Erano donne di famiglie povere e bisognose di tutto e di tutti. Facevano il bucato semplice se si trattava di biancheria minuta, ma molto spesso dovevano affrontare il bucato più corposo, con l'apporto della liscija la cui azione emolliente riusciva a pulire a fondo tutto quanto veniva messo nella tinozza (la tina). C'è da tenere presente che a quei tempi non si lavava spesso come ora e, pertanto, era duro aver ragione dello sporco di camicie, mutande e maglie di lana usate per molto tempo. Quel lavoro si svolgeva in locali specifici: stalle o locali adibiti esclusivamente per alcune occasioni come, appunto, fare il bucato o la salsa di pomodori; bastava che avessero la cisterna piena d'acqua e il camino con la legna stagionata.
Da ricordare un particolare che a noi può sembrare incredibile: in quella cenere veniva inserito il resto di un ramoscello bruciato di lauro (alloro) il quale trasmetteva, attraverso l'acqua che sgocciolava, il suo profumo rendendo più gradevole il bucato.
Arrivati a questo punto, ormai non c'era altro da fare che tirare via tutto dalla tina e, capo per capo, strizzare e risciacquare con acqua fresca e abbondante. Ancora un'ultima strizzata e via verso lu spanneture che generalmente si trovava sulla parte superiore dell'attuale strada per Sannicandro. Su quelle pietre si stendeva la biancheria al sole e bisognava aspettare tutta la giornata perche' si asciugasse completamente. Quel giorno la lavandaia, magari con i figli, mangiava lì, sul posto.
Alla sera venivano raccolti i pezzi di biancheria e uno dopo l'altro venivano piegati e messi nelle ceste per essere consegnati alla padrona, la quale, a sua volta, controllava se mancava qualcosa e regolava il conto.
La donna di servizio prendeva quei pochi soldi con gran soddisfazione ma aveva le ossa rotte dalla fatica. Mettersi sulla tina per ore e ore a struculià era faticoso: soprattutto le mani diventavano aggrinzite, accrettate.
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