Limes 2007-4-4925
di Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini
Un’indagine Demos-Coop rivela ambiguità e paradossi del nostro approccio all’immigrazione. Crescono, specie fra i giovani, i favorevoli alla piena integrazione degli ‘stranieri’. Ma aumentano anche paure e diffidenze.
1. L’attenzione dell'opinione pubblica al tema dell’immigrazione è salita nuovamente, in questi ultimi mesi. Sull’onda emotiva suscitata da fatti di cronaca recenti, come la rivolta nel quartiere cinese di Milano dell’aprile scorso o la tragica fine, nella metropolitana romana, di Vanessa Russo, per mano di una giovane immigrata romena, Doina Matei. Ma anche sulla scia di quanto avviene nella vasta provincia italiana: i furti nelle case, la cosiddetta microcriminalità, che produce, però, una paura 'macro' e diffusa. Episodi legati alle comunità nomadi, come ad Appignano del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, dove sempre nello scorso aprile uno zingaro in stato di ebbrezza ha travolto con l’auto quattro ragazzi del luogo, deceduti nell’incidente. A questi fatti si aggiungono i periodici sbarchi di clandestini sulle coste meridionali.
Così, l’inquietudine è tornata a diffondersi, riproponendo divisioni antiche, fra gli stranieri e noi. Almeno, questo è quanto emerge dalla lettura mediatica e dalle dichiarazioni di alcuni attori politici. I dati dell’indagine Demos-Coop 1 che presentiamo in queste pagine, rivelano però atteggiamenti contrastanti. Sicuramente, il senso di paura suscitato dalla presenza straniera è aumentato, nell’ultimo periodo.
Ma altri atteggiamenti espressi dagli intervistati segnalano il persistere di significativi elementi di apertura. È largamente condivisa l’idea che gli immigrati debbano godere dei diritti di cittadinanza, come quello di voto. L’immigrazione, allo stesso tempo, continua ad essere percepita da ampi settori della popolazione, specie del Nord Italia, come un fenomeno necessario all’economia e alle imprese.
L’ambivalenza degli orientamenti registrati riflette, da un lato, l’approccio sensazionalistico al fenomeno dell’immigrazione tipico dei media, che tendono a dare grande risalto a storie di violenza e di paura. Dall’altro lato, sembra riflettere gli incerti messaggi trasmessi dalla politica: tendenzialmente rassicuranti e inquadrati in una prospettiva solidarista quelli provenienti dal centrosinistra e dal mondo cattolico; più allarmisti quelli lanciati dall’opposizione e dagli attori politicamente schierati a destra. Il cleavage politico, pertanto, continua ad esercitare un peso rilevante sugli atteggiamenti delle persone in materia di immigrazione.
2. Il numero degli stranieri, in Italia, è cresciuto vertiginosamente. Stando ai dati sugli immigrati regolari, nel 1969 il ministero dell’Interno ha rilasciato 164 mila permessi, di cui una parte significativa a persone provenienti da paesi sviluppati.
La stima della presenza regolare al 1° gennaio 2006, secondo l’Istat, è di 2.767.964 unità, mentre secondo il XVI Rapporto sull’immigrazione della Caritas, avrebbero già superato i 3 milioni. Nel frattempo, è cambiato anche il profilo degli immigrati, che in numero sempre maggiore provengono da paesi in via di sviluppo, o che hanno subito profonde trasformazioni sul piano politico e istituzionale, come nel caso dei paesi dell’Europa orientale.
L’immigrazione resta comunque un argomento spinoso. Anche paesi che in materia hanno un’esperienza ben superiore all’Italia - Francia, Olanda, Inghilterra e Germania - sono alle prese, da qualche tempo, con problemi di integrazione piuttosto seri. Nel caso italiano, però, il fenomeno ha conosciuto una dinamica straordinaria, tanto che la presenza straniera ha superato, in poco più di dieci anni, la media europea. Le stime più recenti dicono che l’incidenza degli immigrati, nella penisola, è del 5,2% sulla popolazione, con una forte concentrazione nelle regioni del Centro-Nord e in alcune specifiche province.
Tuttavia, il paesaggio sociale non ne risulta sconvolto. L’immigrazione è cresciuta molto, ma non ha causato lacerazioni. Il tessuto urbano che caratterizza il territorio nazionale - fatto in larga misura di piccoli paesi, anziché di grandi centri urbani e di banlieues - ha attenuato l’impatto del fenomeno, favorendo livelli di integrazione piuttosto elevati. Ciò nonostante, gli immigrati costituiscono motivo di inquietudine crescente presso gli italiani. Il tema della sicurezza, che negli ultimi anni è stato al centro del dibattito pubblico e di manifestazioni di carattere politico, viene spesso associato a quello dell’immigrazione.
Rispetto a dieci anni fa, il numero degli immigrati con regolare permesso di soggiorno è più che triplicato in Italia. Slavi, argentini, filippini, etiopi, che negli anni Settanta e Ottanta formavano le comunità più numerose, erano praticamente 'invisibili' nella società italiana, dal momento che il loro numero ammontava a poche migliaia. Oggi, il numero di marocchini, albanesi, romeni, ucraini e cinesi, per citare solo alcune delle nazionalità più presenti, è letteralmente esploso, attestandosi nell’ordine delle centinaia di migliaia.
Aumentano, di conseguenza, le occasioni di contatto tra italiani e migranti: sul luogo di lavoro, a scuola, nei locali e nelle piazze. Tali relazioni, se da un lato alimentano diffidenza e paura, dall’altro sembrano talvolta favorire il processo di integrazione: i dati raccolti da Demos lo dimostrano in modo esplicito. Gli stranieri sono ormai parte della quotidianità di molti italiani: più di uno su tre afferma di condividere un’amicizia con qualche immigrato, oppure di avere relazioni in ambito lavorativo (36%). Una percentuale appena inferiore afferma che tra i propri vicini di casa vi sono stranieri (27%), oppure che i propri figli hanno dei compagni di scuola provenienti da altri paesi, o figli di immigrati (33%). Sempre più spesso, gli immigrati sono a servizio presso le abitazioni degli italiani, in qualità di collaboratori domestici o badanti, preziosi in una società che invecchia progressivamente.
Si tratta di dati in sensibile crescita rispetto al 2003, quando le stesse informazioni sono state rilevate da un’altra indagine realizzata da Demos (figura 1). La crescita più consistente delle occasioni di contatto con gli immigrati passa anzitutto attraverso la figura della badante (dal 9 al 16%), del compagno di scuola (dal 19 al 33%) e del collaboratore domestico (dal 5 all’8%). Del resto, le statistiche ufficiali riportano, dal 2003 a oggi, una crescita della popolazione immigrata di quasi un milione di persone. In particolare, le recenti stime sui lavoratori domestici - regolari e non - oscillano tra 1 milione e 1 milione e 600 mila (Iref, 2007 2), mentre gli studenti con cittadinanza straniera sono ormai quasi 500 mila.

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Un tipo di relazione che riveste particolare interesse è l’amicizia tra italiani e immigrati. Essa è una relazione spontanea e volontaria, non riconducibile a situazioni di necessità - come per i rapporti di tipo lavorativo - o di contatto 'involontario' - come nel caso del vicinato o della scuola. È interessante notare come questo tipo di relazioni presentino una diversa diffusione in relazione alle classi d’età (figura 2). Le persone di una certa età dichiarano di avere meno amici tra le persone immigrate. Ovviamente, il fattore anagrafico si lega ad una serie di opportunità effettive di stringere relazioni con gli immigrati (e non solo): i soggetti più anziani sono in misura maggiore al di fuori del mercato del lavoro, hanno reti amicali meno estese, tendono a coltivare relazioni ormai consolidate nel tempo. Inoltre, come è noto, sentimenti di diffidenza sono sicuramente più diffusi tra i soggetti socialmente più deboli, come, appunto, le persone con un’età più elevata. I 55 anni, da questo punto di vista, si pongono come uno spartiacque. Superata questa soglia, circa una persona su quattro dichiara di avere amici che provengono da altri paesi. Tra i più giovani, invece, il dato sale oltre il 40%: ciò, in prospettiva, suggerisce indizi positivi circa il processo di integrazione tra autoctoni e immigrati.
3. Oggi come ieri l’immigrazione è vista con timore dagli italiani, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sulla sicurezza. Il recente Rapporto sulla criminalità del ministero dell’Interno mette in evidenza come l’evoluzione geografica dei reati, negli ultimi anni, rifletta almeno in parte la geografia dell’immigrazione. Nel corso degli anni Novanta, la diffusione di alcuni reati è cresciuta soprattutto nel Centro-Nord, dove, parallelamente, la presenza straniera è aumentata in modo più consistente. A sottolineare tale aspetto contribuisce l’incremento della percentuale di stranieri sul totale delle persone denunciate, per quanto l’incidenza degli immigrati, tra gli autori dei delitti, riguardi nella grande maggioranza dei casi gli irregolari.
Ciò nondimeno, questi eventi favoriscono il diffondersi di un clima di allarmismo sociale. Esiste dunque un problema legato alla sicurezza che, come sottolinea il dossier Caritas, preoccupa gli stessi stranieri, i quali temono ricadute negative sulla loro immagine presso gli italiani.

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Il sondaggio registra come il numero di quanti vedono l’immigrazione come un problema per l’ordine pubblico sia tornato quasi ai livelli registrati nel 1999 (tabella 1). Il 43% delle persone interpellate vede infatti gli stranieri come una minaccia per la sicurezza, mentre lo stesso indicatore si fermava, solo tre anni fa, sei punti percentuali più in basso. L’allarme sociale, rispetto al passato, investe però anche altre dimensioni: si è allargata, in particolare, la componente che percepisce gli immigrati come un pericolo per l’identità nazionale, la cultura, la religione (35%), oppure come un pericolo per l’occupazione (34%). Diminuisce, coerentemente, la quota di cittadini che vede gli immigrati come una risorsa per l’economia (dal 46 al 42%), oppure come un fattore che favorisce l’apertura culturale (46%). Si tratta, anche in questo caso, di percezioni fortemente legate all’età e, ancor più, all’orientamento politico. Ad esprimere maggiore apertura sono, infatti, le giovani generazioni. Gli elettori del centrodestra appaiono preoccupati soprattutto per l’integrità culturale e per la sicurezza (tabella 2). Quelli di centrosinistra, invece, hanno degli immigrati un’immagine diversa: riconoscono loro una funzione sociale importante, valorizzandoli come risorsa per lo sviluppo economico e come stimolo per l’apertura culturale.

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Il sentimento di diffidenza risulta più elevato tra i soggetti che non conoscono gli immigrati, perchè non hanno contatti con loro, oppure tra le persone che li frequentano solo in modo saltuario (tabella 3). Si tratta di un dato che segnala una situazione di diffuso pregiudizio nei confronti dei nuovi arrivati. Chi li conosce attraverso un contatto diretto, mediante esperienze legate alla quotidianità (scuola, lavoro, vicinato, amicizia eccetera), matura un atteggiamento di maggiore apertura.
Quei tratti di criticità sottolineati dagli italiani che non hanno occasione di frequentarli - o li frequentano solo in modo limitato - si stemperano sensibilmente presso chi, invece, ha con loro un rapporto più intenso.
La categoria di immigrato e, più ancora, quella di extracomunitario hanno assunto, nel tempo, una connotazione che limita il campo semantico di queste parole.
Nelle rappresentazioni sociali esse vengono associate, generalmente, a persone provenienti da un paese povero: dai paesi dell’Est, dall’Africa, dall’America Latina o dall’Oriente. Non certo a chi emigra da paesi sviluppati e si trova in Italia per ragioni diverse, magari ricoprendo un ruolo professionale di altro profilo. Per questo, è difficile pensare, ed 'etichettare', un americano o uno svizzero come extracomunitario.

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Inoltre, dentro questa categoria ricadono gruppi nazionali diversi, che godono di una reputazione sociale fortemente differenziata.
Se chiediamo agli italiani di esprimere il proprio livello di fiducia verso alcuni grandi gruppi etnico-nazionali, osserviamo, innanzitutto, che il maggiore grado di diffidenza si indirizza verso le persone provenienti dai paesi arabi: solo un cittadino su tre - senza variazioni apprezzabili negli ultimi anni - esprime fiducia nei loro confronti (34%). Seguono gli immigrati di origine balcanica (albanesi, slavi, romeni eccetera) e i cinesi. Per entrambi questi gruppi, il livello di fiducia si attesta attorno al 43%. Nei confronti dei cinesi, il clima è diventato più ostile nel tempo: rispetto alle rilevazioni condotte qualche anno fa, è diminuita sensibilmente la componente di italiani che afferma di riporvi fiducia. È evidente che gli eventi di via Paolo Sarpi, a Milano, hanno influenzato negativamente la percezione di questo gruppo. Probabilmente, tale episodio 'congiunturale' ha accentuato una caduta di fiducia già in atto, dovuta a ragioni più 'strutturali', che si legano, in particolare, alle accuse di concorrenza sleale e alle paure generate dai processi di delocalizzazione produttiva in Cina. Resta invece più o meno stabile, nella scala della fiducia, la posizione degli immigrati provenienti dall’ex Unione Sovietica e dai paesi dell’Europa centrorientale (come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia).
Circa una persona su due manifesta fiducia nei loro confronti. Anche le persone che giungono in Italia da 'altri paesi in via di sviluppo' sembrano aver perso qualche punto, nel corso del tempo, sebbene il livello di fiducia si attesti, tutt’oggi, su valori elevati: oltre la metà degli intervistati, infatti, esprime un orientamento positivo nei loro confronti (tabella 4).

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4. L’estensione dell’inquietudine prodotta dai fenomeni migratori e il deterioramento del clima d’opinione nei confronti degli stranieri ha delle ripercussioni, piuttosto evidenti, anche sul modello di integrazione ritenuto maggiormente efficace.
Gli italiani, rispetto a qualche anno fa, condividono maggiormente un’idea di integrazione che prevede l’adeguamento alla nostra cultura e alle nostre tradizioni (tabella 5). La componente di persone che suggeriscono questa impostazione ha conosciuto una crescita notevole, nell’ultimo periodo: dal 37% del 2001 al 45% del 2003, fino a raggiungere, oggi, la soglia del 58%.
Questa evoluzione testimonia come la crescita della tensione attorno al tema dell’immigrazione spinga verso l’affermazione di un approccio di tipo assimilazionista.
In modo speculare, solleva maggiori perplessità il modello basato sul mantenimento delle tradizioni di origine, condiviso da una porzione decrescente dell’opinione pubblica. All’inizio del 2001, poco meno di una persona su due (48%) riteneva opportuno che gli immigrati fossero inseriti nelle comunità che li ospitano, conservando però la cultura e le tradizioni del paese di origine. Tale quota è scesa al 38%, nel 2003, e successivamente si è ridotta ad appena un quarto della popolazione.
Lo scarto fra queste due diverse visioni tende ad accentuarsi soprattutto nelle generazioni più anziane, mentre fra i più giovani il modello che potremmo definire multiculturalista riscuote maggiore consenso. Questo orientamento sembra confermare le altre risultanze dell’indagine: tra chi ha meno di 25 anni, il 36% vede con favore la possibilità che gli immigrati 'portino' nel nostro paese le proprie abitudini, i propri costumi e tradizioni, ma tale componente si assottiglia al crescere dell’età, fino a ridursi sotto il 14% superati i 65 anni (figura 3). Tra le persone più anziane, in altre parole, gli equilibri si spostano, nettamente, in favore di una concezione assimilazionista. La porzione residua di intervistati, infine, si distribuisce fra le due posizioni estreme, più scettiche circa l’ipotesi di integrazione dei nuovi arrivati: circa il 4% ritiene giusto che gli immigrati vivano fra di loro, mantenendo la propria cultura e le proprie tradizioni; l’11% (era il 6% all’inizio del 2001) che l’integrazione non sia possibile, che ognuno dovrebbe 'restare a casa sua'.

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Secondo lei....
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Non è venuta meno, tuttavia, la disponibilità alla concessione dei diritti, che costituisce un elemento tradizionale della realtà italiana. Ben tre persone su quattro, ad esempio, pensano che gli immigrati debbano avere accesso alle case popolari.
Estendere il diritto di voto agli immigrati (regolari) è, da molto tempo, ritenuto giusto dalla maggioranza degli italiani: il 75% è d’accordo nel caso delle elezioni amministrative, il 65% anche per quelle politiche. Va segnalato che tale disponibilità si è sensibilmente allargata, nel corso degli ultimi anni, mentre le ipotesi di leggi in questo senso, ventilate tempo fa, non sembrano procedere con altrettanta velocità.
Sul fronte sociale, invece, la quota di persone pronte a concedere il diritto di voto anche alle elezioni per il parlamento nazionale è lievitata di oltre dieci punti nell’arco di soli tre anni: si fermava, infatti, al 53% nel 2004. Anche in questo caso, le differenze dettate dall’appartenenza politica del rispondente sono piuttosto nette.
L’apertura alla concessione delle case popolari, ad esempio, raggiunge l’86% fra gli elettori dell’Unione, mentre si ferma quasi venti punti più in basso tra chi si dichiara di centrodestra (figura 4). Lo stesso schema si ripropone relativamente al diritto di voto. Va segnalato, comunque, che anche presso l’elettorato della Casa delle libertà la concessione del voto è ritenuta opportuna da un’ampia maggioranza.
Insomma: la distanza nei confronti degli stranieri si è allargata. Tuttavia, gli italiani continuano a guardare con largo favore la concessione dei diritti di cittadinanza politica e sociale agli immigrati 'regolari', che paghino regolarmente le tasse.
Ciò contribuisce a precisare uno dei principali fattori di inquietudine: la condizione di 'irregolarità', che caratterizza molti immigrati, entrati clandestinamente nel paese e spesso assorbiti da aziende 'regolari', ma, in molti casi, reclutati nei circuiti dell’illegalità (e della criminalità).
5. L’Italia, negli ultimi anni, è diventata un paese ad alto tasso di immigrazione.
E la popolazione straniera è destinata a crescere ancora, nel prossimo futuro, visti gli indici annui di incremento. Ma i sentimenti e gli argomenti che prevalgono, a questo proposito, sembrano guidati soprattutto dal pregiudizio, dalle ideologie, oppure dalle semplificazioni che talvolta producono i media. Le stesse posizioni espresse dalle forze politiche tendono a seguire schemi preconcetti, spesso volti alla massimizzazione dei vantaggi politici. Da un lato, si registra la tentazione di capitalizzare, dal punto di vista elettorale, le ansie dei cittadini, rischiando però di alimentarle ulteriormente. Dall’altro lato, si rischia di scivolare nell’errore opposto, quello del 'giustificazionismo a prescindere', come se il problema della sicurezza, in alcuni contesti, non fosse 'anche' collegato all’immigrazione (clandestina).
Ma l’immigrazione è di per sé un problema, peraltro complesso, e come qualsiasi altra problematica sociale va regolata. La legislazione in materia si è preoccupata soprattutto di arginare i flussi migratori, oppure ha risposto con soluzioni tampone, come le sanatorie, che suggeriscono la mancanza di un progetto di lungo periodo.
La stessa legge Bossi-Fini concepisce l’immigrato come lavoratore temporaneo, destinato a rientrare nel proprio paese, secondo una logica che esclude, a priori, una prospettiva di integrazione.
Così, il costo e il peso dell’accoglienza (e dell’integrazione) è ricaduto, quasi interamente, sul volontariato, sulle amministrazioni e sulle comunità locali. Il territorio ha reagito, tuttavia, in modo efficace, fornendo riposte locali ad una questione globale. Dando luogo ad alcuni apparenti paradossi. Come quello del Nord e del Nordest: regioni che esprimono, al contempo, i livelli massimi di preoccupazione e di integrazione. Regioni roccaforte della Lega, partito che ha tenuto, in questi anni, le posizioni più intransigenti in materia di immigrazione. Ma che, nei fatti, dove governa ha favorito l’inserimento degli immigrati. Appoggiando le imprese, le associazioni sindacali e imprenditoriali, l’associazionismo cattolico e laico.
L’Italia come 'paese dei paradossi' non è un’immagine nuova. L’«arte di arrangiarsi» degli italiani, e le best practices, che pure si registrano sul territorio, non bastano però a dare risposta alle domande che solleva un fenomeno vasto e complesso come quello dell’immigrazione.