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Il territorio

La copertina della pubblicazione.
La copertina della pubblicazione.
L'idea di un libro come questo nasce dal desiderio di conoscere il nome e le caratteristiche delle piante che si incontrano durante una passeggiata nel bosco, per i campi o per altri luoghi. L'occhio con il quale si guarda ad esse, non è l'occhio dello specialista, ma quello del curioso che si pone la domanda: "Che pianta è questa? A cosa serve?" e cerca di trovare una risposta che, molto spesso, manca. E' l'occhio di chi però non si arrende e, alla prima occasione, compra dei libri per avere dei lumi. Di libri ne trova tanti, talora lo aiutano, molte volte lo confondono. Gli pare che quel tal fiore raffigurato su un libro sia proprio quello che ha incontrato nel bosco, però non ne è sicuro. La foto è bella, ma è troppo piccola e da solo l'insieme oppure è troppo ravvicinata e dà solo qualche dettaglio. Ci vorrebbero più foto. Compra altri libri che offrono inquadrature diverse. Qualche dubbio lo tolgono, altri restano, altri ne aggiungono.
Non è quindi contento e pensa che ci vorrebbe qualcosa con più foto che illustrino le varie fasi della vita di una pianta e i particolari anatomici che ne facilitino il riconoscimento. Sul mercato, però, non c'è molto. Ci sono le guide botaniche che costano parecchio, non sempre sono soddisfacenti e inoltre sono complicate da utilizzare; pochi sono i libri con testi ed iconografia sufficienti. Ci sono sicuramente i lavori specialistici dell'università, degli orti botanici e via dicendo, ma questi sono pressoché inaccessibili. Insomma, per il semplice curioso, le cose non sono facili.
Per essere certi della identificazione di una pianta, in ogni caso, occorre un grande lavoro di studio. Domanda. E' assolutamente indispensabile, ogni volta che ci si trova di fronte ad una specie che non si conosce, penare per identificarla? Ritengo che un grosso aiuto a chi conosce poco la materia è possibile darlo. L'idea è questa: un libro e un CD-rom con poche piante, ma tante notizie e soprattutto tante foto per pianta. E' esattamente quanto a me piacerebbe trovare sul mercato dove invece, in generale, ci sono libri con tante piante, ma poche notizie e una sola foto per pianta.
Gli editori, suppongo, partono dal presupposto che pochi lettori sarebbero disponibili a comprare un libro dove è illustrato un numero ridotto di specie. La linea, pare, è offrire sempre una sorta di antologia-enciclopedia dove, per dire tutto, si finisce col dire poco.
Poche piante e molte notizie per ogni pianta, dunque; ossia, poco ma buono.
Esemplare di Iris chamaeiris.
Esemplare di Iris chamaeiris.
Il presente lavoro intende proprio seguire tale assunto e offrire in un unico testo, con documentazione iconografica e schede dettagliate, quanto al curioso è difficile trovare tutto insieme. Non c'è alcuna motivazione logica che mi ha indotto a iniziare da un gruppo di piante piuttosto che da un altro; se una motivazione la si vuol trovare a tutti i costi, è questa: ho iniziato dalle piante erbacee che di più ho sotto gli occhi perché piante dei luoghi dove sono nato e vivo, cioè di una fascia di territorio che va dai 300 ai 1.000 metri di altitudine. Alcune delle piante presentate sono molto diffuse, altre rare e talora neanche segnalate per il Gargano da parte chi se ne occupa per professione (Sternbergia colchiciflora). Forse sono quelle dai fiori più appariscenti o presenti in massa, ma questo non è sempre vero. Vi è anche un pizzico di campanilismo: per adesso illustro le piante del mio paese e di quelli ad esso vicini e poi le altre.
La continua distruzione di biodiversità e di ambienti naturali da parte dell'uomo impone dei provvedimenti di tutela per le piante minacciate. La salvaguardia e la valorizzazione di un ambiente non dipendono però dalla conoscenza di un numero ristretto di persone e meno che mai dalla conoscenza degli addetti ai lavori che pure sono fondamentali e indispensabili, ma dalla conoscenza capillare da parte del maggior numero di persone possibile. In fin dei conti, si difende e protegge ciò che si conosce; a ciò che non si conosce, non si dà valore e le cose di scarso valore difficilmente sono tutelate. La maggior parte delle persone, però, a stento distingue le margherite dai papaveri e appare difficile pensare che si appassioni alle problematiche delle piante rare o in pericolo. Occorre allora cominciare da zero, proprio dalle piante più diffuse e che si presume siano conosciute. Conoscendo quelle, si può anche ritenere che si arrivi, col tempo, alle altre.
Ampio spazio dunque a "papaveri e margherite".
Va comunque sottolineato un altro fatto: non sempre la conoscenza determina la salvaguardia. Questa dipende dal mutamento degli atteggiamenti e dei comportamenti delle singole persone e da scelte politiche più generali. In altre parole, posso conoscere tutto quello che c'è da conoscere, ma poi continuo ad arrecare danni all'ambiente esattamente come prima.
Esemplari di Centaurium erythraea.
Esemplari di Centaurium erythraea.
Il libro, in questo quadro, intende farsi strumento di conoscenza che si presta a diversi livelli di lettura anche se che ha uno scopo prettamente divulgativo. Proprio per questo, il linguaggio adottato spesso non è strettamente tecnico. Anzi, per quanto è stato possibile, si è cercato di utilizzare termini più alla portata di tutti. Esso è abbinato a un CD-rom che riprende le 8 foto per ognuna delle 30 specie illustrate nel testo e le inserisce in un quadro di 12 foto più grandi.
I testi di riferimento più importanti sono FLORA D'ITALIA di Sandro Pignatti, NUOVA FLORA ANALITICA D'ITALIA di Adriano Fiori, FLORAE GARGANICAE PRODROMUS: pars prima, altera, tertia, quarta di Luigi Fenaroli. Il primo è utilizzato soprattutto per la nomenclatura e l'inquadramento sistematico; il secondo per gli aspetti floristici, cioè di descrizione della pianta. Infine, il terzo, che fornisce un elenco delle piante citate in letteratura per il Gargano, è utilizzato come traccia da seguire per l'illustrazione delle specie.
Tutte le piante presentate sono state da me analizzate in campo e in studio. Gli aspetti anatomici sono stati tutti verificati su materiali prelevati in natura e presenti nei luoghi indicati. Per le piante rare o presenti in piccole quantità, è indicato il luogo dove vegetano in modo non molto preciso per evitare danni. Per le orchidee, sono state prelevate le radici solo in presenza di popolazioni diffuse o dove il numero di esemplari lo consentiva senza problemi.
Identico criterio è stato applicato per le piante rare. Le schede sono state concepite per la pubblicazione su siti web e ognuna di esse può essere letta indipendentemente dalle altre. Cioè, nella lettura di una singola scheda, non si rimanda a quanto scritto per la altre in maniera da avere tutto sotto gli occhi. Ciò implica che diverse volte ci siano delle ripetizioni con interi periodi identici in più schede. In particolare, questo si verifica per Confusione e Riconoscimento quando sono esposte due o più specie dello stesso genere o per Curiosità. Io non mi sono preoccupato per le ripetizioni privilegiando la facilità di lettura.
Spero, augurando buona lettura, che neanche il lettore se ne preoccupi.

La Repubblica, 18.06.1997
La notte che cambierà il Paese
di Pietro Citati
b_450_335_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_1860-Storia_popolare_p.027.jpgGli italiani non sono mai stati così malcontenti di sé stessi, come negli anni che stiamo vi­vendo. Se una volta que­sta scontentezza apparte­neva a qualche minoran­za intellettuale, ora un malumore profondo, una inquietudine senza paro­le, un'ansia senza sfogo sembrano diffondersi in zone sempre più vaste del­la popolazione italiana. Qualcuno teme che il no­stro paese stia perdendo le proprie amabili qualità provinciali, per assumere i lineamenti sgraziati di un paese senza passato. Qualcuno, che aveva so­gnato un'Italia a immagi­ne della Francia o dell'In­ghilterra, vede il proprio sogno allontanarsi indefi­nitamente; e teme che il nostro paese diventi una specie di Messico, diviso tra potenti arroganti e incivili e poveri impotenti e rissosi. Molti cominciano a domandarsi se non vi sia qualcosa di irreparabii­mente sbagliato nel no­stro carattere nazionale.
Non desidero affrontare domande così gravi, al­le quali solo il tempo po­trà dare risposta. Non ho viaggiato per l'Italia con un taccuino pieno di no­te: non ho interrogato deputati, sociologi, operai, casalinghe, professori e poeti. Non mi sento in nessun modo interprete dello spirito italiano, che d'altra parte non mi è più caro dello spirito tedesco, russo, cinese o francese.
Così le mie osservazioni sono soltanto quelle di una persona che per abi­tudine si occupa di libri, e vive appeso ai libri degli altri, come durante il giorno il pipi­strello alla trave. Tra un libro che finisce e uno che comincia, talvolta succede di uscire per strada, di camminare per i giar­dini pubblici delle città: di an­dare al ristorante; o di salire su uno di quegli affollati confes­sionali, che sono i nostri treni di seconda classe. Queste diverse impressioni si sono accumula­te, confuse e combinate a vi­cenda; e mi scuso se a molti par­ranno ingenue e sommarie.
Malgrado le trasformazioni dell'ultimo secolo, credo che la vecchia grazia del nostro popo­lo, quella che fece soggiorna­re tutta la vita sulle colline to­scane o lungo i laghi lombardi o nella Liguria oggi de­vastata, o sulle rocce della Ciociaria o di Sorrento i più squisiti figli di Inghilterra e di Germania, non sia scomparsa. La grazia italiana era formata da due elementi opposti. Da un lato, la gioia di essere al mondo: l'allegria di passeggiare sullo spettacolo dell'e­sistenza come primi attori o trionfali com­parse - qui sono io che parlo, recito, mi agito, gestisco, rappresento la commedia della mia vita - e là la casa, la città, gli altri esseri umani, il paesaggio montano o marino, che ascoltano innamo­rati le mie parole. L'altro ele­mento era la capacitàdi soffri­re, l'infinita pazienza, la tenace sopportazione di chi ha sentito la storia scivolare sulle sue spal­le: re, padroni, signori, domi­natori stranieri e indigeni. Oggi la virtù di soffrire e di sopportare non ha un buon nome. Ma chi agisce è spesso frettoloso: con­sidera gli uomini e il mondo co­me oggetti di cui impossessarsi rapacemente. Chi china il capo, come per secoli gli italiani han­no chinato il capo sotto gli even­ti, conosce ogni goccia della grande ondata che gli si avven­ta sopra, lo percuote, lo getta a terra, lo trascina lontano, lo fe­risce.
Questa doppia tendenza spiega l'istinto realistico, che tutti gli stranieri hanno sempre attribuito agli italiani. Quante volte hanno osservato l'italiano più semplice nella situazione più complicata: senza quasi ri­flettere, animato da un rapidis­simo e agilissimo intuito, egli comprende quali forze sono al­l'opera, perché un fatto accade o non accade, quali rapporti in­tercorrono tra i protagonisti; e il suo sesto senso, una facoltà tra intellettuale e animalesca, gli fa pronunciare le uniche pa­role giuste e compiere il solo ge­sto appropriato. Soccorsa da questo istinto, una lacera e astuta moltitudine di Arlecchi­ni e di Pulcinella è sopravvissu­ta per secoli, scivolando tra le difficoltà, insinuando­si in ogni buco, fug­gendo davanti al peri­colo, correndo dove intravedeva una pic­cola luce. Non voglio glorificarli, sebbene io creda che la nostra vecchia facoltà di "ar­rangiarsi" potrebbe esserci ancora prezio­sa nel mondo moder­no: nient'affatto uniforme, ma vario, molteplice, diversifi­catissimo, complicatissimo. Ma perché dimenticare un altro aspetto del nostro istinto realistico? L'atten­zione quasi fatale per le soffe­renze degli altri: la capacità immediata di comprendere le ra­gioni di un dolore: la prontezza e la delicatezza nel portare aiu­to: la mano che soccorre e si na­sconde; e, ciò che è più raro, l'improvvisa dimenticanza del bene compiuto,come se chi aiu­ta non obbedisse a un dovere, ma ad una antica abitudine.
Vivendo tra limiti reali, l'ita­liano volta facilmente le spalle a ciò che gli sembra troppo alto, estremo e lontano. Ama gli orizzonti chiusi da una collina, da una siepe di cipressi o d'alloro, da un'isola presso la foce di un fiume. L'esercizio sovrano del pensiero lo induce in sospetto: la tragedia assoluta gli ripugna; la luce troppo intensa che scen­de dal cielo, la tenebra troppo vasta e fonda che sale dalle not­ti lo inducono a soffermarsi nel­le penombre, dove il luminoso e l'oscuro si intrecciano vaga­mente. Se crede in Dio, non può fare a meno di toglierlo dalla so­litudine: lo dispone in mezzo al mondo creato, e lo circonda con una moltitudine di inter­mediari, santi, immagini, fe­ste, cerimonie, che creano tra il cielo e la terra una scala spet­tacolare. Qualche volta vi è, in tutto questo, una specie di vo­cazione alla mediocrità. Qual­che volta, un intuito più profondo: esso induce a pensare che le cose supreme ed estreme non possano mai venire dette con parole umane. Dobbiamo mo­derarle, mitigarle, tenerle lon­tane da noi. Mentre scriviamo o parliamo di altre cose, le ricor­diamo con un cenno, un inchi­no o ub_450_324_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_1860-Storia_popolare_p.046.jpgna cauta allusione.
Tutte queste qualità diverse producono una serie talora viol­entissima di tensioni. La ten­sione di apparire: quella di sof­frire, di sopportare, di capire, di sopravvivere, di tenere lonta­no... Così scorgiamo spesso, nei volti più semplici, i segni della nevrastenia: la smorfia patetica di chi tenta inutilmente di ca­povolgere in commedia la de­bolezza psichica più disperata, o di chi cerca di esistere come persona mentre tutto lo spinge­rebbe ad andare in frantumi. Tanto più preziosa sembra dun­que la naturalezza italica, che un tempo attrasse tanti stranie­ri. Non è nata dalla ingenua e immediata armonia con sé stes­si, o dalla semplice felicità di esistere. E´ nata dallo sforzo e dalla tensione interna, dissimu­lati fino a diventare natura. I segreti e le angosce vengono di­menticati. Nemmeno una soffe­renza traspare dal volto. Il ge­sto si stacca dal corpo, come se non costasse il minimo sforzo: l'azione si scioglie spontanea­mente, e la parola noncurante e leggera esprime una confiden­za con sé stesso, col proprio passato e col proprio futuro, che nulla, nel profondo, può as­sicurare.
Nella vita d'oggi, ci sono mo­menti nei quali un popolo come il nostro sembra, all'improvvi­so, detestabile. Allora studiamo nei nostri volti e nei nostri mo­di le affinità che ci legano agli altri italiani: con raccapriccio ci scopriamo affini; e vorrem­mo troncare per sempre questo nodo, cambiando lingua, men­te, costumi, e vivendo il resto della vita lungo i canali di Am­sterdam o in Tasmania. Sono momenti di stiz­za, di rabbia, di rancore, tipi­camente italiani, che non dura­no a lungo. Ma da cosa nasco­no? Perché sono tanto frequenti? Perché è così complicato esse­re italiani? Sui vizi del nostro popolo esiste una copiosissima letteratura, quasi tutta di terz'ordine. Quando vogliamo averli davanti alla memoria, basta pensare che quell'ignobile attore, quell'astuto evocatore di fantasmi che fu Mussolini seppe indivi­duarli tutti nelle pieghe più nascoste del nostro paese, e li portò ingigantiti sulla scena pubblica: la mediocrità intellettuale, la fragilità nervosa, la bassa furbizia, la vanteria falli­ca, la presunzione immotivata, la fantasticheria a occhi aperti, il rozzo buon senso, il disprezzo per le idee, l'arroganza verba­le... Se gli studiosi di psicologia avessero sempre ragione, dovremmo essere grati a Mussoli­ni: egli ha portato alla luce ciò che prima di lui il nostro paese aveva represso, e così abbiamo conosciuto que­sti peccati, e pos­siamo liberarce­ne. Purtroppo, gli studiosi di psicologia non hanno sempre ragione. Gli istinti, i desideri, i sogni, una volta che si sono sca­tenati fuori dalle caverne del no­stro io, non vi rientrano più: continuano ad aggirarsi per il mondo, si diffondono, si moltiplicano, e contaminano le persone più lontane. Così due generazioni dopo la morte di Mussolini, i vi­zi che egli ha evocato continua­no ad avvelenare l'animo di chi non l'ha mai conosciuto.
b_450_365_16777215_01_images_Nord-Sud_Questione_meridionale_1860-Storia_popolare_p.063.jpgDietro questi vizi, si cela un meccanismo psicologico sin­golare. Come certi alberi; arrivati a un periodo del loro svi­uppo, accusano un'improvvi­a debolezza, si ammalano e presentano a chi li guarda foglie affumicate e chiazzate, così gli italiani non sanno matu­rare. Nel complesso di azioni e reazioni, che trasforma un giovane in un adulto, un adulto in un vecchio, un popolano in un borghese, un borghese in un potente, qualcosa si inceppa, si arresta e si ferma. Non sappiamo crescere. Prendo il caso più semplice: il numero grandissimo di talenti, che viene sprecato sciupato e buttato via in Italia. Giovani intelligenti, pronti e sensibili, in cui sem­brava giusto riporre le speranze più lusinghiere, si perdono continuamente. Qualcuno di loro ripete per anni le stesse pa­role, come un malinconico au­toma. Qualcuno si involgarisce, travolto da peccati mental­i, che si annidavano in una parte segreta di lui. Qualcuno si spegn­e e nessuno potrebbe immaginare che quell'uomo vuoto, sciocco e arrogante sia stato il ragazzo più intelligente della sua classe.
Altri riescono invec­e a far maturare il proprio talento: danno rapidamente il meglio di sé, e a quarant'anni, dirigono industrie, guidano partiti, insegnano all'università, scri­vono libri. Ma, un giorno, uno di questi uomini acuti e vivaci si guarda allo specchio e, per qualche misteriosa ragione, si innamora perdutamente di sé. Da quel giorno, quest'uomo è finito. Tutto ciò che è, fa o scrive, persino i vestiti, le scarpe che porta, i cibi che preferisce, i gesti che accenna diventa enormemente significativo e viene proposto all'ammirazione e all'imitazione degli altri. Non è più un uomo, ma una statua inumata, un mausoleo vivente, una bandiera che garrisce al vento della Patria. Così il paeaggio italiano si copre di grevi puerili cariatidi di carne.
Stanno dovunque. Fanno i professori d'università, i direttori di giornali, gli amministratori delegati, i banchieri, i dentisti, i giudici, i segretari di partito. In­vecchiando, peggiorano. Il pic­colo, abilissimo industriale di­venta un goffo presidente della Confindustria: l'onesto e scru­poloso deputato un mediocre sottosegretario, e poi un cattivo ministro, e poi un infimo presi­dente del Consiglio e, infine, al culmine squillante delle sue glorie, un tediosissimo presi­dente della Repubblica.
Credo che questa difficoltà o incapacità di crescere possa spiegare alcuni paradossi del carattere italiano. Siamo un popolo che apprezza natural­mente la qualità assurda ed ec­centrica del riso; e a volte nes­suno è luttuoso, tetro, incapace di comprendere l'ironia come un italiano. La nostra tradizio­ne popolare ama il tocco legge­ro e discreto; e trattia­mo le cose irrilevanti come fossero dram­matiche faccende di Stato. Siamo misurati, e riusciamo gonfi, esa­gerati, retorici. Siamo naturali, e sembriamo goffi. Siamo capaci di sopportare, e non ab­biamo pazienza. Amiamo la forma, e vi­viamo nell'informe. Comprendiamo acu­tamente la realtà; e nemmeno un russo dell'Ottocento, lettore di cattiva filosofia tedesca, e ubriaco, si smarrirebbe nelle più noiose vacuità dell'astra­zione come un italiano d'oggi, innamorato delle parole altrui prese in prestito.
Chissà se riusciremo mai a crescere. E' l'arte più difficile che esista. Non si impara a ca­sa, né a scuola, né sui libri, né dagli psicologi, né sugli articoli di giornale. La vita si rifiuta te­nacemente di insegnare que­st'arte a chi non la intuisce per proprio conto. Forse la impare­remo di colpo, nel corso di una notte, in una di quelle improv­vise e drammatiche trasforma­zioni, che cambiano il carattere delle persone, dei popoli, e il volto del mondo.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?