IV. Il 1318: anno di svolta per il futuro della badia.
Per suo conto Roberto si compiace dell'offerta signoria; si indugia in Genova e anziché recarsi ad Avignone, come da reiterati inviti del papa; il quale, dimostrando nessun entusiasmo per l'offerta signoria, è invece molto preoccupato per gli avvenimenti padani. Quanto avveniva nel nord d'Italia ‘avrebbe potuto inquietare il pontefice fino a un certo punto, se l'espansione soprattutto viscontea non avesse minacciato Bologna [oltre che Genova] e in particolare la Romagna’, costituendo quindi un pericolo potenziale per il territorio della Chiesa.
Giovanni XXII, ossia Giacomo Dueze, già vescovo di Frejus, scelto nel 1300 da Carlo II come cancelliere del Regno di Sicilia e passato ad Avignone nel 1310, è eletto papa a Lione il 7 agosto del 1316. Avendo una giusta visione dei problemi italiani, già nel 1317 mandò ‘presso Bernabò Visconti due dei suoi uomini di maggiore fiducia, il domenicano Bernardo Gui e il francescano Bertrando de la Tour, attento osservatore dei problemi politici, come ci mostra appunto la preoccupata relazione che egli al suo ritorno scrisse’; né poi ebbe miglior successo un altro suo legato, Bertrando del Poggetto (Nota 23).
Se nel nord le preoccupazioni papali erano soprattutto di natura politica e nello Stato pontificio prevalentemente religiose e amministrative (per le croniche discordie in Roma, i torbidi nel beneventano e le sorti della Romagna e di Ferrara), verso il Regno di Sicilia viceversa il papa volgeva il suo sguardo angosciato da ristrettezze economiche e finanziarie sempre crescenti. Pertanto la Chiesa, ‘pro sue Camere necessitatibus grandibus’ è costretta a un esoso e urgente provvedimento: ‘riscuotere sollecitamente e incamerare le rendite dei benefici vacanti nel Regno di Sicilia’ (Nota 24). Intanto, il primo aprile del 1318 da Avignone, Giovanni XXII dava mandato al nunzio apostolico in Napoli di rivendicare al patrimonio della Chiesa i possessi ad essa spettanti, siti nel Regno di Sicilia, ingiustamente detenuti da ecclesiastici, da comunità religiose, da università o da singole persone.
Infine, per concludere il quadro di una determinata situazione che ci interessa, si ricorderà, come si è già accennato, che è anche di quest'anno 1318 la massima baldanza usurpatrice di beni, da parte dei monaci cistercensi di Casanova. Così, se nel 1310, per quanto riguarda la nostra badia la concorrenza usurpatrice era perpetrata soprattutto dai membri della stessa casa reale, ora, invece, si intrecciano e scontrano interessi nello stesso ambito del potere ecclesiastico.
V. Precedenti inquietanti.
Ora si fa appello, e se ne chiede venia, a uno sforzo di memoria di chi legge nel confronto di non pochi dati e date congiunturali per una riflessione conclusiva. Non si tratta di un elastico e gratuito esercizio della mente; del resto alcune ripetizioni sono richieste dalla chiarezza e dalla precisione.
Nel 1307 la riunione di Ripalta dell'abate di Casanova con il decano Mattiotto, è vero, ha tutta l'aria di una iniziativa clandestina. In questo anno è ancora cancelliere della corte angioina Giacomo Dueze, vescovo di Frejus, poi Giovanni XXII. Nel 1310 passa ad Avignone e gli succede a Napoli, quale nunzio apostolico, Guglielmo di Balaeto, arcidiacono di Frejus. In un mese imprecisato, ma sempre prima del giugno dello stesso anno i due abati di Casanova e di S. Giovanni avanzano di concerto una petizione ufficiale al papa per l'unione dei due monasteri. Inoltre, il 15 giugno 1310 Clemente V ordina a Consiglio arcivescovo di Conza e a Giovanni vescovo di Civitate di indagare circa la petizione presentata dai due abati. Nella relazione inviata al papa, il vescovo di Civitate dice di essersi recato a Manfredonia 1'8 settembre del 1310 per interrogare ‘alcune persone degne di fede’ circa lo stato del monastero.
Infine per le implicazioni pubbliche, con la comunicazione al re e ai vassalli, la bolla clementina del 1311 non doveva essere ignorata dai due alti prelati ad Avignone e a Napoli. Il rumore, anche per quei tempi, di una badia occupata ‘cum magna multitudinem hominum armatorum’ (d. 55) non poteva sfuggire al nunzio Guglielmo, come egli stesso dirà nelle sue contestazioni del 1320 all'abate di Casanova.
Tutto questo però non esclude la intraprendenza aggressiva dei cistercensi, già audacemente incalzanti dal 1307.
Conclusione: le oscure manovre, con la complicità del decano Mattiotto, potevano essere ignorate, ma non gli atti ufficiali di un papa al cui servizio erano i due prelati.
La svolta
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