'erano in abbondanza, soprattutto pulci e cimici. Quando quei lavoratori se ne tornavano al paese per qualche festa, lungo il collo della camicia si notavano inconfondibili i segni lasciati sulla pelle. Ma questi erano segni e basta. Le punture che facevano male veramente, a volte in maniera letale, erano quelle delle zanzare. Spesso si prendeva la malaria, che portava, molte volte alla morte del lavoratore che lasciava nella disperazione e nella miseria più nera la famiglia.
L'acqua putrefatta stagnava nelle pozzanghere e queste erano fonti d'aria malsana. Dalle pozzanghere si diffondeva tutt'intorno un malessere generale che minava l'organismo già debole del cafone.
Queste ed altre difficoltà di carattere generale predisponevano il soggetto ad essere facile preda dei malanni sempre in agguato.
Zanzare, pulci e cimici e sempre lavoro duro e sfruttamento bestiale. Nessuno si accorgeva di tutto questo. Nemmeno chi credeva di stare vicino alla gente che soffriva in silenzio senza mai chiedere niente a nessuno.
Fortunato il lavoratore che riusciva a lavorare alle dipendenze di un datore di lavoro benestante, onesto e che sapeva apprezzare quanto facevano i dipendenti.