Il congresso del partito socialista unitario, da cui Salvemini prese lo spunto per questo suo articolo, si svolse a Firenze nella prima settimana del dicembre 1949. Per cercare di capire come ci si arrivò e che significato politico ebbe occorre dare un breve sguardo alle complicatissime vicende dell'area socialista. Dopo la catastrofe del 18 aprile, il Psi, nel congresso straordinario di Genova (1948), fece registrare la parziale vittoria di Riccardo Lombardi, stretto fra la sinistra frontista e la destra di Giuseppe Romita. Un anno dopo (congresso di Firenze del maggio 1949), il partito era dì nuovo nelle mani dei filocomunisti.
Romita, a questo punto, cominciò a spostarsi verso il partito socialista dei lavoratori italiani, diviso anch'esso fra varie tendenze e in fase di assestamento politico-ideologico. La leadership di Giuseppe Saragat veniva duramente contestata ed era in discussione l'eterna questione della collaborazione o non collaborazione governativa. In mezzo a un turbine di polemiche, il congresso di Firenze, invece di produrre l'unificazione del gruppo Romita con il Psi, generò un'ulteriore scissione col passaggio di alcuni senatori e deputati dal partito di Saragat al nuovo partito di Romita, che non per questo rinunciò a chiamarsi unitario. Nonostante successivi accorpamenti. l'area della cosiddetta terza forza (socialista e non) restava, più che mai, un universo politico ideologicamente e organizzativamente disintegrato.
Paolo Bonetti
Se mi fosse lecito esprimere una franca opinione (in questo paese di clericali mezzo comunisti e di comunisti mezzo clericali, nel quale esprimere una franca opinione è diventata roba da manicomio) direi francamente che tanto la mozione ideologica quanto la mozione programmatica, approvate in Firenze dal congresso dei socialisti unitari, sono un capolavoro di corbellerie. Ma sono corbellerie innocue. Da mezzo secolo tutti i congressi socialisti di tutto il mondo, qualunque tendenza vi prevalga (e ce ne sono di tendenze!), non mancano mai di votare corbellerie ideologiche e programmatiche dello stesso genere, le quali però non fanno male a nessuno, perché nessuno se ne ricorda più dopo averle votate, e non se ne ricordano più neanche coloro che nelle commissioni preparatorie hanno sudato sette camicie per ponzarle.
Con tutto questo mi pare che il Congresso sia l'indice confortante di una nuova disposizione psicologica, che si è andata lentamente maturando nel paese.
Dopo la campagna elettorale del 18 aprile 1948 e dopo la vittoria clericale in quella campagna, né clericali né comunisti si sono mai occupati di proporre soluzioni serie, cioè concrete e immediatamente praticabili, per nessuno dei problemi vitali che pur stringono alla gola il popolo italiano.
La tecnica dei clericali e dei comunisti in Italia si riduce in tutte le elezioni nazionali, regionali, provinciali, comunali a presentare al popolo italiano un solo problema: se si debba preferire Pio XII a Stalin o viceversa. I clericali sanno che la maggioranza degli elettori italiani, fino a quando non vi sia una terza alternativa, preferiranno sempre Pio XII a Stalin. E i comunisti, nella aspettativa sonnambula della crisi finale della struttura capitalistica italiana, e magari mondiale, credono di essere sempre interessati a non lasciare al popolo italiano altra opzione che quella fra Pio XII e Stalin; fallito Pio XII, non resterebbe che Stalin.
De Gasperi applica, ed è logico nell'applicarla, la tecnica o Pio XII o Stalin e nessuna altra alternativa. Se ha incluso e ritornerà ad includere nella sua capponaia deputati repubblicani, socialisti e liberali, non lo fa perché abbia positivamente bisogno di siffatti trapeli. La sua maggioranza parlamentare può vivere benissimo di vita propria e trasformare il governo in potere e il potere in regime. De Gasperi tiene nella sua capponaia quei poveri diavoli senza autorità e senza prestigio perché dentro la capponaia non gli danno noia, mentre fuori potrebbero diventare pericolosi, funzionando come centri di cristallizzazione per formazioni politiche indipendenti e dai clericali e dai comunisti. A questo pericolo De Gasperi vuole far argine e vi farà argine col solo metodo che abbia sottomano, anche se per applicarlo deve sfidare le vociferazioni dei clericali più ciechi e più fanatici, organizzati nell'Azione cattolica e manovrati da dei gesuiti.
Due anni or sono, quando tornai in Italia dopo ventidue anni di assenza, trovai ovunque migliaia, dico migliaia, di persone che erano disgustate di tutti i gruppi antifascisti tradizionali, e si erano ritirati nel proprio guscio, dolenti di rimanere isolate e impotenti. Nella estate scorsa quelle persone le ritrovai tutte più disgustate, più isolate e impotenti che mai. Ma nei loro spiriti, oltre alla opinione desolata che non c'era modo di opporsi alla penetrazione senza discrezione e senza scrupoli dei clericali in tutti i capillari economici, amministrativi, scolastici, dell'organismo statale, c'era un senso di indignazione per quella prepotenza altrui e impotenza propria, e un senso di irritazione contro i comunisti che avevano reso possibile il sorgere di siffatta situazione e contro quei socialisti, repubblicani e liberali che facevano le capriole innanzi al carro dei vincitori.
Ci sono in Italia migliaia di sottotenenti, sergenti e caporali che raccoglierebbero intorno a sé un vasto esercito di uomini e donne (una 'terza forza') se avessero la certezza di obbedire a uno stato maggiore non asservito alle miserabili vanità di persone, che, diventate ministri, non sono in fondo, come scrisse una volta Ernesto Rossi, che 'bischeri in automobile'.
Quei sottotenenti, sergenti e caporali che sono convenuti al Congresso di Firenze da tutta l'Italia, si sono messi in moto perché hanno sentito albeggiare la speranza che non serviranno anche questa volta alle vanità di qualche 'bischero in automobile', perché hanno sentito che occorreva finalmente dire basta a chi pretende continuare in eterno a fare il gioco e dei clericali e dei comunisti, mettendosi al servizio dei clericali, in odio ai comunisti.
Sono socialisti, come risulta, senza possibilità di equivoco, dalle corbellerie di cui hanno infarcito la loro dichiarazione ideologica e la loro dichiarazione programmatica. Ma, come ho detto, si tratta di esercitazioni che da mezzo secolo hanno fatto la barba, e di cui nessuno si occupa, né per consentirvi né per dissentirne. Al di sotto di quelle elucubrazioni, di cui non possono fare a meno i piccoli borghesi intellettuali che hanno letto (o piuttosto non hanno mai letto) Carlo Marx, c'è una esigenza sempre viva e sempre fresca: quella del socialismo a cui crede il proletariato vero, che di Carlo Marx conosce solo i ritratti.
Da quando ero piccina, mi diceva pochi giorni or sono una donna del popolo, io sono stata sempre socialista. 'Che cosa intendi per socialista?'. Intendo che ci dovrebbe essere un po' di bene per tutti. Mi avvicino alla vecchiaia; allora non potrò più lavorare; non è giusto che io vada a Montedomini o a domandare l'elemosina. Quella donna non aveva mai domandato in vita sua la socializzazione degli strumenti di produzione e di scambio. Su mille seguaci dell'apparato comunista, forse non uno ha un'idea precisa di quel che gli darebbe Baffone', ma tutti vogliono un po' di bene per tutt'. Gli uomini raccolti a Firenze vogliono che ci sia un po' di bene per tutti, anche se hanno sepolta questa loro umanità, che è la sorgente perenne del socialismo, sotto una piramide di parole insulse. Non solo vogliono un po' di bene per tutti, ma sentono che quel po' di bene per tutti si può raggiungere soltanto attraverso una azione politica nuova, nella quale non si sperperino attività preziose, come sono state sperperate negli anni trascorsi.
Con questo non affermo che non vi siano pericoli nel socialismo degli uomini convenuti a Firenze. Di tanto in tanto è affiorata nelle discussioni ed ha fatto capolino anche nelle su lodate dichiarazioni una pretesa di monopolizzare per i socialisti unitari ogni forma di azione che non sia né clericale né comunista. Auguro con tutto il cuore che questa pretesa resti nelle dichiarazioni di cui nessuno già si ricorda.
Oltre alle possibilità di un partito socialista democratico, indipendente e dai clericali e dai comunisti, esistono in Italia numerosissime altre forze non disposte a lasciarsi classificare come socialiste, ma disposte a collaborare coi socialisti per la soluzione dei grandi problemi nazionali. La 'terza forza', né clericale né comunista, non può essere chiusa nella gabbia di un partito socialista e nient'altro; dovrebbe essere organizzata in una confederazione fra gruppi di centro sinistra, e di sinistra, nella quale il partito socialista democratico avrebbe il suo posto naturale, ma non dovrebbe pretendere nessun predominio.
I gruppi di centro sinistra e di sinistra dovrebbero conservare ciascuno la propria ideologia e la propria organizzazione, ma tutti dovrebbero impegnarsi ad una azione comune per la conquista di quella mezza dozzina di grandi riforme che sono necessarie al paese, delle quali non si occupano né clericali né comunisti. Riforme che non debbono essere solamente elencate, tanto per far con esse un po' di baccano, nei giorni delle elezioni. Debbono essere proposte concrete, immediate, per ogni problema di cui si riconosce la urgenza vitale per il paese. E bisogna organizzare una propaganda sistematica intorno a quelle soluzioni, ciascun partito per mezzo della propria organizzazione. Esaurito quel primo programma immediato comune, si vedrebbe poi se la confederazione dovrebbe disciogliersi o rinnovarsi intorno ad un programma nuovo.
Per tutti i problemi che affaticano la vita italiana in questi momenti c'è una soluzione che non è né dei clericali né dei comunisti. Questa è la ragione per cui in Italia c'è posto per una terza forza, cioè per uomini che non vendano né a destra né a sinistra il loro diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie. Ma per distinguere chi è disposto da chi non è disposto a vendere la sua primogenitura, bisogna mettere tutti innanzi ai problemi reali della vita italiana, e costringerli a dichiarare se accettano per quei problemi certe soluzioni ben definite o no: Patto atlantico ed organizzazione militare che dovrebbe derivarne; Piano Marshall e trucchi con cui i suoi fondi sono sperperati miseramente; problema doganale; problema fondiario e agrario; disoccupazione operaia; istituti parassitari parastatali; corruzione e incompetenza della burocrazia statale e delle burocrazie regionali, provinciali e comunali; scuole che scatenano ogni anno sul paese diluvi di analfabeti che debbono essere assorbiti dalla burocrazia, oppure infettano tutti i capillari della vita economica e morale; relazione tra i poteri secolari e le autorità ecclesiastiche, e (nodo intorno a cui si sviluppano tutti gli altri problemi) la questione meridionale.
Non è facile formulare soluzioni concrete per questi problemi. D'accordo. È assai più facile scombiccherare dichiarazioni ideologiche e programmatiche. Ma se non si comincia dal formulare quelle soluzioni, 'i bischeri in automobile' sbucheranno da tutte le parti alla prima occasione; perché se voi avete qualcosa di concreto da domandare a chi vi invita ad andare al governo, e quel qualcosa di concreto è rifiutato, voi dovete rifiutarvi di andare al governo a mani vuote: cioè dovete andarvene per 'la via della terza forza'. Se invece non avete niente da domandare, tutte le occasioni saranno buone per combinare pateracchi o coi clericali o coi comunisti.
Quali gruppi potrebbero formare una confederazione di centro sinistra?
Il Partito Socialista Unitario, costituitosi a Firenze, certamente. Il Partito Repubblicano, certamente. Il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, diverso dal partito unitario, certamente. Un Partito Liberale di Sinistra, certamente; ma ai liberali di sinistra occorrerebbe domandare parecchi chiarimenti sulle riforme immediate per cui sarebbero disposti ad impegnarsi: che la sola laicità non può coprire tutte le necessità della vita italiana presente. E anche ad un partito socialista, staccatesi dai socialconfusionisti, si dovrebbe riconoscere il diritto ad una organizzazione a sé, se volesse conservarsi autonomo. È naturale che tutti questi partiti prima di confederarsi si dovrebbero sbarazzare dei loro 'bischeri in automobile', in servizio o potenziali.
Fra tutti questi partiti non ci sarebbero discussioni ideologiche. Ognuno conserverebbe le ideologie proprie e le scombicchererebbe a modo suo nei propri congressi. Le discussioni avverrebbero solamente sulle soluzioni concrete e immediate di quei problemi dei quali si riconoscesse la gravita e l'urgenza. Ma su quelle soluzioni si impegnerebbero tutti i gruppi confederati.
Sarebbe desiderabile che il comitato direttivo del Partito Socialista Unitario affidasse immediatamente ad una commissione di tre persone serie l'ufficio di consultare tecnici che aiutino a definire le soluzioni più ragionevoli dei problemi nazionali più urgenti. Tale commissione non dovrebbe dare, come Mosè dal monte Sinai, nessuna tavola di nessuna nuova legge. Dovrebbe elaborare proposte da discutere in un congresso nazionale, al quale interverrebbero delegati designati dai gruppi disposti a formare la confederazione di centro sinistra e sinistra; in esso si accerterebbe se è possibile una azione comune o almeno per quali gruppi essa è possibile.
Belle idee, forse. Ma tutte le speranze fiorite in questi giorni si dissiperanno in breve se i socialisti unitari e i loro eventuali confederati cercheranno successi elettorali immediati e ridistribuzioni di portafogli ministeriali a brevi scadenze, invece di dedicarsi ad un piano, almeno quinquennale, di propaganda e di organizzazione nel paese, allo scopo di far sentire la necessità di certe soluzioni, e non di correre dietro a fate morgane parlamentari.
Il punto debole delle mie... ideologie è proprio qui, fuori dei clericali e fuori dei comunisti c'è ancora in Italia troppa gente che vuole resultati immediati. 'O mi fate ministro o vi faccio una rivoluzione': è un dilemma dal quale molti non sanno come uscire. Ebbene da questo dilemma bisogna uscire. E solamente un piano di soluzioni concrete e immediate per i problemi italiani vitali, dimostrando l'impossibilità di accordi o compromessi, sia coi clericali, sia coi comunisti, può rompere il circolo magico di quel dilemma.
La repubblica italiana del 1946 è stata definita la repubblica monarchica dei preti. Anche la repubblica francese del 1871 fu una repubblica monarchica dei preti. Ma dopo soli sette anni, nel 1877, diventò una repubblica repubblicana e anticlericale. C'erano in Francia uomini, che, invece di mettersi servilmente in coda ai monarchici e ai preti, seppero rimanere al loro posto, aspettare, prepararsi tecnicamente ai loro futuri doveri di governo: e, aiutati dalle bestialità dei monarchici e dei preti, vinsero.
Perché non potrebbe avvenire lo stesso nella repubblica italiana? Pochi uomini colla testa sulle spalle e coi piedi per terra, che abbandonassero i perditempo ideologici, si mettessero a lavorare per far sentire al paese la necessità di certe soluzioni concrete ai grandi problemi della vita pubblica, e sapessero aspettare, aspettare, aspettare: quei pochi uomini potrebbero fare il miracolo.
Gaetano Salvemini