XIII. Una domanda.

Un frate cappuccino fa la questua.
Un frate cappuccino fa la questua.
Qui torna opportuna una domanda (pertinente al tema del convegno dell'ottobre 1980). Dalle autorevoli informazioni testè forniteci (tra cui quelle dei proff. Manselli e Pellegrini), si deduce o si suppone che i francescani con buone ragioni della scelta si erano già insediati a S. Giovanni Rotondo negli ultimi due decenni del sec. XIII. Siamo quindi al tempo dei frangenti di cui si tenta ora di comporre un primo racconto. Ci si chiede, intanto, quale possa essere stato, sempre se presenti, il comportamento dei nostri francescani in quella burrasca di scomuniche e di interdetti: furono coinvolti o travolti, o semplici spettatori e testimoni?
Troviamo però, presenti a Napoli il 3 giugno 1286, due francescani, frate Ugolino da Bobbio e frate Guido Gallicus dell'ordine dei frati minori, entrambi cappellani al seguito di Gerardo vescovo di Sabina e legato apostolico, in veste di testimoni, appena dieci giorni dopo il deliberato atto di sottomissione. Si riscontrano le loro due firme in calce all'atto di revoca della scomunica e dell'interdetto, col relativo giuramento di fedeltà all'abate di San Giovanni in Lamis e al maresciallo Giovanni de la Gonesse, prestato dal diacono Giovanni e da Perrone di Salpi, rappresentanti rispettivamente il capitolo della chiesa di S. Maria Maggiore e l'università dei laici del casale di S. Giovanni Rotondo, nelle mani del predetto legato apostolico e baiulo del regno di Sicilia.
XIV. L'alienazione continua.
La città di Benevento. Stampa del 1702 del Pacichelli.
La città di Benevento. Stampa del 1702 del Pacichelli.
Intanto, a un solo mese di distanza dall'epilogo di questa triste vicenda, l'autospoliazione o semplicemente la spoliazione, forzata o inevitabile che sia, dietro compensi magri e talora irrisori, l'alienazione dei beni, dei possedimenti, dei proventi e privilegi della badia, fatale e inarrestabile, continua.
Per quel tanto che si tenta di dimostrare, assunto con questa tesi, basterà ora registrare alcuni casi di un lungo catalogo. Sull'esempio dato dagli angioini, ai quali si devono pur sempre l’avvio e i colpi finali, premono anche nobilotti, giudici circonvicini e prelati lontani.
Il 22 luglio 1286, l'abate Giovanni concede in locazione a Bartolomeo di Giacomo di Casone, vita natural durante, per se e per i suoi eredi in linea maschile, un appezzamento di proprietà del monastero sito nell'agro di Casalenuovo (Casone) presso Rignano Garganico dietro compenso di due tari d'oro, di quattro salme di grano e due di orzo ‘pro pensione dicti tenimenti annis singulis’ (d. 28). Nell'atto vi sono clausole e riserve riguardanti la guerra in corso e altre eventuali future guerre per le conseguenze che possano derivarne; e anche gli eventuali danni dolosamente causati da altre persone. Dal documento, nella definizione dei confini, indirettamente si rilevano altre concessioni già fatte per tenimenti badiali finiti[mi] a giudici (tra cui lo stesso Nicola, estensore dello strumento, e Benedetto) e ad altri signori.
Il 16 novembre 1289, lo stesso abate Giovanni concede in locazione a Simeone, abate della chiesa di S. Andoeno di Bisceglie, i frutti e i proventi della chiesa di S. Silvestre sita nei pressi di Bisceglie per sei tari d'oro annui (d. 29).
Nel gennaio 1293, sempre l'abate Giovanni, sette anni dopo, passa in locazione a Giovanni Stelluto (parente di Bartolomeo Stelluto, anch'egli locatario di altri tenimenti
L'Abbazia benedettina di Montecassino in una stampa del Pacichelli - 1702.
L'Abbazia benedettina di Montecassino in una stampa del Pacichelli - 1702.
badiali) lo stesso appezzamento di Casalenuovo (Casone) già tenuto da Bartolomeo di Giacomo e con le stesse modalità contrattuali (d. 30).
Inoltre nel novembre del 1296, sempre l'abate Giovanni, concede in locazione ai fratelli Guglielmo e Filippo di Antenore del Casone, vita natural durante, un più esteso appezzamento dal fiume Vulgano a S. Pietro in Campo e sino ai confini di un altro appezzamento badiale tenuto da Bartolomeo Stelluto, per sette tari d'oro e dieci grani, per sedici salme di frumento e otto salme d'orzo (d. 31).
XV. Le iniziative del decano Mattiotto.
Superfluo ci pare rinvenire e registrare ulteriori locazioni che in effetti si traducono in vere e proprie erosioni del feudo.
Preme ora, entrando nel vivo della narrazione, riportarci a quanto accadde undici anni dopo.
Precedendo di oltre settantanni la frettolosa ansia di liquidazione totale dei beni badiali di Roberto da Ginevra, il futuro Clemente VII eletto papa dalla parte cardinalizia francese, nel 1307 il decano Mattiotto e il convento del monastero nominano loro procuratore l'abate Giovanni di S. Severo, arcidiacono di Lucera, perché, insieme con l'abate Giovanni di S. Giovanni in Lamis, provveda a dare in locazione a Roberto d'Aunay (manco a dirlo un altro francese), vita natural durante, il casale Sala con tutti i diritti e le pertinenze ad esso spettanti, per dieci once d'oro, nonché altri possedimenti a qualsivoglia persona che lo desideri e possa.
Solite le modalità del contratto, la ritualità della formula riguardante motivi e situazioni: molestati i frati da vicini predoni, impotenti a resistere e a perseguirli per vie giudiziarie, si affidano, come nei casi precedenti, al francese Roberto d'Aunay signore di Teano, Caleno e Caramanico. Leggiamo:

Item quod dictus dominus Robbertus teneatur protegere, manutenere et defensare pro posse suo et facilitate dictum monasterium, personas, bona et iura ipsius ubicumque consistunt ad requisicionem dictorum abbatis et conventus vel procuratoris eorum (d. 33).

Nobilta e borghesia a Napoli nel Cinquecento.
Nobilta e borghesia a Napoli nel Cinquecento.
Ma l'espressione che più turba è questa: ‘Dantes eidem procuratori et yconomo nostro liberam potestatem, ut ipse una cum eodem abbate nostro locaciones facere possit de quibuscumque tenimentis et possessionibus dicti monasterii quibuscumque personis, pro utilitate eiusdem monasterii viderint faciendum’ (d. 32). Tra i firmatari del rogito redatto in Foggia dal notaio Michele de Thomasio e dal giudice Bartolomeo de Enzo c'è quale teste il vescovo di Civitate, Pietro.
La portata di queste nuove decisioni (o, piuttosto di questa iniziativa sospinta dal decano Mattiotto), è indubbiamente grave: è l'inizio di una precipitosa fine che pregiudica e coinvolge tutti i beni del feudo e lo stesso monastero. La drammaticità dei nuovi avvenimenti e le ragioni che li hanno determinati sono comprovate da una notevole documentazione tuttora inedita.
Spira nel convento un'atmosfera pesante, uno stato d'animo generale di cupio dissolvi: i monaci sono divisi in fazioni e frequente è il ricorso reciproco alla violenza con esiti delittuosi. La sopraffazione ricorre alle armi e anche ad atti violenti e letali.
In questo subbuglio emerge la figura di quel decano Mattiotto, protagonista e promotore di situazioni determinanti. Non si hanno elementi per definirlo tout court un faccendiere profittatore, ma è stato certamente persona di ardita intraprendenza di iniziative oscure e di azioni poi drasticamente contestate.
Tuttavia, in questo momento critico, egli ci dà l'aria di chi è preso da una furiosa brama di fine. Le motivazioni e i fini, che emergono dalla lettura del predetto strumento, sono illuminanti. Esse hanno tutta l'aria di una vendita all'asta, di una storica svendita stagionale. È una risposta-protesta disperata, forse di reazione, all'assedio dei prepotenti vicini e all'insidia profìttatrice dei padroni più altolocati. Il decano Mattiotto pertanto dà l'impressione di essere invaso dalla rabbiosa allegria di un naufrago. O è semplicemente un awenturiero trascinatore nella sua scia dell'abate Giovanni e di parte dei monaci del convento?
È certo che alla sua sbrigativa intraprendenza c'è stata l'avversione rigida di una parte della comunità benedettina.
Tre documenti di questo stesso anno 1307, se non sospetti, destano dubbi inquietanti per l'oscurità di certe manovre o per la possibile estorsione e falsificazione degli atti.
Fatto sta che nell'agosto del 1307 (d. 34), a soli cinque mesi dalle concessioni fatte al d'Aunay e dalle dichiarazioni-proposte di ulteriori eventuali e totali vendite o locazioni, il decano Mattiotto dall'abate Giovanni e dai monaci del convento è nominato procuratore al fine di promuovere la unione e l'incorporazione della nostra badia a quella di S. Maria di Casanova, di intesa con il procuratore e l'abate di quest'ultima con una comune petizione rivolta al pontefice Clemente V.
Pianta della città di S. Severo.
Pianta della città di S. Severo.
La portata di questa iniziativa, come si è detto, è indubbiamente grave, anzi suicida. Nel documento vi è un'assoluta assenza di motivi giustificativi o per lo meno esplicativi della proposta unione a un'altra potente badia. Questo mandato di procura è da ritenere fondatamente estorto al condiscendente abate Giovanni da Modena. Il conseguente duro conflitto tra i monaci del convento divisi in fazioni, è assolutamente certo, fino ad esplodere in atti di violenza. Questa sarà confermata dallo stesso Mattiotto in una sua deposizione in seguito a un'inchiesta promossa certamente anche da lui. Egli, tre anni dopo, all'inquirente, il vescovo Giovanni di Civita, dirà che alcuni monaci ‘fugierunt, aliqui se ad invicem trucidarunt’. E un decennio dopo, dalle carte del processo intentato dal nunzio apostolico Guglielmo di Balaeto, si apprende che i cistercensi di Casanova dovettero entrare nel convento di S. Giovanni in Lamis manu armata.
Comunque sia, il nostro Mattiotto quattro giorni dopo l'ottenuta procura, il 17 agosto 1307 (d. 35), si reca al monastero di Ripalta e si obbliga di eseguire il mandato di procura al fine di promuovere, di intesa con l'abate Giacomo di Casanova, la causa di unione della badia di S. Giovanni in Lamis, tamquam filia, a quella di S. Maria di Casanova.
Anche in questo documento vi è una sconcertante assenza di cause e di ragioni. Ma quel che turba maggiormente, donde la fondatezza dei sospetti circa l'oscurità di una manovra che ha tutta l'aria di un complotto, portato avanti dall'honesto viro frate Mattiotto, è che tra i firmatari dell'atto è inclusa la firma dell'abate di San Giovanni in
Benedettino antico. Stampa.
Benedettino antico. Stampa.
Lamis assente (il quale dichiara: ‘predicta fateor et me subscripsi’), mentre manca la firma dell'abate Giacomo di Casanova che risulta presente alla stesura dell'atto.
Passeranno comunque tre anni precisi perché lo scopo sia raggiunto: vi sarà prima un'inchiesta disposta dal papa e cinque mesi dopo la bolla pontificia che sancisce la proposta unione.
Vi è dunque una triennale imperterrita regia con lunghe scadenze di uno spartito ormai obbligato.
Un terzo documento, sospettato di presunta falsificazione (d. 36), è certamente strano. Esso riproduce in parte e talora riassume, senza però alterarne il senso, il testo della bolla pontificia e cioè quella ufficialmente autentica. Esso è riprodotto con minime varianti dall'Ughelli (Nota 17).
L'atto notarile che ricopia la bolla è del 15 febbraio 1312. Oltre a varie omissioni di brani, forse volutamente non riportati, la copia della bolla reca la data del 23 gennaio 1310 e non quella autentica del 20 febbraio 1311.
A parte ogni questione di data, attribuibile a sviste o a calcoli diversi dell'indizione, turba invece l'assenza di varie parti della bolla. Infine la copia notarile è firmata oltre che dal giudice e dal notaio estensore del rogito, da altri tre notai, tra questi Andrea di S. Marco in Lamis. Desta anche sospetto la minuziosa descrizione del documento offerto per le copie dal richiedente: il procuratore generale della badia di Casanova, Tommaso de Viculo. È da registrare anche la diligenza (intenzionale?) del notaio nella descrizione minuziosa dell'originale esibito dal procuratore, ‘bene munita’ dei sigilli papali con piombi penduli da nastri serici rossi e gialli.
Ma poi quale lo scopo dell'alterazione della data e quale sarebbe stato il fine del procuratore della badia di Casanova? Non c'è dato sapere. Si legge nello strumento: ‘Nichil addens neque minuens quod ipsarum licterarum suprascriptarum sensum mutarent in nullo’. Il che non è: non vi è nulla di aggiunto, d'accordo, ma qualcosa è, invece, omesso.
Già nel 1279, Carlo d'Angiò, lamentava che ‘le Università del Regno, invece di usare, negli atti pubblici, il sigillo dei giudici e notai stipulanti, usavano un proprio sigillo’. Era un atto lesivo dell'autorità sovrana con prodromi pericolosi di autonomia locale. Ma non si parlò, per quanto si sappia in merito, di falsificazione di sigilli. Nel caso nostro al più la falsificazione può essere della pergamena originale con sigilli pontifici sovrapposti. Ma chi lo può dire più? Personalmente sono incline a credere, più che a un dolo, a un pastiche.