L'importanza della nuova concessione è confermata sia dalla stesura dell'atto, questa volta compiuto in Napoli dal milite Bartolomeo Cimina giudice di Napoli, sia dalle firme di testi autorevoli: quella del già citato Marino da Caramanico, magister regie Curie iudex; del vescovo di Isernia, Roberto; del giudice di Firenze, Ildebrandino; del monaco cassinese Azo di Parma; del notaio della magna Curia, Filippo di Matteo da Salerno; di Giovanni da Ayrola, della magna regia Curia; di Nicola da Caserta; di Andrea canonico di Amalfi. Avvocato della badia è il noto giurisperito Nicola Freccia di Ravello.
Occorre qui ricordare alcune circostanze per una più precisa ambientazione storica del momento e dell'evento. Questo atto notarile, redatto solennemente (‘sollemniter ‘ reca la data del 13 giugno 1285. In precedenza molte le cose mutate nel giro di pochi mesi: è ancora in pieno svolgimento la guerra del Vespro; il 5 giugno del 1284 il principe Carlo, erede al trono, è fatto prigioniero dagli aragonesi; il 7 gennaio 1285 muore a Foggia il padre, Carlo I d'Angiò; il 29 marzo muore il papa Martino IV. In questo primo semestre del 1285, in un clima di crisi e di disorientamento, nel Regno i dignitari della Corte, funzionari e alti ufficiali, civili e militari della Curia, alternando o congiungendo interessi pubblici e personali, sono spinti da un maggior spirito d'iniziativa e di profitto; di modo che l'assedio o l'assalto a feudi minori, minimi o ecclesiastici, acquista un'audacia più aggressiva, con una linea di condotta che appare informata da una complicità diretta o favorita o semplicemente calcolata.
Il copione, come si deduce dai documenti è sempre lo stesso: sull'onda caotica dell'ora volgente, avventurieri d'ogni genere e provenienza, provenzali, signorotti locali e militi in cerca di una base per più ambiziose fortune, prendono d'assalto piccoli e grossi feudi, ne rodono i confini, ne usurpano pretestuosamente casali e tenimenti, per cui baroni e abati, molestati da un assedio sempre più soffocante e da vie processuali dispendiose, si gettano al collo di potenti più grossi per essere egualmente soffocati con più fatali mulilazioni di terre e casali.
Pertanto il maresciallo Giovanni de la Gonesse giurava fedeltà di vassallo all'abate e si impegnava a dare quaranta once d'oro ogni anno. L'abate si riservava il diritto di tenere nel casale uno o due monaci per le cure spirituali e la riscossione delle decime dovute, comprese quelle su greggi e filiazioni di agnelli. Lo stesso locatario avrebbe provveduto a sue spese al vitto e alla casa per la dimora di uno o due frati nel casale. A sua volta il monastero si sarebbe astenuto da ogni rivendicazione e molestia. Qualunque cosa, posseduta nel tenimento del casale, dal momento della firma dell'atto, il monastero ne avrebbe permesso il pacifico possesso, ‘come lo si aveva e possedeva al tempo in cui Teobaldo Helamant teneva in locazione lo stesso casale’.
Si è già accennato alla lotta sistematica di Federico II contro il banditismo nobiliare quale classe dirigente e usurpatrice di feudi e privilegi. A un secolo di distanza, ai tempi di Roberto d'Angiò, da un documento del febbraio 1338 si ricava questo racconto: ‘Tommaso d'Aquino e molti altri nobili conti e baroni penetrano spesso nella bandita reggia del Pantano di Foggia, vi tagliano gli alberi e li portano via, non solo, ma fracassate le porte del palazzo reale, penetrano nel parco (quando non preferiscono scavalcare il muro di cinta) e si danno alla caccia dei daini e degli altri animali ivi allevati’ (Nota 16).
La vicenda di S. Giovanni Rotondo ci richiama a Federico II il quale, con la confisca di quel casale ha aperto nella badia una breccia mai più colmata, con contestazioni di diritti che si protraggono al tempo dei Mormile e dei cugini di costoro, i Carafa, abati commendatari. Vero è che i beni confiscati da Federico furono restituiti dagli angioini: con S. Giovanni Rotondo, i casali Sala e Fazioli e la quinta parte del pantano di S. Egidio. Ma, nonostante l'iniziale buona volontà regia, da mettersi anche in dubbio per il successivo diverso comportamento dei mèmbri della casa reale, il monastero dovette fare i conti appunto con gli stessi principi, con la diversa feudalità e l'insorgente e mutato atteggiamento delle classi emergenti nell'ambito dei casali. Essi tentavano di ridurre i diritti della badia soltanto alla baiulazione ed all'elezione dei giudici annuali. Non sappiamo quali trame si ordissero dietro questa fragile facciata di diritti contestati. Tutti si rifanno puntualmente agli stessi motivi di Federico II; anzi, secondo costoro, ‘S. Giovanni Rotondo sarebbe sorto per volontà di Enrico VI, che vi avrebbe trasferito gli abitanti di Castellano (Castellan Bizzano o Pirgiano), posto sul monte omonimo sovrastante il nuovo insediamento; questo sarebbe stato poi usurpato dai monaci (o dal conte Matteo di Lesina, che l'avrebbe illegalmente donato al monastero), finché l'imperatore non ne riordinò la reintegrazione al demanio’ (Nota 16b). Vi deve essere un equivoco o qualche confusione. Noi sappiamo che il casale di S. Giovanni Rotondo è ben due volte mentovato nel diploma del 1095 dei privilegi e diritti riconosciuti e delle nuove concessioni fatte da Enrico conte di Monte S. Angelo e di Lucera (Nota 16c).
Ma i fermenti di inquietudine e di contestazione per S. Giovanni Rotondo non si fermano qui. Quale il vero operato dell'abate del monastero Leone? Questi, in una inchiesta del 1277 promossa dal principe Carlo, veniva accusato da un teste di aver dato alle fiamme la copia di una sentenza che assegnava al demanio S. Giovanni Rotondo dopo aver corrotto con dodici once d'oro i giudici che custodivano il documento (Nota 16d).
Intanto gioveranno qui alcuni cenni riguardanti il cardinale Gerardo da Parma e la presenza di Carlo Martello con la moglie in Capitanata. Carlo lo Zoppo, restituito dagli aragonesi dopo una lunga prigionia e laboriose trattative al trono di Napoli, sulla scia del padre, 1'8 settembre 1289, creò suo figlio Carlo Martello milite e gli diede il Principato di Salerno, le contee di Andria, di Manfredonia, di Lesina con l’Honor Montis Sancti Angeli. Amministratori dell'Honor furono successivamente Pietro Panetterio, Pietro d'Angicurt e Pietro Roland. Pertanto, per interessi diretti, frequenti erano i viaggi di Carlo Martello in Capitanata accompagnato dalla moglie Clemenza.
Tra il febbraio e marzo del 1292 compie un periplo ricognitivo nel Gargano: partendo da Manfredonia, dove si trattenne tre giorni, si recò, via via, a Monte Sant'Angelo, a Vieste, a Peschici, a Rodi, forse a Ischitella, a San Nicandro, ad Apricena, ed infine a Foggia, Lucera e Troia. Si potrebbe notare che dall'itinerario predetto è esclusa la badia di S. Giovanni in Lamis. Una visita volutamente mancata o dovuta ad altri motivi contingenti? È certo che due anni dopo vi sarà una controversia tra la ‘bella Clemenza’ e il monastero di S. Giovanni in Lamis.
Un momento critico si ebbe nel 1294 quando un amministratore di Clemenza aveva usurpato terre della badia. Insorta quindi una controversia tra Clemenza e l'abate di S. Giovanni in Lamis per la restituzione di terre e la definizione dei confini dei due casali di Fazioli e di Candelaro, Carlo II nel maggio di quell'anno, per definirla promosse un collegio arbitrale di cui facevano parte il vescovo di Canne, il giustiziere di Capitanata Balduino de Corban e il notaio Andrea di S. Severo. Pertanto queste autorità arbitrali designate, restituite a chi di spettanza le terre usurpate, apponevano le pietre terminali per dividere definitivamente i confini tra le terre contese (Nota 16f).
La rivolta di S. Giovanni
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