Si giustificava così la designazione di Foggia quale centro egemonico per plenari incontri amministrativi, finanziari e fiscali.
Oltre alla prevalente presenza della Magna Curia, la meditata scelta della Capitanata per Federico corrispondeva anche a motivazioni strategiche e politiche. Già nella primavera del 1240, precisamente 1'8 aprile, domenica delle Palme, egli convocava in Foggia un'assemblea, cioè un colloquium generale, come è detto nelle lettere ufficiali del tempo. Era un gran parlamento di funzionari, giustizieri, amministratori, bàiuli e di altri servitori dello Stato, pur con una significativa assenza di molta nobiltà feudale. Riccardo di San Germano rilevava che i convocati erano venuti non per legiferare o discutere, ma per ricevere ordini sanciti dalle novae constitutiones.
Circa l'organizzazione giudiziaria, è stato concordemente rilevato, anche da storici francesi, che essa ‘era vicina alla perfezione’, e ‘ben poco gli Angioini trovarono da aggiungervi’. Quanto poi a tutta l'opera legislativa federiciana ‘espressa nelle leggi promulgate dai parlamenti o corti generali’ pur seguendo le orme dei Normanni, essa tuttora riscuote motivi di ammirazione per il suo ordine metodico, per il complesso settorialmente articolato, ‘ben dosato e organico da essersi mantenuto in vigore sino all'inizio del XIX secolo’. Per quanto attiene all'assetto amministrativo, generalmente si riconosce che Carlo I ‘aveva ereditato nell'Italia Meridionale il sistema più perfetto che si conoscesse, quello 'Stato moderno' o 'Stato opera d'arte' normanno-svevo’ (Nota 15a).
Ben diversa, lo si è accennato, era la struttura socio-politica dello Stato angioino. Mentre quella normanno-sveva si reggeva su un rapporto triadico (monarchia, feudalità, università-città), l'angioina, invece, si riduceva a rapporto di due soli componenti: la monarchia con i suoi beni demaniali e la feudalità. Quale conquistatore, per ragioni di sicurezza e di fedeltà, con rare eccezioni, Carlo d'Angiò si affidò a una più estesa feudalità non locale con una crescente riduzione delle autonomie cittadine.
In merito a questi scaltriti evasori del tempo, per quanto concerne gli abati di S. Giovanni in Lamis, non abbiamo elementi di prova per un giudizio. Certo è che la più vasta e potente badia di Capitanata venne comunque a trovarsi al centro di interessi, di cupidigie e di appetiti di prepotenti tra cui i membri dello stesso casato angioino. Vero è che Carlo I ebbe un atteggiamento diverso, come si vedrà, da quello di Federico II, con premure iniziali e restituzioni di terre confiscate dallo Svevo, non sappiamo però quanto disinteressate. In Capitanata giustizieri, funzionari e anche qualche abate (come fa sospettare il nome) erano francesi: un Courban giustiziere è incaricato di dirimere una controversia tra l'abate di S. Giovanni in Lamis e Clemenza moglie di Carlo Martello. Accadde intanto che in un breve corso di anni le vicende del monastero si avviarono lungo una china disastrosa.
Riferendoci al tempo preso in considerazione, la questione principale era se la natura nel rapporto di vassallaggio del Regno di Sicilia nei riguardi della Chiesa era da intendere quale dipendenza esclusivamente nella sua globalità o, anche, nella specificità dei singoli feudi, fossero essi baronie laiche o badiali (monisteri).
Per quanto riguarda la nostra badia, la sola trascrizione di una sequela di fatti potrebbe essere di per sé eloquente e convincente.
Il 21 settembre 1273, mutati i tempi, muta anche la nazionalità dell'abate preposto al governo del monastero. L'abate Parisius (il nome dice tutto: è protetto da Carlo I d'Angiò) è un francese che concede al francese Teobaldo Helamant in enfiteusi, vita natural durante, ma senza diritto di successione agli eredi, il casale di S. Giovanni Rotondo con tutti i diritti e pertinenze, per un annuo censo di quaranta once d'oro puro e col versamento al momento della stesura del rogito (‘instanter‘) di cento once d'oro puro.
Nello stesso atto notarile steso dal giudice di Apricena, Bartolomeo de Nolano e dal pubblico notaio di Castelpagano, Ruggero, si leggono i moventi della concessione, i primi colpi ormai di una rapida demolizione in crescendo: ‘Alcuni, ai quali l'abate e il convento non potevano resistere, avevano tentato in passato e continuamente tentavano di usurpare malvagiamente i diritti dello stesso monastero nel casale di San Giovanni Rotondo; posto nel giustiziariato di Capitanata e quelli dello stesso abate, così che i predecessori e gli stessi monaci per difendere i propri diritti avevano dovuto sostenere non poche spese e fatiche’ (d. 21).
Intanto, nel 1282, trovandosi da lungo tempo il convento del monastero senza abate (‘viduatis’) per la morte dell'abate Leone, Martino IV, da Montefiascone, incarica Gerardo vescovo di Sabina e legato della sede apostolica di provvedere in merito. La scelta cade su Giovanni da Modena: una figura inquietante su cui ci fermeremo e per il lungo periodo di governo e per l'enigmaticità del suo comportamento. E cosi, nel 1283, questo nuovo abate si affretta (certamente costretto dagli stessi moventi) a cedere ancora a un francese, Adamo Fourrier, familiare e consigliere regio, rettore del patrimonio della Chiesa in Toscana e capitano generale, per la durata di venti anni, le rendite di un altro casale, quello di Sala, appartenente anche esso al monastero, per cinque once d'oro annue.
Sempre più interessanti e significativi gli incalzanti motivi della cessione; cosi nel testo: ‘Bartolomeo di Matteo, giudice regio in Foggia e Francesco d'Angelo, pubblico notaio, attestano che ai frati e all'abate riuniti in consiglio occorreva non poco danaro che sarebbe stato loro molto utile: 'sia per mandare un soldato all'esercito regio, sia per condurre a buon fine alcune azioni giudiziarie contro usurpatori di beni del monastero'’. È in corso la guerra del Vespro e il feudo badiale, come d'obbligo, era stato censito per l'invio di un soldato all'esercito regio. Inoltre si legge questa dichiarazione:
il giudice e il notaio affermano che l'abate e il convento del monastero hanno consentito in nostra presenza previa approvazione di tutti i frati, con piena e libera volontà degli stessi, in nessun modo indotti né da violenza, né da timore, né da alcun raggiro.
Tale dichiarazione, anche se non estorta, desta un certo sospetto, in quanto gratuita e ovvia, sia perché ogni libera volontà di un contraente è naturale che non sia spinta dalla forza, ecc., sia perché una tale frase è assente in ogni altro documento. Parrebbe che affiori la coda di paglia del beneficiario di una cospicua rendita ventennale, per sole cinque once d'oro annue, e si premunisce contro ogni eventuale vizio giuridico del contratto: inter quos tractatus habita fuit mentio de vendendis in extalium fructibus, redditibus, provenentibus et omnibus obventionibus casalis Sale (d. 23).