Dall'alba al patetico tramonto, nel destino di questa grande badia benedettina, col suo iter drammatico e la sua concitata fine, ci si imbatte in decisioni determinanti di papi: nel 1167 l'erosione iniziale del feudo decisa da Alessandro III; nel 1327, momento cruciale nella storia della badia, l'istituto dell'abate commendatario voluta da Giovanni XXII; e nel 1379 la frettolosa e, si vorrebbe dire, concorrente liquidazione, con l'eventuale alienazione totale o parziale, di terre ordinate in Fondi da Clemente VII, da poco eletto papa in contrapposizione a Urbano VI.
Nell'intermezzo o, meglio, nell'intreccio degli interessi delle due Curie, papale e reale, cioè circa la mutata natura giuridica del feudo (o suffeudo con beni in servizio), incluso nell'Honor Montis Sancti Angeli, operato da Guglielmo II e della sottrazione della terra di S. Giovanni Rotondo deliberata a Capua da Federico II si è già detto; dell'azione diretta o indiretta degli angioini si dirà fra poco.
Il 1 luglio 1227 i giudici delegati convocano a Benevento per 1'8 settembre i predetti querelati.
Questi, non si comprende se per un atto di baldanza o di protesta, non si presentano a Benevento per la data fissata e l'11 settembre sono condannati in contumacia. Obbligati al pagamento delle spese del giudizio, sono infine colpiti da un interdetto e comunque invitati di nuovo a presentarsi in giudizio nel termine perentorio di quindici giorni.
Finalmente il 16 settembre l'abate Roberto si decide a delegare come suo procuratore il monaco Andrea dello stesso monastero con l'istanza di revocare la condanna alle spese di giudizio e l'interdetto da cui gli imputati erano stati colpiti.
Senonché il 2 ottobre 1227 l'abate Aliberto e gli altri giudici, respingendo come prive di consistenza le ragioni presentate dal procuratore Andrea, notificano la scomunica all'abate e al convento del monastero di S. Giovanni in Lamis (dd. 13-19).
Non sappiamo quali ulteriori sviluppi abbia avuto questa vicenda che riconosceva all'abate di Cava i diritti di pesca nel pantano di S. Egidio, ora scomparso, nei pressi di S. Giovanni Rotondo. Ci manca per il momento ogni altra documentazione in merito; del resto, per questo documento esistente (ci si consenta la battuta) anche i topi, roditori per natura, hanno voluto la loro parte.
IX. Un episodio increscioso e premonitore.
X. La mala signoria.
‘Mal di Francia’, si intende, in senso storico-politico.
A proposito della politica angioina nel Regno, con buone ragioni storiche, si può discutere e dissentire dal giudizio sommario e polemico di Dante (Nota 15) quando parla di ‘mala signoria’. Qui si vuole alludere, con un certo fondamento, alla ‘avara povertà’ dei Catalani, collaboratori di Roberto d'Angiò, deprecata da Carlo Martello e alla ‘antica lupa’ dalla ‘fame sanza fine cupa’ deplorata da Ugo Capeto imprecante contro i suoi discendenti della casa reale di Francia. Va anche precisato che nella polemica contro Roberto, il ‘re da sermone’, il poeta è mosso da motivi personali di astio, in quanto esiliato coll'intervento angioino, e ideologici, quale uomo di parte, seguace della politica imperiale di Arrigo VII e quindi avversario delle idee di Roberto, il quale, a sua volta, era promotore di una unità nazionale comprendente inizialmente Regno e Toscana e tenace avversario dell'influenza tedesca. Secondo i sentimenti di Dante, Ugo Capeto e Carlo
Non si intende qui entrare in nessuna grossa questione, si vuole solo sottolineare che, almeno per quanto si riferisce agli effetti riguardanti la nostra badia, la congiunta politica angioina (compresa la mano della bella Clemenza) e papale hanno avuto conseguenze decisamente disgregatrici. La avidità aggressiva degli angioini e, in particolare, dei familiari e collaboratori di Roberto, l'immobilismo della politica impotente o tollerante o contraddittoria dello stesso re e i pesanti interventi dei papi avignonesi, con decisioni drasticamente determinanti, hanno definitivamente contribuito alla fine del feudo e al crollo della badia benedettina.
Tuttavia, in Capitanata possiamo assistere a due aspetti diversi, come due facce di una sola medaglia, dell'operato degli angioini. Tuttora Lucera ride del bel volto monumentale da loro impresso col Duomo, la chiesa di S. Francesco, il Castello e altro. Forse tutto ciò, con altri motivi, non esclusa la posizione storico-geografica di Lucera, è dovuto anche a un debito compenso per la cospicua presenza dei saraceni di fedeltà sveva, soppressa con un feroce massacro nel ferragosto del 1300. Ma proprio in coincidenza con gli stessi tempi, tra queste valli e pendici garganiche grande era il pianto per l'andare delle cose in rovina.
Nell'arco di un trentennio, la badia è ridotta a brandelli avidamente contesi, a lacerti che gli stessi monaci sono costretti a cedere in locazione o a vendere. È da ricordare che il periodo più critico coincide con la guerra del Vespro e culmina all'indomani della pace di Caltabellotta, con contraccolpi che lasciano il segno nel Gargano e dintorni.