Vi presento la parte introduttiva di Unità e Brigantaggio, opera scritta dal grande sanmarchese Pasquale Soccio con l'aiuto di Tommaso Nardella. Quest'opera è del 1969. Una persona che conosce San marco in Lamis viene immediatamente colpita dalla attualità di questa analisi: già nel 1969 Pasquale Soccio aveva capito tutto! Notevole è la padronanza della lingua italiana. Il periodare scorre fluido ed è piacevole leggere questa prosa. Il testo è introdotto da un breve filmato (prodotto dal sottoscritto) dell'altro grande Joseph Tusiani. NB. I testi in grassetto o corsivo, le foto ed il video sono state inseriti dallo scrivente.
Il webmaster
Nascosta in un'ampia conca carsica, a ridosso di un monte che se un tempo la proteggeva oggi la opprime, si trova la città di San Marco in Lamis, quasi alla soglia dell'unica grande porta del Gargano interno verso il Tavoliere. A pochi chilometri dalla pianura, al limite di boschi millenari e querceti, non vista, sepolta in una valle d'angusto orizzonte, agevolmente invece ha modo di scrutare immensi spazi dalle alture aeree di Castelpagano, di Rignano e del suo monte Celano. Posto ideale, dunque, per i re della strada e della foresta: qui il brigantaggio trovò il suo centro naturale e ideale, per la possibile rapidità d'incursioni e aggressioni e il fulmineo dileguarsi, ora verso la pianura, ora a monte, tra boschi, dirupi, grotte e doline.
Minuscolo borgo tra le paludi (lame) del fondo valle, sorto, intorno al Mille o poco prima, sulla via sacra dei Longobardi che menava al santuario di S. Michele in Monte S. Angelo; vissuto miseramente all'ombra feudale della sovrastante e potente abbazia benedettina, tanto che ancora intorno al 1648 contava appena 600 abitanti; affrancato da ogni residua feudalità badiale solo nel 1782; il borgo rapidamente "s'incamminò a diventar città" per la rapida fioritura dell'attività agricola e artigianale, e nel 1814 contava già 14.500 abitanti, avendo ottenuto il titolo di città fin dal 1793. Subì poi questa evoluzione nel numero degli abitanti: 15.350 nel 1861, 18.200 nel 1921, 22.050 nel 1951, 19.014 nel 1961. Mentre qui la popolazione inesorabilmente decresce, nelle finitime città di S. Giovanni Rotondo e di Sannicandro si verifica il fenomeno opposto, per motivi turistici, industriali e religiosi.
Per converso, a parte i numerosi cittadini scesi nel Tavoliere, a Foggia, a S. Severo, ad Apricena, a Sannicandro, e in altre parti della regione e dell'Italia, si contano attualmente 4.000 emigrati nel Canada, 8.000 negli U.S.A., 3.000 in Argentina e circa 12.000 in Australia; senza tener conto degli emigrati temporanei in Africa e in Europa, specialmente in Germania.Una volta fiorente centro artigianale per apprezzati lavori in ferro, legno e oro, è stato, nel contempo, soprattutto uno delle più prospere città agricole della Daunia, espandendosi l'attivissima popolazione di agricoltori, di contadini, di braccianti, di terrazzani e manovali generici dalle porte di Foggia (Arpi Nova), di Manfredonia, di S. Severo e di Apricena.
Inoltre la zona montana del Gargano occidentale fino alle alture di Sannicandro e di Cagnano è stata intensamente coltivata ed abitata esclusivamente in loco da validissimi e tenaci contadini sammarchesi.
Si è usato il passato prossimo, quando invece andrebbe meglio il passato remoto, perché la popolazione agricola nelle zone collinose sta diventando pressoché inesistente. Anche se mutate le condizioni socio-economiche, di là da condizioni storielle contingenti, permane nella gente dei campi una sanguinosa lotta più che millenaria tra coltivatori di campi e allevatori di armenti: ricerca di spazio vitale per il grano o per il pascolo.
Nei remotissimi tempi, con la scoperta del prezioso triticum (grano, ndr) per l'alimentazione umana, fin dalle civiltà protostoriche subappenniniche e daune, ebbe inizio una lotta ancestrale tra il contadino e il pastore. Il primo spinse il secondo dalla pianura ai monti, dal Tavoliere al Gargano; il secondo quasi scomparve, o ebbe una zona ristrettissima almeno nella parte occidentale garganica che ci interessa. Infatti, qui, nonostante la ferrea legge aragonese sulla mena delle pecore, i contadini ebbero il sopravvento, specie negli ultimi tre secoli, tanto che nel triangolo San Marco-Sannicandro-Apricena di bosco o di foresta non era rimasto che il nome. Stanno ad attestarlo le numerosissime casette rurali, a breve distanza tra loro, e ora in gran parte abbandonate.
Attualmente la lotta volge a favore dei pastori, anzi dei caprai. Per l'indomabile prepotenza di questi, poiché l'allevamento del bestiame è sempre più redditizio, la contesa assume aspetti sanguinosamente tragici (Nota 1) per l'efferato fenomeno dell'abigeato. In ogni pastore, anzi in ogni capraio, a quando a quando dorme e si sveglia l'atavico istinto dell'abigeatario.
Pertanto, in quest'ultimo decennio, l'abbandono dei campi è divenuto una vera fuga precipitosa e collettiva. Mandar via i superstiti contadini ancora tenacemente fedeli alla terra, incutendo loro terrore col furto o con la rapina, è, invero, il consapevole programma degli abigeatari, onde avere a disposizione i necessari pascoli per i loro grossi armenti, che si accrescono miracolosamente di centinaia di capi da una notte all'altra. Quindi il rapido spopolamento delle campagne è, sì, dovuto all'avvilente reddito agricolo, ma anche a questa remota lotta di fondo. L'attività industriale, con le sue migliori offerte di lavoro e i dinamici miraggi dell'urbanesimo, è una strana alleata degli allevatori e degli abigeatari. Questi, con la loro fame di terra e con decisa volontà delittuosa, divenuti padroni della strada e delle balze garganiche, hanno scoraggiato nei contadini ogni superstite desiderio di permanenza sul fondo.
La diaspora di questa gente rurale è un triste fenomeno: conservava essa il nobile ceppo delle più gentili e civili tradizioni (dai contadini garganici, prima che da Arato di Soli, chi scrive ha appreso a calcolare le fasi della luna, a rilevare il benefico giro del sole e l'ordinato viaggio notturno delle stelle; e ha anche imparato a sapere adeguare saggiamente il respiro della propria vita al ritmo delle stagioni e ai loro capricci, con l'illusorio conforto di pronostici espressi in proverbio).
Alle radici di questo contrasto perenne e antichissimo, a motivi economici, sociali, psicologici ed etnologici, allotrii e peculiari, che ora si intrecciano e ora si scontrano, va ricondotta la questione meridionale.
Al presente, pertanto, abbiamo da una parte un nucleo sparuto di contadini, con il loro amore alla terra tanto più ostinato ed esclusivo quanto più improduttivo e pericoloso; dall'altra il dominio sempre più incontrastato dei mandriani: la mitezza dei primi cede il posto alla prepotenza armata dei secondi. Vi è uno stretto rapporto di filiazione: gli abigeatari di oggi sono figli dei disertori della prima guerra mondiale; questi a loro volta dei briganti del periodo unitario; i quali, poi, si richiamano ai briganti del periodo napoleonico, che, da buoni sanfedisti, nel febbraio del 1799, scesero in massa dalle alture di Castelpagano contro i francesi nella famosa battaglia di S. Severo; e, questi ultimi, figli degli abigeatari di sempre. È da notare che i capi dei briganti evasi dalle prigioni di Bovino, di Lucera e di altrove, favoriti dalla fuga borbonica, erano tutti, come risulta da liste consultate, condannati per reati comuni: rapine e abigeati.
Tuttavia, il pericolo costituito dalla devastazione dei campi, e conseguente loro isterilimento, prodotta da capre e caprai, preoccupò, anche per i suoi riflessi umani e sociali, il Governo borbonico fin dal secolo scorso. Con rescritto del 9 dicembre 1837 si ordinava una rigorosa immatricolazione, un oculato controllo sia sul ristretto numero di licenze da concedere ai caprai, sia sull'effettuale pascolo, limitato per le capre alle sole zone "montane e soprane" non boschive.
Ma poiché il danno prodotto dai caprai diveniva sempre più vistoso, il 31 luglio 1859 il sindaco riunì d'urgenza il Consiglio, richiamando l'attenzione dei decurioni su una circolare ministeriale del 7 maggio 1858 contenente il divieto del pascolo delle capre nei boschi, l'unico principal mezzo per la conservazione dei boschi cennati, eccettocché ne' luoghi montuosi e soprani secondo il prescritto della legge forestale.
Pertanto il decurionato deliberò di aprire un registro con permessi ristretti e con indicazione del numero preciso delle capre; di punire severamente ogni esercizio abusivo; di ripartire i limitati permessi con "equità" tra "i più bisognosi, ed onesti". Ma stando al periodo della nostra vicenda, cioè agli anni dell'Unità e del brigantaggio, il governatore di Foggia, Bardesono di Rigras, amico di Cavour e futuro giudice a Bologna in una inchiesta su Carducci repubblicano, scriveva al luogotenente generale in Napoli:
Nel Gargano universale e radicato è lo spirito reazionario originato dalle intemperanze, dalle estorsioni, dalle violenze commesse in nome della libertà.
Intanto è da notare che, come altrove nell'Italia meridionale di allora, l'avidità cieca della grossa borghesia, l'ottusa pavidità della piccola e media borghesia e l'invadenza clericale consentivano la paradossale situazione che banditi e Guardia nazionale in un primo tempo, provvedessero all'ordine.
'Sulla parte occidentale del Gargano vi sono poi due bande di briganti a cavallo, i quali scorrono la sottostante pianura. Questi sono i banditi di S. Marco in Lamis i quali fino a pochi giorni fa dimoravano nel Comune e concorrevano con la Guardia nazionale al mantenimento dell'ordine, ma in pari tempo commettevano quegli scandalosi furti di intiere mandre, e impunemente rivolgevano ai propretari di Foggia le loro lettere di ricatto mandandone a riscuotere in Foggia il prezzo'.
Qui, per ora, ci preme sottolineare questa acuta e profetica osservazione del giovane governatore: I delitti frequenti sono stati gli abigeati... i quali succedono e succederanno sempre con pari frequenza e impunità. A parte il fatto, come si vedrà, che proprio il giorno in cui egli, con facile ottimismo, scriveva questo rapporto, i briganti entrarono in San Marco da dominatori, combattendo con loro la quasi totalità popolana decisamente in campo aperto contro i piemontesi; a conferma però di quanto osservava sul futuro degli abigeatari, va detto per inciso che ancora nel 1967 sono stati oltre duemila i capi di bestiame (in prevalenza, ovini) rubati o rapinati ai contadini.
Attualmente questi, la notte, origliano con la bocca del fucile tra le feritoie degli umili casolari e, di giorno, sono costretti ad aggirarsi armati, temendo che spesso, col favore della nebbia, sfumi il piccolo gregge che integra i magri proventi agricoli. Lamentano lo scarso sonno: hanno fame di giustizia; rimpiangono, purtroppo, i tempi dell'ordine fascista e della pena di morte. Gli abigeatari, invece, per natura asociali, si avvalgono scaltramente di tutti i mezzi che l'aperta civiltà democratica loro offre, esperti nei cavilli giuridici ed abili nell'evadere dal carcere: nello stesso 1967 ce ne sono stati alcuni, con clamorosa risonanza nazionale. Nella patria di Pietro Giannone profondo è l'ossequio alla legge: i contadini vi si inchinano quando essa è attiva, tentano di sostituirvisi quando è carente; gli abigeatari, al contrario, cercano sempre di venire audacemente a compromesso con le forze dell'ordine.
Persiste, però, una certa valida attività agricola dei massari sammarchesi, coltivando questi con mezzi moderni la vasta parte del Tavoliere che circonda il Gargano sud-occidentale.
Mortificata ed irrisa dai soverchianti e meno costosi prodotti meccanici l'iniziativa artigianale, la città, priva di qualsiasi attività industriale propria, non ricavando alcun beneficio, come S. Giovanni Rotondo, dalle miniere di bauxite, langue nell'attesa di una vita migliore, ma senza pratiche o immediate possibilità. Pertanto vivo è il desiderio di evasione di gran parte degli abitanti e della stessa folta ed apprezzata schiera di professionisti.
Il Gargano è ora entrato nel boom dell'attenzione turistica nazionale ed internazionale. Ma l'interno quadro del Promontorio è ancora fosco: mancano energia elettrica, acqua e strade. Questa triplice assenza è la più forte alleata degli abigeatari. Inoltrarsi nell'interno del quadrilatero garganico, che va da Monte Spigno alla "Grava" di Zazzano, da Cagnano a Castelpagano, è come tentare una rischiosa avventura nella giungla: ancora come ai tempi del toscano e garibaldino Temistocle Mariotti, venuto sul Gargano per la repressione del brigantaggio negli anni 1862-63.
Vive S. Marco in Lamis un annuale suo momento televisivo di attenzione nazionale la sera del venerdì santo con la processione delle "fracchie". Si tratta di un originalissimo corteggio di numerosi carri di fuoco, trainati con lunghe catene da uomini che appaiono e scompaiono, tra lampeggi e fumo, in un graveolente odor di petrolio sparso per alimentare la fiamma. Questo primaverile rito del fuoco purificatore è uno spettacolo di selvaggia bellezza; è una singolare commistione o una felice fusione di tenaci tradizioni popolari greche, romane e cristiane; è una manifestazione folkloristica garganica a cui non si è badato ancora abbastanza. Ma da alcuni anni in qua il numero dei visitatori aumenta, atterrito e affascinato da questo fragor di carriaggi, moventi verso l'infinito, tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi.
Al tempo della nostra vicenda, ecco come apparve la città all'immaginario protagonista di un noto racconto brigantesco:
Come uno spaccato verde tra gli avidi colli, s'apriva, fresco d'alba, il vallone dove si stipa San Marco in Lamis, paese singolare per la distribuzione regolare delle strade ai lati della via maestra, onde le rosse, livide file di tetti a due spioventi uguali, uguali anch'esse le case d'altezza e dimensione, si allineano e si spartiscono come un ammattonato a spina. Quei contadini coltivano coste e fondo del vallone, tesoreggiando la terra rossa fin dove ne trovano tra i sassi tanta da riempire uno dei loro berretti tondi, che chiaman "còppole". E ciò si diceva, allora e adesso, lavorare la terra a coppola, per dire che è coltivata fin dove ce n'è un pugno.
Vite e vite d'uomini passarono e si trasmisero a sterrare, a diradare i sassi, che in quel suolo par che faccian seme, per ampliare la terra coltiva. Penarono, s’incurvarono; fecero schiene e mani nocchiute e dure; si legarono alla terra con la fatica, con la fame, con la gratitudine, con la disperazione, ripetendo da lei il bene e i frutti, dall'aria i pericoli e le insidie, i tradimenti della tempesta: e, quando non fa male il secco estivo, fa male il secco dell'inverno; il primo dei quali distrugge i frutti, e il secondo anche le piante. E se, due volte al secolo, piove, viene a diluvio, con alluvioni e frane, che si portano paesi e boschi, le terre e le case. (Riccardo Bacchelli, Il Brigante di Tacca del Lupo).
Pasquale Soccio, Unità e Brigantaggio, ESI, 1969