Il primo a porre in discussione l’assetto giuridico derivante dalla constitutio dotalitii, per quanto riguarda la badia, a contestare e, quindi, sottrarrle parte dei possedimenti passandola al demanio, sarà lo stesso Federico II. Di ritorno dalla Germania, in un'atmosfera euforica di successi imperiali, nella Assise di Capua, del dicembre 1220, il giovine re e imperatore, con la sua Curia, sottopone a una minuziosa revisione tutti i diplomi riguardanti i feudi del suo regno. Egli, direttamente interessato, rilevava che S. Giovanni Rotondo era illegalmente incluso nei tenimenti della badia derivante questa terra, secondo lui, originariamente da un antico agglomerato disabitato, Castellanum Buzzanum precedente alla fondazione e alla costituzione giuridica della baronia badiale; e, pertanto, rivendicava la terra di tale casale al demanio e quindi ai beni della Corona.
Sono da precisare alcune cose.
Dopo il Mille, con l'impetuosa crescita demografica, nei pressi di antichi agglomerati pastorali sulla vetta dei monti, com'era appunto Castellano Bizzano, o a pie' di un monte, si notano nuovi insediamenti. Lo stesso avviene anche nell'interno del feudo badiale, dove sorgono casali non mentovati nei primi diplomi bizantini (dd. 1,5) quali S. Giovanni Rotondo, S. Marco de Lama, Fazioli o Facciole e altri centri abitati minori e minimi.
Fin dal primo diploma di concessioni bizantine, Bizzano era un punto iniziale di riferimento, con partenza e arrivo nella designazione dei confini, di tutto il comprensorio territoriale della badia. Anche il conte Errico nel 1095 precisamente dirà: da un confine all'altro designo: ‘in primis a capite Castellani Buzzani ubi est terra antiqua inhabitata et in pede ipsius montis est terra monasterii, videlicet casale Sancii Iohannis Rotundi’ (d. 6).
Ma prima che sorgesse il non mentovato S. Giovanni Rotondo, nei primi diplomi il riferimento iniziale è sempre quello di Bizzano presso monte Calvo. Si legge nel primo diploma: ‘Damus et concedimus territorium, videlicet: a Castellano Bizzano, uhi habitant homines ipsius monasterii’ (d. 1).
L'appiglio geografico di Federico II è certamente capzioso. Non poteva essere incluso nei primi diplomi un casale che ancora non esisteva e sorto poi a pie' del monte Calvo.
Inoltre, indipendentemente da tutto questo, si trattava comunque di diritti acquisiti dalla badia da oltre due secoli.
Anche la distinzione tra beni feudali e demaniali era un motivo pretestuoso; e, se non si temesse l'equivoco o il bisticcio, si vorrebbe dire bizantino.
Questi primitivi documenti (in latino, derivano purtroppo da un più antico testo greco) sono stati letti dai nostri cronisti distrattamente. Il diploma del 1008 (d. 2) è particolarmente significativo. Il catapano Giovanni de Curcua, nel riconoscere le concessioni fatte l'anno precedente dal suo predecessore Alessio Xiphea all'abate Alessandro, dichiara con una certa solenne intimazione ed esplicitamente: ‘Per hoc sigillum quod nos facimus et damus ipsi monasterio, ut nullus episcopus, archiepiscopus Italie audeat aliquod impetere quia consuete non sunt, sed sit in demanio et potestate monasterii supradicti’.
Non pare che alla lettura di questo documento sia stata data la dovuta importanza. Da essa emergono due cose di grande rilievo:
La costituzione giuridica, canonicamente esplicita, della badia nullius, sia pure nell'ambito territoriale della diocesi sipontina, ma dipendente soltanto e direttamente dalla Curia romana. Ripeteranno infatti ritualmente tutti i diplomi o documenti successivi questa formula: ‘Monasterium Sancti Iohannis in Lamis (o de Lama) Sypontine diocesis ad romanam Ecclesiam nullo medio pertinens’.
E ancora in un documento del 1234 si legge: ‘Significante dilecto filio... abbate monasterii Sancti Iohannis in Lamis in Sipontina Dioecesi constituti quod ad romanam Ecclesiam nullo pertinet mediante nos noveritis accepisse’ (Nota 8a).
Indubbia la duplice autonomia della badia nullius dalla casa madre benedettina e dalla diocesi sipontina, con relativi privilegi canonici, temporali e spirituali.
Effettivo nel periodo benedettino nero per almeno oltre tre secoli l'esercizio, concesso all'abate, della giurisdizione civile e, deducibilmente, anche penale sui suoi vasalli; nonché l'inerente diritto di edificare casali, aprire mulini, e promuovere iniziative di altre industrie rurali nell'ambito dei possedimenti del monastero.
Si evince anche esplicitamente dallo stesso diploma che tutto il feudo è costituito da territori demaniali.
Pertanto qualcuno può anche pensare che Federico II, data la sua premessa capuana sui feudi revisionati, con la distinzione sottile tra beni feudali e demaniali e l'altra speciosa tra Bizzano e S. Giovanni Rotondo, avrebbe potuto includere nei beni demaniali (e, cioè, dello Stato) l'intera baronia-badiale. Pur essendo egli così ardimentoso gli è mancata forse l'audacia per una totale incorporazione al demanio? Egli, infatti, considererà demanio l'intero territorio badiale ma il gesto per un totale incameramento è mancato.
E ci si può chiedere anche se, sottraendo una sola parte del feudo badiale, che faceva anche parte dell'Honor, non creava una nuova situazione giuridica o, almeno, amministrativa tra i beni dotalizi della regina e quelli spettanti alla Corona del Re. Non è certo da supporre ingenuamente un conflitto tra moglie e marito, ma Federico seguiva decisamente un suo disegno. Aveva indubbiamente un suo chiaro programma e una decisa volontà di affermazione di un principio fondamentale, circa la vexata quaestio del Regno come Stato vassallo della Chiesa con relative, complesse e problematiche interferenze o ingerenze papali, spesso contestate.
Nella sua concezione di uno Stato moderno e accentratore, Federico mirava a una strategica disgregazione del mondo feudale. ‘Tra i venti capitoli approvati alle Assise di Capua (dicembre 1220) quelli relativi alla revisione dei feudi e alla distruzione di edifici di difesa costruiti da privati erano importantissime misure di polizia che avrebbero indebolito i Signori impadronitisi di terre demaniali con falsificazioni e violenze e avrebbero ristorato le finanze dello Stato, rimettendo il Demanio in possesso di molti suoi beni. La revisione fu proprio l'inverso della politica dei privilegi: fu una confìsca a vantaggio del demanio, una espropriazione, una rivendica fiscale, le cui conseguenze economiche dovettero essere vastissime; ma la conseguenza più rivoluzionaria fu l'aver soppresso come classe dirigente il banditismo nobiliare, averne limitato la forza economica, averlo risospinto, in poche parole, da una situazione di favore a una situazione di tolleranza’ (Nota 9).
Entrano in tale ottica programmatica le norme delle Nuove Costituzioni con cui vengono diminuiti e delimitati i privilegi ecclesiastici tra cui quello insidioso della manomorta.
È da ricordare infine la legge diretta ‘contro quegli ordini religiosi dei quali l'Imperatore aveva ben fondate ragioni di temere non tanto la manomorta quanto la potenza politica che ben conosceva ostile alla sua politica’ (Nota 10).
Rientra in questo preciso piano la sistematica persecuzione di frati francescani minori, pur non possedendo essi né beni, né feudi, né privilegi. Ora, non rimane che tornare alla questione di fondo: a quella affermazione di principio circa la natura del vassallaggio del Regno e nel Regno nei confronti della assidua e tenace presenza di iniziative papali.
Una specifica risposta a Gregorio IX è data da Federico II proprio in merito alla sua decisione riguardante S. Giovanni Rotondo, ‘terra badiale’.
La decisione federiciana di Capua del 1220, riguardante S. Giovanni Rotondo, deve avere avuto un lungo strascico di lagnanze da parte dei monaci di S. Giovanni in Lamis. A tali lagnanze faceva eco Gregorio IX che spedi al re un monitorio affidandolo per la notifica a quattro vescovi.
Nel primo capo di tal monitorio dicevasi, che tra le altre Chiese e Monasteri, ‘et S. Johannis in Lamis Monasteria, sunt spoliata fere omnibus bonis suis’. Rispose Federico: ‘II luogo di Lama è vincolato (cinctus) per decreto all'abate di S. Giovanni Rotondo che, come di un bene feudale, ha potuto e dovuto darne conto alla Curia imperiale secondo il diritto civile e canonico’(Nota 11).
Quindi Federico II ritiene che tutto il monastero di S. Giovanni in Lamis è addirittura di regio padronato, e cioè, un demaniale bene della Corona. La risposta al papa parte dall'accampamento di Mantova dove Federico era impegnato nella lotta contro i Comuni della seconda lega lombarda.
Da questa lettera indirizzata a Gregorio IX nel 1238, si può evincere che con franca baldanza tutti i feudi sono del re e questi ne dispone come meglio crede. Il riferimento era intenzionalmente diretto agli ordini religiosi e in particolar modo ai Templari e agli Ospedalieri.
Tutto ciò all'indomani dei tempi trionfalistici di Cortenuova (1237), e alla vigilia delle Novae Constitutiones impartite ai notabili del Regno riuniti a Foggia nell'aprile 1240.