I. I due nuovi protagonisti di questa storia: i francescani e San Marco in Lamis.
Con la loro studiata scelta negli insediamenti, i frati minori prendono stabile dimora lungo la ‘Via sacra’ che mena più agevolmente al santuario di San Michele. Gli abitanti di San Marco in Lamis, pur non avendo ancora una precisa coscienza civica della loro forza storica, avvertono l'esigenza di una loro coesione quale avvio verso un'autonomia municipale, con la conquista cioè dei diritti civici, amministrativi e infine politici. Se, però, per i frati minori, la lenta penetrazione ha inizio nel Quattrocento e dà i suoi primi esiti positivi e durevoli all'alba del Cinquecento, per la municipalità di San Marco in Lamis la lunga e oscura incubazione parte dal Mille e si afferma a metà del secolo XVI con una sua prima conquista. Il Cinquecento, infatti, registra due atti ufficiali: il riconoscimento degli usi civici agli abitanti del borgo (1537-'59) e l'insediamento dei frati francescani nel convento di San Matteo (1578) con una diversa posizione giuridica e civica di entrambi nei rapporti della badia e dei rispettivi abati commendatari.
II. Primordi di autonomia comunale e di risveglio nel mondo del lavoro.
In questi tempi e dopo, sul Gargano, per quanto riguarda i ceti popolari, rurali e servili, in lotta con quello feudale, chi scrive ha la fondata impressione che i loro moti (atti di ribellione e di invasione di terre e di pascoli), hanno una sorprendente analogia con il brigantaggio postunitario: la stessa costante pressione della necessità, la spinta impulsiva alla ribellione, la frammentarietà, la disarticolazione, la mancanza di intesa con i ceti contigui e soprattutto la carenza di una coscienza di identità, di forza sociale latente e minacciosa.
Circa gli evanescenti albori di autonomia delle università, con l'embrione di una esigenza civica amministrativa più che politica, concorde è il parere storiografico che essi non si avviarono a divenire municipalità comunale per la sopraggiunta autorità accentratrice dello Stato normanno e poi di quello svevo.
Anche a prescindere dalle repubbliche marinare nel ‘grosso blocco del Regno’, ‘una vita cittadina vi fu e sviluppatissima’ (
Ma nel Trecento con gli angioini e nel Quattrocento con gli aragonesi, una lenta evoluzione dei ceti urbani, rurali e servili, ora imposta pacificamente da una situazione di fatto, ora con rivolte sporadiche e non ancora articolate, mena a una mutata fenomenologia storica. Il potere centrale e quello feudale, laico e badiale, devono fare i conti con il non sempre domabile comportamento delle classi rurali. Ad Apricena nel 1306 gli abitanti, soprattutto del ceto popolare, insorgono contro il vescovo di Lucera: non intendono più riconoscere la sua autorità e quindi versare le imposte richieste. Un certo Enrico Tafuri, a capo di un folto gruppo di rivoltosi, assedia l'amministratore del vescovo e ‘riesce a far prigionieri i masnadieri che sono a guardia della terra, al grido di 'vogliamo gli omicidi che il vescovo ha con sé'’ (Nota 33).
Per suo conto, sempre ai fini della autonomia, anche agli effetti giurisdizionali, nel 1310, il vescovo di Lucera riafferma un suo diritto a giudicare delle cause di adulterio (Nota 34).
Il 1313, a S. Severo ‘terra soggetta all'autorità della Regina Sancia avviene un fatto gravissimo. In mezzo al popolo, racconta l'ufficiale della Regina, sono sorti improvvisamente degli audaci, i quali 'tanquam populi capita', senz'alcun rispetto delle prerogative regie, convocano a parlamento l'Università nella chiesa di S. Maria, ed ammettono a parteciparvi alcuni ecclesiastici, partecipi delle gravi discordie intestine essi stessi, e 'nemici acerrimi dell'ufficiale regio'. Il Re, secondo il solito, fulmina un editto contro i ribelli ed ordina agli ecclesiastici di non occuparsi che di cose attinenti al loro ministero’ (Nota 35).
Ancora a Lucera, nel 1340, il popolo insorge a difesa dei propri diritti contro il ceto dominante. Il Capitano della città solo a stento riesce a contenere la furia della rivolta popolare. Intervenendo, il re è costretto a promettere un'equa soluzione.
Lotte dunque incessanti, spesso sanguinose, per tutti su ogni fronte: per la monarchia e la feudalità, i due poli assorbenti del potere politico, per le città, i borghi e il contado; e soprattutto per le classi rurali e servili contro baroni, vescovi e abati. Se però ci fu un lento ma crescente acquisto di diritti con riconoscimento d'usi civici e di consuetudini, permasero vaghi ed indeterminati quelli politici, anzi, talora ferocemente repressi. Occorre aspettare il Settecento, quando le nuove ideologie giuridiche, politiche e sociali ebbero il loro scontro frontale, a cominciare dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea.
Dovunque, però, sia in terre non privilegiate sia in terre particolarmente beneficate dalla Corona, si determinano alcuni problemi complessi relativi al tormentato godimento degli usi civici e delle proprietà comuni, dove si siano formate, ed ai rapporti tra città e città, tra città e suburbio e tra Università e signori feudali sempre in agguato ai danni delle autonomie locali (Caggese).
Inoltre, con la proprietà dello Stato (demanio), con quella feudale, laica ed ecclesiastica, ‘si venne formando una proprietà collettiva delle città e dei centri minori, anche rurali. Si venne, così, sempre meglio determinando la natura giuridica dei compascua, a mano a mano che le esigenze della coltura e dell'allevamento e quelle dei migliorati rapporti tra classi feudali e classi servili resero indispensabili una più profonda revisione degli antichissimi schemi consuetudinarii’ (Nota 36).