Lascio agli antropologi una presunta differenza di tempo nello sviluppo precoce del cranio dei garganici nel confronto di un contesto europeo. Né è il caso di dar molto peso se in un convegno irrisi studiosi e medici di una nota cllnica che ritenevano di riscontrare un particolare elemento fisiologico, non ricordo se nel sangue o nel cervello, di cui l'homo garganicus sarebbe dotato. Mi attengo soltanto al riscontro di un fenomeno analogico di una certa evidenza, tornando così a quei mezzi sensibili, vista, gusto, olfatto e via dicendo, con i quali memoria e fantasia fanno un loro divino giuoco e svelano più cose.
Mi limito a riscontrare fatti ed eventi dove la imprevedibile fantasia della natura, dell'uomo e, se vogliamo, di un Iddio divertito e contento meglio dimostra a un tempo estro, inventiva e geometrica razionalità.
E si perdoni anche questa altra dichiarativa preliminare.
A parte l'età di ieri e di oggi, avvolgiamo con uno sguardo, affettuosamente umano, gli alberi di questa valle; di questa terra amara e avara di acqua preziosa e casta, dove i limiti di un orizzonte destano un'ansia verticale verso sconfinate altezze, ma che si ripiega, poi, nella saggia serenità di chi è contento di esser nato in questo perfetto orto concluso.
Qui il severo ammonimento del suo respiro crea una volontà di ferro a uomini, animali, alberi e cose contro ogni avversità che il luogo impone; e la rudezza del nativo carattere si piega a una lima per una tempera più fina.
Guardiamo dunque queste querce, questi castagni, faggi, gattìci, mandorli e ulivi espressi con prepotenza di vita da una terra matrigna ed esposti all'imperio dei venti e ai capricci degli eventi meteorologici e storici.
Rompe la roccia la nostra quercia e la violenza della forza esalta la vittoriosa insistenza di esistere. Una secolare pazienza le fa raggiungere, così, superbe altezze. Estende la sua vasta chioma ai tempestosi concerti del vento e alla vibrante armonia di foglie, di nidi e di uccelli.
Abbrancata la roccia, gareggia con la rocca del convento.
Una volta, quando erano infante, ci si aggirava nel folto tra gli intercolunni dei tronchi, lieti di errare nell'architettura di un tempio vegetale.
Ma non sorprenda scorgere analogie tra il volto umano e quello vegetale.
Quelle fibrose radici avvinte alla pietra sono l'equivalente delle adunche mani incallite e degli arti del nostro uomo dei campi. Il quale, nel suo tenace e ostinato lavoro, mostra allo scoperto nervi, tendini, vene e arterie nella loro scabra ed efficiente essenzialità.
Il suo volto, segnato dalla fatica, ha la lignea rigidezza bizantina del volto del suo Santo. Ma non è la quercia, nel suo nome etimologico latino e botanico, quercus robur, sinonimo di robustezza fìsica e di fortezza morale?
E c'era una volta una quercia cara a noi scolari di greco e di latino, prossimi agli esami e chini sulle meraviglie della immaginosa poesia di Omero. Non era certamente la quercia sacra di Dodona in Epiro, dotata di potere oracolare e di estatiche magie, ma noi ci arrampicavamo fin sulla vetta di quella nostra quercia per scorgere San Matteo dal basso della valle e trarne buoni auspici per l'avventura dei prossimi esami.
E talvolta con minuta pazienza incidevamo sulla foglia più larga di un faggio il volto del Santo per averlo benevolo propiziatore. Poiché questi faggi garganici con la loro amabile ombra invitano alla confidenza, al colloquio tenuto con patriarcale saggezza dai nostri nonni.
Egualmente essi ci avvertivano di non suggere il venefico latice che sgorgava dalle foglie staccate dai rami degli ornelli. Ma c'era chi, scettico, ci provava o entrava in tentazione, desideroso di apprendere.
Cari poggi, dove onesti ornelli vivevano in girotondo; e noi li abbracciavamo danzando a loro intorno tenendoci per mano. E c'è un poggio che ha accolto le nostre più intime confidenze, dolce poggio con un sedile di pietra all'ombra di un ornello, per le contemplazioni più estatiche, guardando San Matteo.
E il cerro? Il cerro è un albero che tra gli altri sa distinguere soltanto chi è addetto al lavoro della terra. Nella vulgata locale, invece, cerro è sinonimo di albero, estensivo quindi a tutto il popolo arboreo di boschi, ville, giardini e orti.
Ma il cerro è ferro. La sua presunta durezza lignea vuol dire, metaforicamente pensando agli abitanti: testarda, ostinata, puntigliosa; analogamente si dice anche:
È ciccuto come la nostra pietra.
Ebbro di solitudine, tocca il cielo e aspira al monumento.
Campeggia su poggi, prati e radure ed è un richiamo astronomico nell'orizzonte rurale.
E non è forse il castagno l'emblema più calzante e significante del carattere della nostra gente?
Si attiene sì, a vivere in colonia, cioè in comunità, ma si esalta e si afferma isolato tra altre numerose individualità. Il legame arboreo, più che spontaneo e casuale, a quello umano si affida allo stimolo impulsivo di un senso civico che non è ancora un nesso collettivo. Si vuol dire che nelle spiccate individualità di nostra gente si desidera e auspica la formazione di una più diffusa coscienza storica al fine di una più intensa, doverosa e profìcua sensibilità civica.
Comunque sia, in questa contrada i castagni sono ancora tanti e tante anche le individualità affermatesi che questa terra tuttora generosamente produce.
Ma dove sono gli estesi castagneti di una volta nel sonante Starale e attorno a San Matteo? Sono ora un rimpianto, ma un tempo vanto, come ci apprendono i nati nell'Ottocento, e ricordati dalle memorie di due amabili preti. Il primo, in un suo diario inedito non privo di interesse storico, li descrive con ammirazione e ingenuo spavento perché animati da fantasmi sassaioli. Il secondo, in una sua gustosa ode scherzosa, così canta con orgoglio:
E Sammatteo superbo e bello
Domina come forte Castello;
E più d'appresso ridente e lieto
Un Castagneto.
E a prova del proficuo rapporto tra terra e uomo, ecco in proposito un accenno:
Tu del Gargano primo Paese
Terra d'ingegni e di Poesia sei patria mia. (Nota 5)Non guasti per finire un perfinire.
Dolci nella memoria, due erano belli e di gentile aspetto, dioscuri castagni, eretti sul ciglio di una vigna a petto e a sfida dell'alto convento.
Nel giorno di un agosto lontano uno, colpito a morte, cadde di schianto. Due turisti svizzeri, attratti dalla loro grandiosità, da quello alto, sublime e dall'altro stramazzato, accorsero per fotografare lo scempio. Rimbrottarono per averne abbattuto già uno, trattandolo da barbaro, il mio amico contadino. Ma questi, accarezzando il tronco del "morto", con mesta semplicità li fulminò dicendo:
Lo ha colpito il fulmine.
Ancora una volta si rivolge una preghiera a chi vorrà leggere queste pagine. A suo conforto ci si consenta di ricordare che qui non si inventa una vuota realtà a perdere con forzature e lenocini. Vi è bensì lo sforzo, pur ricorrendo a immagini e analogie, di rendere alcuni aspetti di una realtà vera con l'ausilio di testi tratti dall'arte e dalla scienza.
I linguaggi della poesia e della scienza distendono i significati, tirano le parole, rendendole trasparenti in due modi diversi: la poesia cerca di cogliere, come in un lampo, la fuga prospettica di ciò che si nasconde sotto la superfìcie, percorrendo fulmineamente tutta la scala. La scienza cerca di isolare l'ultimo significato, il più lontano e invisibile fra tutti. (Nota 6)
Torniamo, così, per concludere, al raffronto con gli alberi, ai nostri ulivi pugliesi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. In merito, a sostegno, si cede la parola a uno scienziato di razza, esperto in considerazioni su incidenze e coincidenze tra natura e uomo, congiunti in una eguale, misteriosa e parallela architettura organizzativa.
Mentre rimuginavo su questi fatti [cioè incidenze e coincidenze in più casi notate e anche in rapporto in uno stato d'animo particolare] mi correvano intorno le immagini degli stupendi ulivi pugliesi. Mi chiedevo in quale modo si potesse estrinsecare la sofferenza del mondo vegetale, e allora consideravo che gli ulivi della Puglia non sono lineari nelle loro forme perché presentano tronchi e rami che portano a pensare a fisiche espressioni di sofferenza. Il loro legno è contorto, più volte girato su se stesso; brancolano a mezz'aria, tendono al cielo ma il vento li piega sulla terra e il loro aspetto - forse la stessa loro Vita - assume i connotati della lotta. Hanno un colore che li rende simili ai nostri contadini anziani, bru&ciati dal sole, arsi dalla sete, con lo sguardo che esprime una tristezza che è rassegnazione e basta (Nota 7).
E non basta ancora. Andando oltre per la visibilità dell'occulto, alle immagini della scienza e dell'arte si aggiungono quelle della fede.
Tutti ancora possono riscontrare questo vistoso fenomeno percorrendo la riva garganica da Torre Mileto a Capoiale. Questi ulivi e non solo essi, sono esposti ai persistenti urti del maestrale. Questo vento, noto agli uomini del mare, s'infila e rinforza lungo l'intero Adriatico, contorce tronchi e piega rami che all'impeto dei colpi lambiscono il suolo.
Certa è dunque la loro sofferenza fisica. Non mancavano un tempo questi gentili ulivi così provati anche nelle due valli di
In quel tempo un nostro maestro di catechismo, un memorabile maestro alla buona di tanti fanciulli di strada, ce li additava: soffrono, sì, per tanta offesa dei venti, ma pare che, come noi, si pieghino e inchinino devoti per pregare e implorare i nostri santi e scongiurare così anche le tempeste della vita.
Giace nel verde di una profonda luce la Pinciara, piccola valle, conchiglia di serena bellezza a un passo dal santuario, rapido rifugio a sollievo di un'angoscia e lavacro da ogni pena.
E giace là anche la giovinezza di tanti del mio tempo: quando ci perdevamo nel verde; e tessendo il sole, con le mani a imbuto urlavamo fingendoci smarriti, ma per meglio ascoltare le risonanze arcane del bosco e della valle.
E vi ricordo, gattici d'argento dal candido alto fusto, con le foglie vive e vibratili, tutt'occhi dal duplice sguardo, ora verde ora bianco a ogni alito del vento. E c'era chi si fingeva re della foresta col nome di un eroe salgariano; e poi disparve nella tempesta bellica tra le nevi della Russia.
Una fulgida letizia lampeggiava nei suoi occhi e in quelli azzurrini dei non ti scordar di me. Salì un giorno arditamente su uno di questi alberi felici, Con nitida evidenza e rilievo gli si stagliò la possente mole di San Matteo:
È una grande nave ancorata saldamente a uno scoglio e nel vuoto; e così vince i marosi della storia.
È certezza che sono trascorsi più che tredici secoli dalla triangolare lotta per il potere tra Saraceni, Franchi e Longobardi, e dieci da quando questi ultimi ebbero alla fine la meglio in quel remoto Novecento prima del Mille.
Ma nella verde ebbrezza di quell'ora giovanile la nostra speranza era che quel San Matteo assicurasse anche a noi l'eternità.
Vennero invece, con guerre e carbonai, le squadre della morte.
Funesti e funebri i colpi delle scuri e delle accette; e a ogni tonfo d'albero, uno schianto al cuore.
Non ho osato più mettervi piede.
Io, scheggia superstite di quel tempo, conservo ancora una scaglia di uno di quei gattici.