VI. Un'allegazione di N. M. Cimaglia.
L'autorevole giureconsulto inizia con una premessa perentoria: ‘La restituzione del Patronato del Re N. S. sulla Real Badia di S. Giovanni in Lamis riesce l'opera la più lieve e la più giusta, per lo zelo di D. Luca-Giovanni Plescia, il quale incontratosi negli opportuni autentici istromenti, che lo dimostrano, ha creduto, qual onorato vassallo, doverne avvertire il nostro sovrano, per rimetterlo in quel giusto possesso ch'i di lui Serenissimi Antecessori pienamente han goduto’. Si tratta dunque di una opera ‘lieve’, cioè di facile dimostrazione giuridica e quindi ‘giusta’.
Nella sua rincorsa storica di cotanto diritto ‘originario’ egli come ormai tutti, si rifà ai cinque diplomi della ‘pingue dotazione’ concessa ‘da' Serenissimi Imperadori Costantinopolitani’. Detti diplomi, ‘spediti di ordine Sovrano da' loro Ministri’ furono ‘riconosciuti ed osservati da' Principi successori, i quali ne hanno goduto in seguito la piena onorificenza’. Quindi dichiara che sarà sua ‘cura mettere in chiaro aspetto il dritto originario di questo Real Patronato, esaminando i diplomi della Sovrana dotazione con le più sicure massime del diritto canonico: per indi dimostarare il lungo possesso del Patronato istesso, annesso indivisibilmente alla Real Corona, alla quale uopo è che finalmente si restituisca’.
Dopo una ‘Notizia’ sulla ‘sovranità dei Greci in Puglia estinta ne' Normandi’ egli passa all'esame dei noti ‘Diplomi della Real Dotazione, da' quali dipende il real Patronato’ con imprescindibili diritti sovrani, antecedenti allo Stato vassallo normanno. Riproducendo il testo dei cinque diplomi bizantini inclusi nel documento definitivo del conte Enrico di Montesantangelo, ne trae la conclusione della successiva e indebita ingerenza pontificia. Evidente l'assidua lettura della Istoria civile e del suo motivo ispiratore. Nelle concessioni confermate dal catapano Curcua, come già ho avuto modo di sottolineare a suo luogo, anche Cimaglia, sulla scia di Giannone, punta l'attenzione sulla esplicita clausola riguardante ‘la garentigia che dà il Catapano da' Vescovi ed Arcivescovi d'Italia’: ‘Unde praecipimus... ut nullus Episcopus, Archiepiscopus Italiae audeat aliquod impetere, quia consuetae non sunt, sed sit in demanio, et protestate monasterii supradicti’. Egli, pertanto, annota, con una punta d'ironia: ‘Vedasi, se’, sia proprio il caso che ‘per darsi la dote canonica alla Chiesa, bisogni il consenso del Vescovo del luogo’. E aggiunge, circa gli homines, presenti e venturi, fondatori e abitanti di casali, che essi ‘sono i Villani riconosciuti nelle nostre Costituzioni; autori poi delle Terre e Castelli di S. Giovanni, S. Marco, etc.’; e spiega: ‘I greci non concedevano feudi, ed in Italia per esprimere i Casali ed altre abitazioni servili, si contennero sempre in queste espressioni’. Sarà utile ripetere il testo del Curcua: ‘Si homines Calabriae, Italiae huc ad habitandum venerint sint quieti ab omni angaria (Nota 68), et servitio Curiae nostrae’.
In merito P. Corsi meglio precisa anche che nelle concessioni del Curcua vi è un esplicito riferimento a ‘uno dei principali istituti parafeudali della società bizantina dell'epoca, e del suo trapianto nella provincia bizantina d'Italia, accanto ad altri istituti di origine e tradizione diversa’. Il catapano dispone che ‘ogni uomo di Calabria e d'Italia, venuto a stabilirsi sulle terre del monastero, sia esentato da ogni angaria e servizio statale, il che sembra corrispondere almeno in parte - pur non sottovalutando i rischi di una interpretazione non condotta sul testo originale (cioè quello greco) - alla conclusione cui giunge il Lemerle, seguito dal Borsari, il quale si è occupato della questione per la Puglia bizantina ed ha fatto il punto della cospicua letteratura sull'argomento’. Questo istituto consisteva nella ‘esenzione da ogni corvée o requisizione fiscale, l'esenzione completa cioè da ogni carico fiscale verso lo Stato’ (Nota 69).
Dopo aver annotato i successivi diplomi dei Catapani, Cristoforo, Biviano (o Boianes) e di Argiro, Cimaglia si sofferma sulle concessioni di Enrico di Montesantangelo a Lucera e ribadisce: ‘Dalla ricognizione delli fondi dotali, che fa il Conte Errico, si vede che tutto ciocché la Badia possedeva, era prodotto dalle donazioni dei sovrani Greci, e nel giro di quelle terre vi riconosce il casale di S. Giovanni Rotondo, o sia alle Lame, per scripta publica Graecorum, sicut superius est expressum’.
La dichiarazione di Enrico: ‘In perpetuum confirmavi, per fustem pro parte dicti monasterii te, tuosque successores investivi’, è cosi commentata: ‘Questa è la sollenne formola stabilita dalle leggi di que' secoli, per dinotare la qualità feudale de' beni, che da' Sovrani si assignavano’; e conclude: ‘Erano dunque allora i beni della Badia nel libero demanio feudale del contado di Montesantangelo, onde gli abbitanti del contado potevano a loro voglia usarne, con corrispondere al Barone investito la dovuta contribuzione’. ‘Ed i vassalli della badia, come parte del contado dovevano godere della promiscuità e libertà istessa co' vicini, perché tutto il contado era di una sola, ed uniforme natura. E perciò il Conte riconosce il monistero, come Suo, o sia di suo Patronato, perché teneva la sua dote de bonis regni’. ‘Degli avvocati delle Chiese, senza de' quali non potevano i monaci intraprendere alcun giudizio, è noto il dritto’. ‘La sovranità del Conte Errico non era perfetta, poiché egli adorava la maestà del trono Costantinopolitano, da cui aveva l'investitura del contado’.
In tal modo i Catapani, pur autorizzati a concedere o confermare beni e privilegi, quali vicari, erano sempre i monarchi bizantini ‘i veri dotanti’: in merito, ‘I Monarchi che costituirono la prima dote alla Badia di S. Giovanni furono Basilio, e Costantino VIII’. Come si può rilevare, fin qui la tesi legalistica di Cimaglia è guidata con insistenza dal polo giannoniano. Orbene, fondandosi sulla ‘trascritta serie dei diplomi’ e sulla base dei testi consensuali di diritto canonico e civile, il giureconsulto poggia il suo ‘assunto’ su questo ragionamento sillogistico:
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‘Abbiamo dunque da' cinque diplomi, che tutta la roba e tutti i fondi della Badia di S. Giovanni pervennero dalla donazione e dotazione de' Monarchi Greci’. ‘Non resta dubbio alcuno, che fu trattato di tutti i beni della Badia, de' quali il Conte Errico, doppo riconosciuti i diplomi greci, ne descrisse di nuovo i confini, i quali sono tuttavia il fondo dotale di questa Badia’.
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‘Non è da recarsi in controversia, che il principale modo con cui si acquisti il Padronato, sia la dotazione della Chiesa, ed è comune la massima de' Giureconsulti, passata poi in adagio: Patronum faciunt DOS, aedificatio, fundus. La sola erezione di una Chiesa produce benanche il Padronato, ma la Chiesa non può reggere senza la congrua dote’ data dallo Stato. ‘La dotazione adunque, poiché forma il perpetuo sostegno della Chiesa, con ogni ragione si riputò dagli antichi Giureconsulti la causa potissima dalla quale sorgesse il Padronato’.
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Quindi, 'non è da controvertirsi punto, che il Sovrano del Regno colla dotazione data alla Chiesa di S. Giovanni in Lamis, acquistò il pieno e fermo dritto del padronato: I Diplomi non permettono punto dubitare, che tutta l'intiera dote provenne dal solo ed unico Sovrano fonte’.
Tanto premesso, ne deriva che ‘è massima conosciuta nel dritto canonico, che il padronato si acquisti ipso facto per la fondazione, e dotazione, senza bisogno di manifesta dichiarazione e riserva’. ‘L'imporre a' monaci il peso di pregare il Signore Iddio per la felicità e grandezza del dotante, non è che un effetto del Padronato: e l'effetto il più antico dalla Chiesa riconosciuto, come insegnano concordemente tutti i Canonisti’. Comunque, per quanto ci interessa, circa il padronato, c'è una esplicita dichiarazione nel diploma di Argiro, nelle parole ‘post obitum, Monachi ponant Abatem, secundum regulam, quem viderint honestum et probum. Unde hic nos jussu Imperiali confirmamus etc.’. Inoltre, conseguenza di sommo rilievo, si nota la prassi seguita nel tempo (talvolta non senza contrasti) circa la nomina degli abati. ‘È noto che in tutte le chiese conventuali non si arrogarono mai i Patroni altra facoltà che la sola conferma degli abbati, non avendo i Patroni voluto derogare la regola de' Monaci’. ‘I nostri monarchi’, pertanto, si sono sempre riservato il diritto della conferma degli abati eletti dalla comunità religiosa.
Conclusione: ‘L'essersi adunque fatta menzione, nel diploma di Argiro dell'elezione dell'abbate, dimostra, che oltre all'acquisto del Padronato fatto da que' Sovrani ipso tunc per la dotazione della Badia, fecero que' supremi Ministri ne' Diplomi istessi memoria espressa del Patronato acquistato da' loro Sovrani, per la certa e sicura disposizione delle leggi civili, e pontificie’. Infine è da aggiungere che la ‘più sollenne dichiarazione del Sovrano Patronato è quella che fa il conte Errico nel nostro diploma, il quale chiama la Badia ripetite volte nostrum Monasterium’.
Restano ancora da precisare circa la natura del nostro feudo i rapporti tra il sovrano, i vassalli, usufruttuari temporanei del feudo e gli homines, i soggetti dei casali. Cimaglia precisa che nelle dotazioni de' sovrani Greci ‘non si parla affatto di feudi’ e ciò nonostante ‘i beni dotali della Badia formano un specioso feudo’. ‘Ma chi non sa che la parola feudo, fu vocabolo ignoto a' Greci. I territorj dati in dote alla Badia erano proprietà del Sovrano, ed avevano que' naturali uomini addicti glebae, da' quali poi si sono formate le terre di S. Giovanni Rotondo e di S. Marco in Lamis. Il Conte Errico, benché soggetto a' Greci, parlò nel suo Diploma col linguaggio generale del paese, ed in que' territorj dati dal Sovrano in ragione di semplici poderi, riconobbe i Vassalli, e '1 feudo. Ed egli si sa che molte terre nel nostro regno sono sorte da questi Vichi de' servi Ascrittizj, (de' quali le Costituzioni del Regno soventi parlano), e specialmente di que' servi che a bella posta i Monaci ed altri ricchi cittadini adunavano, per formarne tante ville, prima col nome di Casali, indi con quello di Terre. Ma di tutti que' poderi, che dipendevano dal pieno dominio del Monarca, furono creati da' Normandi tanti feudi jure francorum, membri indivisibili della corona, e perpetuo fondo della sovranità’.
Nel registro dei Baroni del Regno tra i feudatari si legge: ‘Abbas S. Joannis in Lama’. E alla fine dello stesso registro sotto la rubrica ‘Hi sunt praelati feudatarii Justitiariatus Capitanatae, et Principatus. Abbas S. Joannis in Lama tenet S. Marcum, quod est feudum, et Faczolum quod est feudum unius militis’. Per quanto ci interessa, ci pare di notevole importanza, per lo sviluppo storico degli eventi, dei quali si è discusso nella prima e seconda parte di questo lavoro, questa affermazione di Cimaglia: ‘Il Monarca concede i feudi, cioè i loro frutti, ma la proprietà resta sempre intatta nel Sovrano, ed i frutti istessi de' feudi non si accordano, che in servizio e sostegno del Trono’. ‘Possedendo dunque questa Real Badia per suo primo e solo fondo dotale un feudo, o sia un podere di perpetua proprietà del Sovrano: qual dubio nascerà mai, che il Patronato di lei non spetti al Sovrano istesso, come perpetuo Signore e proprietario de' beni, che formano il sostegno della intiera Badia?’. Si aggiunge: ‘Essendo il feudo quid unum et indivisibile’ spetta ‘il godimento del Patronato a colui che dal Monarca n'è investito’. E ancora a chi ha dotato chiese e monasteri col Patronato acquisito spetta la ‘famosa Regalia’ e la relativa ‘investitura Reale’. ‘Ergo personae ecclesiasticae, quae feuda possidebant, per consequentiam fiebant vaxalli Regum’. ‘Né sono mai per credere che possa ad uomo cadere in testa che un feudatario del regno abbia ad essere nominato al feudo da un principe straniero’ e quindi anche dal papa quale principe. Purtroppo Cimaglia deplora che con gli Angioini questo castello di diritti è stato variamente minato. ‘I nostri sovrani goderono per molti secoli del dritto della Regalia, il quale infelicemente fu loro tolto da' Papi colle ruinose investiture date agli Angioini’. ‘Dice Clemente IV nel 1265 a Carlo I di Angiò nella bolla d'investitura: Item in Ecclesiis vacantibus Rex nulla habebit Regalia, nullusque fructus reditus et proventus etc. Dunque avevano i Monarchi goduto fino a quel punto di questo loro dritto. Io non voglio ingolfarmi nel vasto mare delle investiture, ma chi è colui, che non ne conosca l'insussistenza, per avere que' Monarchi diviso dal Trono, quello ch'era indivisibile, per essere cardinalmente annesso al Regno’. Dopo di che i Papi purtroppo non hanno ‘astenuta la mano’ nell'accampare diritti in feudi e badie; anche se, in prosieguo di tempo, dopo gli Angioini e con Alessandro VI le cose sono state meglio precisate con dirimere diritti e motivi di ingerenza, tanto da far concludere al giureconsulto: ‘Dunque le Chiese che posseggono feudi, anche secondo le leggi pontificie debbono tra noi dipendere come Vassalli dal Re, in qualità di ogni altro Barone’. Tutto sommato, come si può rilevare, siamo alle ragioni di Federico II, ma con una consequenzialità coerentemente radicale (come i nuovi tempi consentivano di affermare) e che imponeva una logica applicazione: non parziale (cioè come il re svevo fece con la decurtazione di S. Giovanni Rotondo) ma totale, ovverossia con la restituzione al reale patronato di tutti i beni della badia, in quanto che questa ‘cardinalmente’ e ‘indivisibilmente’ con ‘il contado tutto’ era ‘di una sola ed uniforme natura’.