L'economia dello spazio di questo lavoro, per una rincorsa storica, non ci consente che accenni a volo, in rapida sintesi.
Preliminarmente occorre rimuovere ancora una volta due gravi errori, uno storico e l'altro storiografico, in cui tuttora persiste la pigrizia di cronisti odierni nel richiamarsi a inesattezze, soprattutto anacronistiche, di cronisti del secolo scorso.
Nel 567 i Longobardi risiedono ancora nella Pannonia: non possono ancora essere presenti in Italia, e tantomeno sul Gargano. Dopo una serie di contestazioni, gli storici convengono che essi si sono mossi verso l'Italia il giorno delle Palme del 568.
La presenza longobarda nel Gargano è da spostare di oltre un secolo e mezzo: i due estremi cronologici vanno dal longobardo Grimoaldo, duca di Benevento, al franco Ludovico II, re d'Italia e poi imperatore, e cioè dal 650 all'874-5, data della morte di Ludovico II a Brescia, e non a Milano come scrivono i suddetti cronisti. Fatto prigioniero dai Longobardi lo stesso Ludovico II, tennero ancora il campo i Longobardi fino a quando non si affermarono i Normanni e si estinse l'ormai fragile presenza bizantina.
Si deve però all'autorità bizantina il primo documento che ci è pervenuto, del 1007: si richiama ad esso, nel sancire e riconoscere possessi e diritti del monastero di San Giovanni in Lamis, nel 1095 Enrico conte di Monte Sant'Angelo e Lucera.
Ora, e questo l'altro errore, ritenere che la storia vera del feudo o suffeudo benedettino abbia inizio da questa data è una banalità dovuta a carenza di capacità nell'interpretare e collocare nel contesto storico un atto documentario. Alle soglie del nuovo millennio quel documento attesta che già la badia benedettina è nel pieno possesso di un feudo o suffeudo con tutte le inerenti prerogative feudali, oltre quelle religiose. Vi è stato quindi, ovviamente, un'incubazione, con sviluppi e progressi che risalgono indubbiamente al periodo franco-longobardo, e cioè alla presenza di Ludovico II sul Gargano, ormai rimossi slavi e saraceni, e, scomparso il re imperatore, a una più estesa e predominante influenza dei Longobardi. Questi si affrancarono della presenza del re Ludovico facendolo prigioniero (871) e beneficiando di una maggiore libertà dopo la sua morte.
Inoltre non si devono accantonare leggende e tradizioni che potrebbero avere un preciso riferimento storico (Nota 9).
Per tradizione nel grand'Archivio della Trinità della Cava (dei Tirreni), e del detto San Marco, leggevasi che presso un fu tempio di Giano là eressero i Benedettini a S. Giovanni un Ospizio, comodo a' pellegrini di S. Michele sotto i Longobardi lor divoti (Nota 10).
Federico II di Svevia opererà una prima e autoritaria decurtazione avocando a sé San Giovanni Rotondo. Più insistente l'erosione angioina, a cominciare dagli stessi membri della famiglia reale e poi dei mercanti e imprenditori e banchieri piovuti dalla Provenza, fino a quando l'avidità della Curia avignonese la incorporò definitivamente tra i suoi possessi per diritto di vassallaggio.
Con l'avidità angioina (antica lupa dalla fame senza fine cupa, Dante) ha inizio il periodo più triste della storia della badia che si protrae per circa tre secoli (1327-1578). È il tempo nefasto del parassita istituto degli abati commendatari, ma, sotto l'aspetto venale, la preda della badia è pur sempre una fonte cospicua di proventi variamente ambiti e contesi. Con 'grande briga' la commenda era appetita inizialmente da papi e antipapi (Urbano VI e Clemente VII) e dai più illustri casati italiani: i Fortiguerra, i Carafa, i Colonna, i Farnese, i Sanseverino, i Sacchetti e i Pignatelli; e tra questi, due futuri papi: Paolo III e Innocenze XII, un Farnese e un Pignatelli. La leggenda vuole che il poverello d'Assisi sia passato per San Matteo, allora badia di San Giovanni in Lamis, ma dei suddetti si può esser certi che nessuno vi abbia impresso orma di sorta.
Quindi avvenne che nel sec. XVI la badia di San Giovanni in Lamis cambiò nome in quello di badia di San Marco in Lamis, ponendo sede nell'attuale palazzo badiale. Il monastero invece, espressione feudale, prese il modesto nome di convento di San Matteo.
E alfine apparve Francesco nelle due valli.
Per dirla ancora con Dante, il nuovo Sole, sorto dall'Oriente umbro (Ascesi), rifulse nelle due valli nel pieno meriggio del Cinquecento.
Già agli inizi del secolo mutano i soggetti storici, e una nuova e diversa vita germoglia nelle due valli di San Marco in Lamis.
I nuovi soggetti provengono dalla base e sono i popolani del borgo e i poverelli di Assisi in limpida e profìcua umiltà.
Sarà uno di San Marco in Lamis, nuovo borgo che si avvia a divenire città, Donatello Compagnone, di cui si dirà oltre, a esigere, come recita un lapideo testo, che anche chi comanda ha il dovere, evangelico e morale, di dare la mercede agli operai, con l'obbligo di remunerare il lavoro; oltre ai diritti civici acquisiti e concessi.
A Stignano agli inizi del Cinquecento già la valle è risonante di ardore costruttivo. Agli oboli del popolo devoto, all'apporto determinante del signore di Castelpagano si aggiunse la provvida mano francescana nel condurre a termine, con lunga tenacia e stimolo per oltre un secolo l'opera architettonica che costituisce tuttora il più splendido gioiello del Rinascimento dell'intero Gargano.
Eguale e parallelo il fervore di attività costruttiva dei francescani al vertice dello Starale. Inverso il percorso ricostruttivo: si partiva dal nulla col patetico lascito di un convento in rovina e abbandonato allo scempio per la cinica incuria degli abati commendatari. Fu giocoforza stringere il cordone e rimboccare le maniche, dote non secondaria di ogni autentico francescano intraprendente, nato col 'mal della pietra' e di cui tuttora, come si dirà, fu provvida ventura. E così non c'era più il potente monastero benedettino, ma un possente convento, frutto dell'assidua e prodigiosa operosità dei figli di Francesco, il cui lustro trisecolare fu contemporaneo a quello di Stignano. La diversa opera costruttiva poneva in evidenza i molteplici aspetti dell'attività francescana. Ricche di iniziative le due comunità, entrambe numerose per frati e addetti: là prevalse il centro culturale con l'avvio professionale per la milizia delle giovani leve ('per tre secoli fu casa di noviziato per i frati della provincia di S. Angelo'); qui ai molteplici doveri di ufficio per il santuario si univa un'industre attività manuale: la 'pannifca officina' che forniva l'abito talare ai frati della provincia monastica e rotoli di pannilani a privati.
Ricco, dunque, per numero, il nutrito popolo di frati prodigiosamente attivo nelle due comunità. Si rileva tanto non con la nostalgia per l'odierna carenza delle vocazioni, ma con l'accorata caritas per chi va incontro alle penose conseguenze dei tempi mutati.
Duro e letale il vento della storia per Stignano: alla imposta chiusura del convento nel 1862; alla conseguente diaspora dei frati; allo scempio dell'occupazione militare e operaia per la costruenda strada per San Severo; all'avidità di possidenti locali, favoriti dalle leggi nell'annettersi beni terrieri, orti e giardini; al patetico tentativo nel primo decennio del Novecento di una ripresa, sia pur limitata, per iniziativa promossa da spiccate personalità della provincia monastica; al totale e definitivo abbandono da parte dei frati durante e dopo la prima guerra mondiale, si aggiunse, durante la seconda e dopo, la totale devastazione, essendo divenuto l'intero complesso sede strategica per abigeatari e briganti.
E doleva il cuore vedere quelle gentili architetture offese dal tanfo delle stalle e dalle lordure degli ovili.
E come non esprimere un doveroso senso civico, morale e di riconoscenza verso chi, bandendo con coraggio ladri, armenti e greggi, dal 1953 ha compiuto il prodigio di un'autentica resurrezione del convento e del santuario, restituendo a entrambi l'antico volto con rinnovato splendore e permanente efficienza?
Non meno triste la sorte dei frati di San Matteo, costretti tutti a lasciare ogni cosa diletta più caramente: di colpo infranta una molteplice attività in opere di fede, di culto, di studi e di manuale industria, la quale col ritmo altalenante delle spole scandiva la pace dei giorni nell'alto della valle.
La municipalità locale si trovò di sorpresa divisa nell'animo e impari a un diverso compito amministrativo. Il Comune divenne l'unico padrone, e non lieve il disagio per un sindaco che apparteneva a quella famiglia che a Stignano, con escogitazioni giuridiche, appellandosi finanche alle regole della povertà francescana, e con legali inganni, attese alla totale spoliazione dei frati.
E per San Matteo accadde l'incredibile e il paradossale.
Già nel primo triennio postunitario drammatica era la situazione per briganti e frati in combutta borbonica; per la sospettosità allarmata dei nuovi padroni; per l'arruffìo di leggi diversamente interpretate, con zelo dalle autorità locali e con una certa tolleranza dal centro del potere; di qui la sconcordanza degli uffici addetti nel triangolo burocratico Foggia-Napoli-Torino (come nel caso dell'applicazione della legge penale nei confronti dei religiosi di San Matteo, rei di aver fatto i voti solenni e di essersi ordinati in sacris, senza la richiesta autorizzazione del Governo); e si giunse così a una trentennale agonia col rischio di una morte definitiva.
Nel luglio del 1866 il luogotenente generale Eugenio di Savoia decretava la soppressione generale di tutti gli Ordini religiosi. Furono così mandati via i circa cinquanta frati della comunità e gli agenti demaniali entrarono in possesso del convento. A detta degli stessi frati, il convento si ridusse a taverna-trattoria-locanda, ovvero, come dirà un altro frate:
il Municipio à respinta la domanda da me fatta per lo fìtto del convento a nome del Ministro Generale, perché si parlava di cose inammissibili (per il Comune), cioè: di mettere colà la disciplina regolare, ristaurare il culto religioso eco. Insomma si vuole sopra S. Matteo la cuccagna e la taverna (Nota 12).
Ad alimentare la pallida fiamma di una speranza in tempi migliori, i francescani tenevano l'esile filo di una vitalità sempre lì a spezzarsi irreparabilmente per tenaci mire e briglie. Tra mille difficoltà, si dibattevano in una situazione paradossale: erano inquilini paganti per locali di cui essi erano stati legittimi possessori trisecolari.
Si badi inoltre a due dati significativi, varianti in ordine proporzionale inverso: quanto più lunga la durata del tempo di locazione, tanto più basso il prezzo del fitto.
Effetti di un mea culpa storico? Molte le motivazioni nel lento mutarsi degli eventi e la conseguente maturazione di una ben diversa temperie storica e politica. Preliminarmente un movente di fondo: agli inizi del nuovo secolo la presenza del popolo come protagonista. Lo intuì un padre francescano con vero senso storico. Sia pure riferendosi alle anzidette interdizioni disposte con fermezza dal Provinciale e dal Vescovo contro i tre frati ribelli e alla conseguente reazione popolare, egli rilevava: La coscienza del popolo si era svegliata. Si era svegliata e premeva contro gli atteggiamenti ostili della parte anticlericale e gli interessi particulari di alcuni preposti alla cosa pubblica.
A tanto è da aggiungere un'altra ineliminabile forza popolare, sulla quale hanno sempre contato, ieri quanto oggi, i custodi del santuario: il concorso immenso dei devoti e dei pellegrini, come già faceva rilevare un Ministro provinciale al Generale in Roma in una sua relazione del 1872.
Benemerito interprete della mutata temperie storica e politica e del quasi unanime atteggiamento del popolo fu il sindaco e poi podestà del Comune di San Marco in Lamis. Questi, come già si è detto, nel 1906 estese la durata della locazione a ventinove anni; come dire: sine die. E finalmente nel 1933, ancora questo primo cittadino, indotto dal
sentimento popolare unanimemente proteso nel culto dell'Evangelista e nella simpatia verso i frati che officiano la chiesa ed amministrano il convento' dichiara 'che, indipendentemente da ogni altra considerazione, è doveroso riconoscere che ove i Minori Osservanti non avessero, con grande sacrificio del loro Ordine, profuso tangibili ricchezze per la manutenione degli stabili di che trattasi, la Chiesa stessa di S. Matteo nonché il convento e pertinenze sarebbero, ora, per l'abbandono in cui erano ridotti, un cumulo di rovine.
Si dirà: ecco ciò che avviene quando il popolo si desta. In verità: non solo, ma anche.
Agli inizi del Novecento non mancarono bagliori di ripresa dovuti a padri consapevoli e responsabili.
Nell'agosto del 1902 il convento di San Matteo fu designato a studio di teologia e, a darne efficienza, si aggiunse nel 1905 il buon governo del nuovo Ministro provinciale e l'attività di spiccate personalità nel campo degli studi e del culto; e, inoltre, all'ombra del convento sorse il villaggio di San Matteo, favorito dagli stessi frati benemeriti. Ma con la prima guerra mondiale la desolazione invase ancora una volta l'intero complesso. E si aggiunse un breve respiro di ripresa nell'immediato dopoguerra; di frequente convento e santuario furono affidati alla ristretta cura del solo padre guardiano.
Il 1940, dunque, segna una svolta determinante nella storia del santuario e del convento: chiude un tormentoso ottantennio di ansie per le vacillanti sorti di San Matteo e dà l'avvio a una prorompente rinascita i cui mirabili sviluppi, dovuti a una insonne operosità semisecolare, sono ora sotto i nostri occhi.
Dopo un temuto naufragio, una provvidenziale scolta di giovani francescani di serafiche virtù, dotati per talento, volontà, capacità e audace spirito di iniziativa, ha indubbiamente già scritto un luminoso capitolo, il primo dall'Unità d'Italia.
Con verace sensibilità hanno essi avvertito la vocazione fondamentale del luogo: sito destinato a una prima sosta votiva nel percorso della via sacra dei Longobardi che porta dalla via francesca al Monte dell'Angelo e ora anche alla nuova pienza.
Hanno così riafferrato e rinsaldato il filo di una vitalità che perdura da più di un millennio. E, pertanto, si sale oggi al Monte con lo stesso spirito con cui nel secolo ottavo guadagnarono la montagna sacra le nutrite schiere dei longobardi.
E poiché, ora è qualche decennio, alacri studiosi hanno scoperto segni documentari, unici in Italia, dell'antico linguaggio germanico, chi scrive non ha ancora dimesso la speranza che, esplorando residui nelle infime e intime viscere delle ciclopiche mura, non affiori il remoto messaggio di qualche graffito runico.